L’elefante nella stanza. Sull’arresto di Matteo Messina Denaro.

«Questa è la vittoria dello stato», «Cosa nostra è finita». La cattura di Matteo Messina Denaro è stata accompagnata da dichiarazioni di questo tenore. Magistrati, carabinieri, politici e giornalisti hanno dato fondo a tutto il loro entusiasmo per trasmettere all’opinione pubblica la loro soddisfazione. Un risultato atteso a lungo. Molto a lungo. Dopo trent’anni di latitanza, infatti, l’ultimo grande boss della mafia siciliana è stato finalmente arrestato e sono in molti a credere (o a sperare) che adesso potrà essere fatta piena luce non solo sugli ultimi decenni di vita dell’organizzazione ma anche su tanti nodi irrisolti nella storia di questo paese.

Probabilmente, i lettori abituali di Umanità Nova non avranno bisogno delle poche considerazioni che andremo a fare in questo articolo. Quindi è agli altri che ci rivolgiamo, cioè a quelli che anarchici non sono e che – in tutta onestà – nutrono la loro legittima e incrollabile fiducia nello stato e in quello che fa.

Trent’anni di latitanza non sono affatto pochi. Negli ultimi anni gli strumenti investigativi a disposizione di inquirenti e forze dell’ordine hanno conosciuto uno sviluppo esponenziale, specialmente sotto il profilo tecnologico. Più in generale, le vite di noi tutti sono capillarmente attraversate da modalità di tracciamento (per lo più involontarie) che tengono conto di quello che facciamo, di dove andiamo, di quello che compriamo, di ciò che ci piace e molto altro ancora. Il più delle volte siamo proprio noi stessi a offrire inconsapevolmente le nostre esistenze a chi è interessato ai nostri dati o ai nostri comportamenti. Figuriamoci, quindi, quanto sia diventato più facile controllare le vite degli altri per chi lo fa di mestiere. Proprio per questi banalissimi motivi, ci riesce piuttosto difficile pensare che sia possibile rimanere anonimi e irrintracciabili per un tempo così lungo. Ma è il destino dei mafiosi, si dirà: gestire un potere enorme vivendo al contempo una vita grama, fatta di sacrifici, scappando di tugurio in tugurio per sfuggire alla legge.

Messina Denaro, però, non lo hanno trovato in capo al mondo o in un bunker nascosto nella boscaglia. Lo hanno arrestato a Palermo, mentre andava a farsi curare il tumore in una famosissima clinica privata del capoluogo siciliano. E ci andava da circa un anno. E quando ancora stavamo facendo i conti con lo “stupore” per un fatto così surreale (le virgolette non sono casuali), i media cominciavano a snocciolare una serie di altre notizie a dir poco imbarazzanti. Una per tutte, il selfie del boss con il medico che lo aveva in cura. E poi ancora la notizia che Messina Denaro si scambiava il numero di telefono con altre pazienti della clinica con le quali faceva il provolone. E le cene al ristorante dal conto salatissimo. E, soprattutto, i tre covi della sua latitanza più recente: tre appartamenti a Campobello di Mazara, un piccolo centro di undicimila abitanti a due passi da Castelvetrano, la sua città.

Messina Denaro usciva di casa, andava a fare la spesa, salutava cordialmente chi lo incrociava per strada. Sintomatiche, da questo punto di vista, le dichiarazioni rilasciate dai cittadini raggiunti dai microfoni di famelici cronisti a caccia di siciliani omertosi: «Mai visto in giro», «Non me lo sarei mai aspettato», «Se uno mi saluta io faccio altrettanto. Voi che avreste fatto al posto mio?».

Tutto vero. È evidente che se in Sicilia la mafia non è mai stata veramente sconfitta, una buona quota di responsabilità va addebitata ai siciliani. Inutile nascondersi dietro a un dito. Ma non bisogna mai dimenticare quanto sia difficile nascere e crescere in un contesto sociale profondamente condizionato da un fenomeno criminale che ha radici antiche e che ha sempre potuto contare su coperture molto più efficaci e strutturali della classica omertà offerta dalle persone comuni. Un’omertà – è sempre bene ricordarlo – che è figlia del ricatto, della paura, dell’oppressione, della rassegnazione e di tante altre tristissime attitudini che rendono particolarmente complicata la vita in Sicilia.

In questi decenni Messina Denaro ha goduto dell’appoggio e della complicità di politici, imprenditori, massoni della provincia di Trapani, e non solo. La borghesia mafiosa è la vera classe dominante in questo estremo lembo occidentale della Sicilia, una mafia sempre meno interessata alla violenza fisica e sempre più specializzata negli affari, negli appalti, nelle campagne elettorali. Pizzo, estorsioni e traffico di droga non sono mai mancati, ma è nella gestione del potere politico-finanziario che si può identificare il cuore operativo di Cosa nostra contemporanea.

Alla luce di quanto detto e visto fino a ora, l’esultanza degli uomini delle istituzioni di fronte alla cattura di Messina Denaro risulta quanto meno ridicola. Perché è ridicolo inneggiare alla presunta vittoria di un apparato repressivo che ha avuto bisogno di trent’anni per mettere le mani su un soggetto che non si era mai allontanato dall’epicentro del suo potere.

«Messina Denaro non si è consegnato. Chi lo sostiene è in malafede» – ha detto, con orgoglio e una punta di rabbia il procuratore capo di Palermo, De Lucia. Noi non siamo in malafede, e se De Lucia ha ritenuto necessario fare una precisazione di questo genere è perché da più parti sono stati avanzati dei dubbi sulla trasparenza di tutta quanta l’operazione. Sia chiaro, noi non siamo mica complottisti. Semplicemente conosciamo la storia di questo paese e conosciamo quanto profondi siano stati e continuino a essere i rapporti tra istituzioni e organizzazioni criminali. Una storia documentata, spesso scolpita in sentenze (per lo più tardive), sempre ferocemente bagnata nel sangue.

Noi non possiamo prevedere il futuro di Cosa nostra, ma nutriamo forti dubbi sul fatto che l’arresto di Messina Denaro, ormai anziano e malato, rappresenti la fine dell’organizzazione, anche perché la mafia ha sempre dimostrato una grande capacità autorigenerativa. D’altra parte, l’idea che il boss fosse a capo di tutta quanta l’organizzazione è profondamente sbagliata ma mediaticamente molto efficace.

Probabilmente i tempi per un colpaccio del genere erano maturi, e questo arresto eccellente fornisce prestigio e peso specifico a un governo che si prepara a intervenire sulla riforma della giustizia. Come spesso avviene, il rientro politico di certe operazioni è un dato saliente sul quale vale la pena riflettere.

Non sappiamo se queste brevi considerazioni avranno aperto qualche crepa nella granitica fiducia che taluni nutrono nei confronti dello stato. In ogni caso, a noi spetta il compito di ribadire ciò in cui crediamo: lo stato e la mafia sono espressioni speculari (e spesso coincidenti) del dominio, della gerarchia, dell’oppressione. La nostra antimafia non passa dalle aule dei tribunali ma si dispiega nell’impegno e nelle lotte per liberare la società dalle scorie di ogni potere. Perché dove c’è fame, ignoranza e prevaricazione lì prospera la mafia. E un politico che ci chiede il voto.

TAZ laboratorio di comunicazione libertaria

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