Intanto piovono pietre

Il recente varo del Quantitative Easing da parte della BCE ed il varo dei decreti attuativi sul Jobs-Act hanno dato occasione ai nostri fatui esponenti governativi di ostentare sicurezze del tutto fuori luogo. Renzi ha sostenuto che l’allentamento monetario è frutto anche del semestre italiano e della svolta verso la crescita che l’Italia ha chiesto e (sic) imposto. Poletti ha previsto che le nuove norme sul mercato del lavoro porteranno nel 2015 all’assunzione di ben 150.000 persone. Grazie ai 1.140 miliardi di euro che Draghi regalerà alle banche con il massiccio acquisto di titoli in portafoglio, lo spread è sceso sotto il livello dei 90 punti, come non accadeva dal 2010. Le borse europee sono reduci da 5 settimane consecutive di rialzi e stanno rivedendo i livelli del 2007, prima della crisi Lehman Brothers. In America già si pensa di tornare alla normalità: con la disoccupazione ufficiale sotto il 6% la FED pianifica il primo rialzo dei tassi ed il dollaro s’impenna verso la parità con l’euro, dando nuovo ossigeno all’export europeo. Ma allora siamo davvero al punto di svolta e la crisi è alle spalle?

Non dobbiamo assolutamente pensare che tutto quanto scritto fin qui significhi qualcosa per le condizioni materiali delle classi subalterne. E’ in atto un enorme processo di recupero di ricchezza e di potere da parte delle classi dominanti, che hanno saputo magistralmente usare la crisi per applicare politiche sociali draconiane e scaricare verso il basso il costo del riaggiustamento economico e finanziario, necessario per garantire la tradizionale distribuzione dei redditi e aumentare ancora il divario patrimoniale.

In Italia il principale strumento utilizzato negli ultimi 30 anni per spostare risorse tra le classi sociali è stato il debito pubblico e l’onere del suo finanziamento. E’ noto che dal momento del “divorzio” tra Tesoro e Banca d’Italia il rapporto debito/pil è salito dal 58% del 1981 al 124% del 1994. Negli ultimi 20 anni quest’ordine di grandezza ha visto oscillazioni anche marcate, ma non è più stato compresso più di tanto, nonostante le politiche selvagge che hanno tentato di risanare la finanza pubblica stravolgendo l’assetto dello stato sociale. Dopo tutti questi anni, siamo risaliti verso il 135% e nulla autorizza a pensare che questo rapporto possa riprendere a calare. Lo stock di debito pubblico, anzi, non smette di salire e vengono i brividi solo a pensare cosa potrà accadere quando la droga monetaria della BCE dovrà, prima o poi, avviarsi verso la fine della somministrazione. La ripresa della speculazione, la crisi dell’euro, l’esplodere degli squilibri strutturali, non sono eventi fantascientifici, ma uno spettro di problemi che è stato solo rimandato nel tempo e che si ripresenterà con prevedibile puntualità al venir meno delle misure straordinarie.

Intanto nell’economia reale si sono dati processi irreversibili, che non sarà possibile riassorbire in alcun modo, stanti le attuali condizioni politiche. Tra il 2008 ed 2014 i vari attacchi alle pensioni, culminate nella riforma Fornero, hanno comportato un drammatico invecchiamento della popolazione lavorativa: sono saliti di 1,1 milioni i lavoratori ultra-55enni, mentre sono scesi di quasi 2 milioni i lavoratori under-35 enni. Il saldo occupazionale è stato negativo per 811.000 posti di lavoro, con una forte concentrazione della perdita nel sud (dove è andato in fumo il 13% dei posti di lavoro precedenti). Il degrado del mercato del lavoro ha portato ad un forte aumento delle sacche di povertà e di disagio sociale, anche in segmenti della popolazione precedentemente protetti. Non è raro che una situazione di povertà assoluta o relativa tocchi oggi anche famiglie dove il principale percettore di reddito è di mansione operaia, e non più solo famiglie che vivono il problema diretto della disoccupazione e del reddito zero. I working poor sono il fenomeno nuovo della società italiana.

Dati ugualmente allarmanti emergono quando si va ad un’analisi approfondita delle cifre relative ai tassi di disoccupazione o di sottoccupazione. L’associazione Bruno Trentin, ad esempio, ha fornito un’interpretazione originale dei dati relativi al terzo trimestre 2014, smentendo l’ottimismo di maniera che ha accompagnato le uscite sbrodolose del Ministro Poletti. Secondo quest’analisi, il 13,4% di tasso di disoccupazione ufficiale e i 3.5 milioni di lavoratori in cerca di impiego non riflettono adeguatamente la situazione dirompente che interessa i senza lavoro. Considerando l’insieme delle popolazione attiva 15-64 anni, l’area della sofferenza occupazionale (ASO), che include i disoccupati ufficiali, gli scoraggiati e i cassaintegrati, è arrivata a toccare quasi i 5 milioni di individui, con un incremento di circa il 102% rispetto all’ultimo trimestre 2007. Inoltre esiste quella che viene definita l’area del disagio, che include tutti i lavoratori che hanno un lavoro a tempo determinato (senza certezze) e coloro che svolgono attività a part-time involontario, nel senso che lavorano meno di quanto vorrebbero, in genere per conseguenza di riduzione di attività da parte aziendale: sono quasi 4.5 milioni di persone (+37% rispetto al 2007). Sommando quindi area della sofferenza ed area del disagio, arriviamo alla bella cifra di 9.410.000 persone che vivono una situazione di mancanza totale o di inadeguatezza del lavoro prestato. Nessuno dei paesi “core” dell’Europa è in una situazione simile.

E’ ben evidente che i 150.000 posti di lavoro vagheggiati da Renzi e Poletti, come portato delle nuove norme sul mercato del lavoro, sono come una goccia nel mare rispetto alla gravità del fenomeno. Mentre l’efficacia di lungo periodo, al di là della decontribuzione triennale e del nuovo schiavismo che sta prendendo forma, è ancora tutta da verificare, sono invece evidenti i forti rischi di vedere “sostituire” lavoratori a vecchio contratto con quelli a tutele crescenti (o sarebbe meglio dire inesistenti?).

Su tutto questo è improbabile che le misure ultra-espansive della BCE producano qualche effetto. I soldi verranno come sempre canalizzati sul sistema bancario, impegnato a fare i conti con 180 miliardi di sofferenze, in genere prodotti dalle grandi imprese e dal credito “di relazione” verso amici degli amici. La stretta creditizia si scarica su famiglie e piccole imprese, strozzando le attività economiche a maggior base occupazionale: si calcola che dal 2009 al 2014 gli impieghi si siano contratti di circa 200 miliardi, cioè di oltre il 13%. E le banche continuano a vantarsi di fare la loro parte, mentre tutto lo sforzo è concentrato nel succhiare risparmio familiare da gestire e nell’impiegare in maniera speculativa il denaro a costo zero fornito dalla BCE…

Occorre quindi depurare il bombardamento mediatico cui siamo sottoposti, per fare emergere elementi di buon senso e di verità, su cui costruire una piattaforma di opposizione sociale. I cui cardini devono essere la resistenza e la lotta verso le nuove norme che precarizzano strutturalmente il mercato del lavoro e la messa a fuoco di uno schema di redistribuzione dei redditi e dei patrimoni su cui sviluppare una presa di coscienza di massa. Se c’è un verso da cambiare, è proprio il flusso delle risorse finanziare che devono andare da chi ha di più a chi non ha niente. Proprio il contrario di quanto accade attualmente….

RENATO STRUMIA

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