Lesvos è anche qui

In una conca alle spalle di Molyvos, nell’estremità nord dell’isola di Lesvos, c’è quello che viene chiamato il cimitero dei giubbotti di salvataggio. Per nascondere ai pochi turisti il disastro della politica europea di chiusura delle frontiere ai migranti, le autorità locali nel 2015 hanno iniziato ad ammassare in questo luogo ciò che rimane delle drammatiche traversate in mare: giubbotti di salvataggio di varie misure, parti di gommoni e pezzi di imbarcazioni, scarpine, pantaloni, motori fuori bordo fracassati. Per anni questo luogo è stato l’icona della cosiddetta crisi dei rifugiati sulle isole greche. Oggi i brandelli dei giubbotti di salvataggio, sbiaditi dal sole, non sono più sulle prime pagine dei giornali ma la situazione non è cambiata.

Solo 8,9 km separano l’area settentrionale dell’isola dalla costa turca. In questo braccio di mare sono sempre presenti i pattugliatori della guardia costiera greca. Secondo l’Aegean Boat Report nelle prime due settimane di giugno sono state respinte in mare 36 imbarcazioni per un totale di 943 persone, mentre sarebbero solo tre le imbarcazioni approdate in Grecia, due a Lesvos ed una a Kos. In queste operazioni è attiva anche la guardia costiera italiana che, nel quadro di Frontex, impiega un pattugliatore nelle acque di Lesvos. Sempre l’Aegean Boat Report segnala che la guardia costiera greca sta effettuando respingimenti illegali. Il 28 maggio scorso sono sbarcate a Lesvos 49 persone: 32 di esse, anziché essere registrate, sono state da terra ricondotte con la forza in mare a bordo di un pattugliatore militare greco ed abbandonate di fronte alle coste turche a bordo di una zattera di salvataggio.

Chi viene trattato a norma di legge non viene abbandonato in mare ma, come richiedente asilo, si trova a vivere costretto nei campi. A Lesvos al momento, oltre al campo di quarantena di Megala Therma nel nord dell’isola, è attivo un solo campo, quello di Mavrovouni, chiamato anche Moria 2.0 per le condizioni disumane del centro. La struttura è gestita dal governo greco, in una zona militare che è stata per quasi un secolo un’area per esercitazioni di tiro. In questo periodo circa 6.500 persone risiedono nel campo; gran parte di esse vivono in tende formate da una struttura in pannelli di truciolato coperta da teli dell’UNHCR e su ogni tenda è scritto con vernice spray un numero progressivo.

Sono circa un migliaio. Un’area, riservata alla popolazione afghana, è costituita da tende più piccole montate all’interno di grandi tensostrutture. La gestione di questi campi è basata sulla divisione della popolazione in base al luogo d’origine: Afghanistan, Siria, Iraq, Repubblica Democratica del Congo, Camerun, Somalia, Iran. La zona sud, sulla riva del mare, è quella dove le tende sono più malmesse e dove la situazione igienica sembra più difficile, con fogne a cielo aperto. In tutto il campo vi sono solo bagni chimici mobili, una dozzina in ogni area del campo. Chi è costretto a stare nelle tende cerca di vivere con dignità. Sono le autorità a mantenere le persone in condizioni degradanti e pericolose e lo fanno scientemente, dal momento che non si è di fronte ad un’emergenza temporanea.

Le stesse autorità mantengono il campo sotto uno stretto controllo di polizia. La struttura è chiusa da un’alta recinzione con filo spinato e postazioni di controllo lungo il perimetro, mentre al cancello sono sempre presenti bus blindati con squadre antisommossa e, all’interno, lungo le strade, tra le tende, passano continuamente pattuglie della polizia a piedi e in auto. All’interno inoltre è ancora presente un’area militare. Di fatto è una struttura detentiva, una prigione. Nel campo sono presenti numerose ONG attive dall’ambito sanitario a quello alimentare. Come in altri simili contesti alcune di queste organizzazioni svolgono un lavoro importante, in certi casi anche critico rispetto alla gestione della struttura, ma al contempo riproducono le dinamiche di internamento del campo, divenendo parte delle forme di controllo della stessa istituzione di cui di fatto si trovano a coprire le mancanze.

Le persone che vivono nel campo sono come dei prigionieri. Tra l’altro la possibilità di uscire dal campo è stata estremamente ridotta nel corso della pandemia: le autorità hanno infatti colto l’occasione per imporre regole molto restrittive che – tranne che per attività esterne giustificate e documentabili – permettono di uscire solo in alcuni giorni, seguendo una turnazione in base al numero di matricola, solo per quattro ore.

Rispetto al vecchio campo di Moria, bruciato a settembre 2020, Moria 2.0 è meno isolato, si trova a poco più di 4 km dal principale centro dell’isola, Mytilene. Nella zona hanno sede alcune delle ONG che lavorano fuori dal campo e che danno possibilità alle persone di uscire dalla struttura per svolgere attività, come Yoga and Sport With Refugees, o che garantiscono in spazi comunitari alcuni servizi, come One Happy Family, la cui scuola fu distrutta a marzo 2020 dai fascisti con un attacco incendiario.

