La Teoria Monetaria Moderna (MMT) sostiene che uno stato con “controllo sovrano” sulla propria valuta (ad esempio il governo degli Stati Uniti e il dollaro) può emettere quanto denaro vuole, senza vincoli di spesa diretti. Questa teoria ha affascinato anche economisti radicali o antagonisti, convinti che usando strumenti monetari e, più in generale, attraverso l’azione dello stato sia possibile migliorare le condizioni dei ceti più poveri. Se questo fosse vero, verrebbero messi in discussione due postulati dell’azione anarchica: che l’intervento del governo sia comunque dannoso, che il rapporto monetario sia comunque un rapporto di dominio.
Che lo stato possa emettere denaro a volontà, dal punto di vista strettamente legale, si tratta di un’ovvietà ma, al tempo stesso, ci dice molto sulla struttura di potere dell’imperialismo oggi. Di solito gli Stati Uniti vengono portati come “esempio”: in realtà gli Stati Uniti sono più che un esempio, sono l’unico stato che si trova nelle condizioni previste dalla MMT, cioè il governo degli Stati Uniti è l’unico che può esercitare un controllo assoluto sulla propria moneta.
Infatti, con la scomparsa dell’Unione Sovietica e il crollo del blocco di alleanze economiche, politiche e militari che all’URSS faceva riferimento, il dollaro ha sostituito l’oro come moneta mondiale, mentre quasi tutti i paesi, compresi Russia e Cina, sono stati integrati negli organismi sovranazionali che controllano i flussi economici e finanziari internazionali, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e l’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), a loro volta controllati dall’imperialismo anglo-americano. Tutti gli altri governi devono rendere conto a questi organismi delle loro scelte in campo economico, finanziario, monetario e fiscale; solo adottando le prescrizioni di WTO e FMI potranno accedere ai finanziamenti internazionali e integrarsi nella divisione internazionale del lavoro. I “mercati” che controllerebbero l’economia mondiale hanno il volto dei funzionari collocati da Washington al vertice di questi organismi, mentre la “globalizzazione” non è stata altro che la riduzione di tutto il mondo a cortile di casa degli Stati Uniti.
Secondo la MMT, la spesa pubblica finanziata dall’emissione di debito pubblico e dalla “creazione” di cartamoneta può fornire crescita economica, piena occupazione e aumento dei redditi senza toccare i lati dello sfruttamento del lavoro da parte del capitale. Se però consideriamo le condizioni di miseria della stragrande maggioranza della popolazione mondiale, ci rendiamo subito conto che la produzione attuale di beni e servizi è insufficiente a garantire la sua sopravvivenza, perché gran parte della produzione è destinata a beni e servizi di investimento o alla produzione di lusso che non può essere utilizzata per soddisfare i bisogni della gran parte della popolazione mondiale. Se questa è la condizione generale che bisogna cambiare perché migliori la condizione dell’umanità, allora è inutile che circoli più o meno denaro, siano fatti più o meno debiti, perché è l’organizzazione della produzione mondiale a far sì che enormi masse rimangano in miseria.
I postulati della MMT, però, ci dicono qualcosa sulla società attuale. In realtà le manovre sulle valute e sui flussi finanziari del governo degli Stati Uniti permettono a questo stesso governo di appropriarsi di quote maggiori del plusprodotto degli altri paesi. Se il governo degli Stati Uniti è il maggior debitore mondiale, una riduzione del valore del dollaro riduce l’ammontare dei debiti contratti verso l’estero; se l’industria degli Stati Uniti assembla parti prodotte altrove, nelle “officine del mondo” come la Cina o l’India, una riduzione del valore del dollaro rispetto alle monete locali permetterà di pagare meno le importazioni. In altre parole, l’imperialismo genera un dividendo a favore delle classi privilegiate delle metropoli imperialiste, le cui briciole possono anche essere distribuite ai ceti popolari per attenuarne il malcontento. Quindi non si tratta di migliorare le condizioni della popolazione mondiale, ma di garantire i privilegi di una ristretta minoranza.
Una politica monetaria ispirata dalla MMT non può contemporaneamente risolvere il problema dell’occupazione e il problema del reddito, perché l’espansione monetaria è uno degli strumenti usati dai governi per ridurre il prezzo della forza lavoro al di sotto del suo valore, senza incidere sull’occupazione. Se quindi consideriamo l’espansione monetaria nello stato egemone, non possiamo fare a meno di concludere che questa espansione monetaria avrà effetti devastanti sui ceti popolari delle periferie del mondo.
La stessa lotta alla povertà lanciata dal Fondo Monetario Internazionale ha una doppia faccia. Secondo i dati ONU, 836 milioni di persone vivono con poco più di un dollaro al giorno. Aumentare il reddito monetario per queste persone può non essere la soluzione, perché in molte parti del mondo la popolazione vive ancora in modi di produzione di sussistenza, cioè producono e consumano direttamente i beni e i servizi di cui hanno bisogno, in modo individuale o collettivo. Aumentare il reddito significa spesso ridurre questa parte della produzione, separare ulteriormente i produttori reali dai mezzi di produzione, subordinarli ad un mercato di cui non hanno il controllo, sviluppando quelle monoculture richieste nei paesi più sviluppati. Occorre quindi cambiare i rapporti di produzione, occorre cambiare i rapporti di proprietà e, su questo, la massa monetaria in circolazione può fare ben poco, anzi “rema contro”.