Lo scorso 10 giugno Medici senza Frontiere ha pubblicato il rapporto “Hotspot in Grecia: la crisi costruita alle frontiere dell’Europa” che denuncia la terribile situazione del sistema dei campi hotspot sulle isole greche a cinque anni dagli accordi tra UE e Turchia del 2016. Secondo i dati presentati nel documento, durante questo quinquennio,180.000 persone sono passate attraverso le isole greche dell’Egeo, 847 sono morte durante la traversata in mare, 21 sono morte nei campi. MSF dedica particolare spazio ai problemi di salute mentale nella popolazione dei campi ed anche in merito a questo ci sono dati precisi. 1.369 persone sono state curate dalle cliniche di MSF nei campi di Lesvos, Chios e Samos tra il 2019 e il 2020: di questi 180 erano casi di autolesionismo e due terzi erano bambini. Tra le cause principali di tali malesseri nel report si trova ovviamente la precarietà delle condizioni di vita nei campi. Questi numeri non rappresentano che la punta di un iceberg, se consideriamo che non tutti sono curati da MSF e c’è chi neanche viene curato, ancora di più se consideriamo che queste “malattie” hanno una dimensione sociale e collettiva che va ben al di là del singolo caso personale che le cliniche, tanto più se interne ai campi, non possono certo curare.

Chi vive nel campo infatti dice che “per non diventare pazzi” uscire è fondamentale. C’è chi ha vissuto più di un anno al vecchio campo di Moria, ha vissuto l’incendio e ora da nove mesi vive a Moria 2.0. Molti si muovono dalle tende solo per andare a ritirare il pasto, molti non escono quasi mai dal campo, anche potendo, perché spesso per uscire bisogna insistere con le guardie all’ingresso e, una volta usciti, nel centro di Mytilene, la polizia ti controlla continuamente e cerca ogni pretesto per multarti o anche solo spaventarti, mentre alcuni negozianti cercano di truffarti, mentre la barriera di diffidenza e ostilità nelle strade è palpabile. In ogni caso uscire dal campo e dalle sue dinamiche è fondamentale per chi vive là da prigioniero. Ma l’intera isola è una grande prigione a cielo aperto.

A rendere Lesvos una prigione contribuisce di certo anche la massiccia presenza militare. È zona di frontiera con la Turchia, con cui i rapporti sono storicamente tesi; sull’isola vi sono quindi numerose installazioni militari e migliaia di giovani vengono spediti là ogni anno per svolgere il servizio militare obbligatorio. Durante le tensioni tra Turchia e Grecia dell’estate 2020 gli aerei militari turchi sfrecciavano bassi su Mytilene ed i nazionalisti locali invocavano la militarizzazione dell’isola in vista della guerra che ritenevano imminente. In questo contesto la pressione nei confronti dei richiedenti asilo era ovviamente molto forte.

Negli ultimi anni a Lesvos è cresciuta a vari livelli l’ostilità nei confronti dei richiedenti asilo e rifugiati. Certo ci sono alcuni gruppi attivi a livello politico e sociale in una prospettiva di solidarietà che è anche presente in una parte della società ma, se in passato i casi di solidarietà spontanei, dal basso, erano relativamente frequenti, ora la situazione è molto diversa.

Dopotutto come avviene in contesti simili in altre zone del Mediterraneo, anche qui le autorità hanno cercato di creare un’emergenza permanente che permettesse di impiegare poteri di controllo straordinari. La politica di chiusura delle frontiere attuata dall’Unione Europea e dai singoli paesi si intreccia così con la necessità di spegnere ogni scintilla di solidarietà, vero terrore dei governi. Se un governo blocca migliaia e migliaia di persone in un luogo, crea le condizioni per la creazione di strutture apposite che vengono allora organizzate secondo un modello di internamento che isola chi vive all’interno da chi vive all’esterno. Le condizioni disastrose in cui viene costretta a vivere la gente nei campi creano un’emergenza umanitaria disgregante, nella cui gestione acquisiscono un ruolo centrale proprio gli stessi governi che l’emergenza l’hanno creata o grandi organizzazioni di servizi assistenziali. Le iniziative solidali, soprattutto le più semplici e spontanee, vengono schiacciate o semplicemente non hanno spazio in una situazione simile. Con la giustificazione del controllo di questa massa di persone, arriva anche la militarizzazione e spesso, come a Lesvos, arrivano anche le bande dei fascisti, per fare con la violenza il gioco di chi governa.

Adesso però a Lesvos, rispetto alla situazione precedente alla pandemia, c’è un minore attivismo da parte dei gruppi fascisti, che in passato avevano compiuto attacchi incendiari a sedi di associazioni e strutture dei campi profughi, aggredito lavoratori e volontari delle ONG, organizzato ronde a caccia di stranieri a Mytilene, attaccato manifestazioni dei rifugiati nel centro della cittadina. In questo periodo le violenze dei fascisti sono meno frequenti ed eclatanti ma è aumentata, grazie anche alle restrizioni connesse alla pandemia, la violenza repressiva istituzionale. Questa repressione non fa che inasprire la separazione sociale, costringendo ancora di più le persone richiedenti asilo dentro i campi, lontane dai centri abitati.

Lesvos non è un caso isolato: in altre zone della Grecia la situazione non è diversa. Nella regione di Atene, l’Attica, ci sono numerosi campi in cui i rifugiati sono stati deportati dopo che dall’estate 2019 il governo Mitsotakis ha avviato lo sgombero delle occupazioni in cui vivevano i rifugiati nella capitale e degli squat anarchici per spezzare sia la rete di solidarietà dal basso, sia la vitalità del movimento anarchico e rivoluzionario nel paese. Anche in questo caso i poteri eccezionali che il governo ha assunto nella pandemia hanno fornito nuovi strumenti alla politica autoritaria.

Intorno ai campi sul continente il governo ha innalzato, nel mese di giugno, alti muri di cemento: a Diavata vicino Thessaloniki, come a Malakasa vicino Atene. La presenza – per quanto insufficiente – di moduli prefabbricati tipo container al posto delle tende di truciolato può forse essere considerata una condizione migliore rispetto ai campi sulle isole ma anche sul continente la situazione in cui sono costrette a vivere le persone nei campi è disastrosa. A Malakasa dove ora vivono circa 3000 persone, a causa del sovraffollamento si vive stipati in piccole tende da campeggio all’interno di strutture coperte, come quella che una volta era la palestra del campo. La struttura è isolata, oltre le montagne dell’Attica che circondano Atene, distante 40 km e raggiungibile solo in treno con un viaggio di 50 minuti. Qui le restrizioni per la pandemia hanno davvero avuto effetti devastanti: infatti durante il lockdown ci sono state manifestazioni dei richiedenti asilo contro l’isolamento totale cui erano costretti.

La situazione finora descritta è comunque meno gravata dal sovraffollamento rispetto a quella di un anno fa, quindi per certi aspetti forse meno tragica. Basti pensare che in tutte le isole egee ci sono poco più di 9.000 richiedenti asilo adesso, mentre a febbraio 2020 nel solo campo di Moria a Lesvos c’erano 20.000 persone.

Il governo greco vuole continuare a inasprire la politica dei respingimenti. Il ministero per l’asilo e le migrazioni ha emesso una circolare il 1° giugno scorso in cui si minacciano provvedimenti disciplinari nei confronti dei dipendenti del ministero che prendano parte a ricorsi o procedimenti giudiziari nei confronti del ministero stesso. Il ministero degli affari esteri ha poi dichiarato il 7 giugno che la Turchia sarà d’ora in poi considerata paese terzo sicuro per i richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Siria, Somalia, Bangladesh e Pakistan, che dovranno quindi chiedere protezione umanitaria in Turchia e non in un paese UE. Considerando che una larga parte di richiedenti asilo giungono in Grecia proprio da questi paesi, c’è da aspettarsi un drastico aumento dei respingimenti. Certo bisognerà aspettare per vedere cosa comporterà effettivamente questa decisione ministeriale, perché ad oggi la Turchia non ha ancora riaperto i confini ai rimpatri dalla Grecia, dopo aver bloccato tutto a marzo 2020 per motivi sanitari. Dipenderà certo anche dagli accordi con l’Europa e dalla situazione interna alla Turchia, che potrebbe decidere di aver bisogno di maggior manodopera a bassissimo costo.

Chi pensa che agitando gli strumenti del diritto internazionale l’UE farà rispettare i diritti umani non si è forse accorto che è stata proprio l’UE la principale garante finanziaria e giuridica della politica assassina del governo greco. Il 12 giugno scorso, a conclusione di un processo farsa, sono stati condannati a porte chiuse dal tribunale di Chios 4 minorenni a 10 anni ciascuno per l’incendio del campo di Moria. Ma si può star sicuri che l’UE stavolta non darà al governo greco neanche una paterna tirata d’orecchi, perché sulle isole greche, dove già l’UE sta testando sui rifugiati nuove tecnologie di controllo, saranno costruiti cinque nuovi campi chiusi per volere dei governi dell’Unione, con un investimento di 276 milioni di euro. Secondo i piani il nuovo sistema di campi dovrebbe essere ultimato entro settembre 2021.

Di fronte a questa situazione bisogna avere ben chiaro che solo la distruzione di queste strutture, l’abolizione dell’internamento e la libertà di circolazione possono risolvere la catastrofe creata dai governi. In questa prospettiva è importante lottare al fianco di chi è costretto a vivere nei campi, costruendo nuovi legami di solidarietà, sostenere le iniziative e le associazioni attive fuori dalle dinamiche di internamento, lottare nelle nostre regioni, nelle nostre città, contro i campi di internamento. Perché Lesvos è ovunque e i nuovi lager sono sotto le nostre case.

Dario Antonelli e Giacomo Sini

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