È però possibile, più in generale, che l’intervento dello stato possa migliorare le condizioni delle classi sfruttate? Questo è stato da sempre il cavallo di battaglia dei riformisti e la giustificazione del loro impegno nella lotta elettorale. La risposta a questa domanda è molto complessa e richiede un ripensamento di tanti luoghi comuni, dal neoliberismo allo stato sociale, che popolano i sogni della sinistra che è in parlamento o aspira ad andarci.
Solo in un altro periodo storico, nei paesi occidentali, si è verificata una situazione in cui il mondo conosciuto era unificato sotto un unico potere e sotto un’unica moneta: è il periodo che va dal III secolo a.C. al III secolo d.C., che vide l’affermazione e la massima fioritura dell’Impero Romano. Questa analogia è particolarmente significativa, perché qui lo sviluppo del sistema monetario procede senza quelle sovrastrutture ideologiche che sono tipiche del modo di produzione capitalistico.
L’Impero Romano si afferma nel Mediterraneo a partire dal III secolo, con la costituzione delle prime province e la sconfitta di Cartagine. È bene ricordare che i cittadini romani erano esentati da ogni forma di tributo, mentre i popoli sottomessi o “alleati” erano obbligati a fornire un tributo. L’espansione dell’Impero, le necessità della sua amministrazione e delle continue conquiste fecero sì che ben presto al tributo in natura si sostituisse il tributo in denaro, spingendo le regioni che erano tenute al tributo ad uscire dall’economia di sussistenza e a produrre di più per il mercato, in modo da ottenere le somme di denaro necessarie a pagare il tributo. In quest’ottica le città dell’Asia Minore, la Gallia Narbonense, la Spagna, l’Africa furono spinte a fare concorrenza all’Italia dove si era affermata la villa patrizia come struttura produttiva.
Anche i singoli esponenti politici avevano bisogno di denaro: denaro per convincere i comizi ad eleggerli alle magistrature cui aspiravano, denaro per organizzare i giochi con cui festeggiare la loro elezione e così via. Questa esecrabile bramosia di denaro trasforma prima la villa in un centro di produzione specializzata di prodotti da destinare a mercati più o meno lontani (vino, olio, altre specialità alimentari), in cui la parte destinata alla sussistenza della vasta manodopera in condizione di schiavitù e i proprietari del fondo viene sempre più ridotta e, poi, a soccombere di fronte alle produzioni provinciali.
È lo stesso sviluppo dell’Impero che, a fronte dello sviluppo della villa prima in Italia e poi nelle province, che decreta la morte o, quanto meno, la crescente irrilevanza economica della piccola proprietà contadina. Le crescenti esigenze dell’Impero, dovute alla necessità di difendersi dalle aggressioni dei popoli non sottomessi e la fine delle campagne vittoriose, che avevano portato a Roma schiavi e bottino, accrescono il fabbisogno monetario dello stato, cui si risponde con l’aumento delle tasse e con le riforme monetarie, cioè con la svalutazione. Se lo stato aveva rappresentato il punto di forza di Roma, le crescenti esigenze di comando e controllo, che generano un’ipertrofia burocratica ed il soffocamento dell’attività economica, contribuiscono in modo decisivo al declino.
Ovviamente Roma non poteva contare su economisti premi Nobel e nemmeno sugli autorevoli esponenti della MMT; credo però che proprio il declino dell’Impero Romano sia un’autorevole testimonianza dell’incapacità dello stato, anche autoritario, a risolvere i problemi generati dal sistema monetario.
Oggi, per quanto il sistema di alleanze politiche, economiche e militari con al centro gli Stati Uniti coprano quasi tutto il globo terracqueo, per quanto l’autonomia dell’amministrazione e della FED nella gestione del dollaro non conosca eguali nella storia recente, la politica economica sviluppata dal governo di Washington non può che spostare le contraddizioni ad un altro livello senza risolverle.
In questo quadro le spese militari svolgono un ruolo decisivo: se le spese per le guerre in Iraq e Afghanistan hanno permesso di far uscire l’economia dalla recessione del 1997, hanno creato d’altra parte le premesse per la crisi finanziaria del 2008. Se gli Stati Uniti beneficiano dell’aumento dei prezzi del petrolio, conseguente alla crisi ucraina, questo stesso aumento dei prezzi fornisce a Putin il denaro per nuovi armamenti e per intervenire dall’interno nei paesi pericolanti, come la stessa Ucraina.
Insomma, l’azione degli stati continua ad aggirarsi in contraddizioni insanabili: lo stato è il problema, non la soluzione.
Tiziano Antonelli