Non inquietatevi! E’ la lotta finale
[Primo manifesto situazionista, 1956]
Nella cabala degli anniversari rivoluzionari il 2017 ha offerto numerose combinazioni magiche: in particolare, il ‘17 dell’Ottobre russo, il ‘37 dei moti a Barcellona, il ‘77 del movimento in Italia; anche se l’attenzione storica e politica sembra maggiormente calamitata verso il prossimo anno, e il cinquantennio che ci separa dal ‘68.
In previsione di tale ricorrenza già sono in gestazione convegni, rievocazioni televisive e libri dedicati al Sessantotto; mortalmente prevedibili le interviste ai leader di allora nonché le immagini e i commenti sulla battaglia di Valle Giulia con annessa polemica pasoliniana, le barricate del Maggio francese, la dilagante contestazione giovanile e i fermenti culturali…
In tutto questo, è altrettanto prevedibile che l’innominabile convitato di pietra sarà l’Internazionale situazionista, fondata appunto nel 1957, che pure rappresentò e interpretò i sommovimenti più radicali di quegli anni, con epicentro tra la Francia, il Belgio e l’Italia ma con capacità internazionali di contagiare idee e pratiche antagoniste.
In questo anno, a parte le numerose scritte murali apparse come poesie nel corso delle recenti insorgenze sociali francesi e il ritorno sentimentale a Cosio d’Arroscia dove tutto iniziò, il situazionismo è rimasto nell’ombra – forse di se stesso – proprio quando la realtà sembra inverare i suoi peggiori incubi ma anche riconoscere gran parte delle ragioni della sua rivolta.
Per questo, appare davvero opportuna la ripubblicazione, in una versione ampliata e riconsiderata, del fondamentale “L’amara vittoria del Situazionismo. Storia critica dell’Internationale Situationniste 1957-1972”.
La prima edizione, da tempo esaurita, venne pubblicata nel 1996 dalla BFS, nella collana Rovesciare il futuro, ed ora viene riproposta da Mimesis, nella collana Eterotipie, sempre ad opera dei tasti e della testa di Gianfranco Marelli (guarda caso nato nel 1957), che è riuscito a mettere insieme ricostruzione storica e riflessione antiautoritaria, fuori da banali agiografie e con la dovuta attenzione alle armi ancora taglienti messe a disposizione da quel laboratorio di arti e mestieri di sovversione.
Nel suo ricco saggio una parte interessante è quella dedicata al reciproco rapporto, tutt’ora sottovalutato, tra la cospirazione situazionista e i movimenti del ’68 che colsero di sorpresa e persino spaventarono l’estrema sinistra marxista così come molti anarchici.
Fuori dall’ipnosi dal determinismo economico, i situazionisti avvertirono e incentivarono una crisi ben più profonda che stava scuotendo le società capitalistiche, a partire dalle generazioni più giovani ribelli “dentro e fuori”.
“Infatti – annota Gianfranco – non si è mai approfondita a sufficienza la strana questione di come fosse possibile ad un’organizzazione, per scelta numericamente limitata, di essere una fra le protagoniste principali del movimento rivoluzionario che sul finire degli anni ’60 coinvolse milioni di persone e che seppe – sebbene solo per un attimo – mettere in pratica una critica radicale della società contemporanea come unica via d’uscita alla colonizzazione della vita quotidiana”.
Il segreto di tale capacità di premonizione e sintonia più che da analisi economiche della fase o da assunti ideologici sulla coscienza di classe discendeva piuttosto da una condivisa insofferenza sensibile per come si stava realizzando il controllo del vivere collettivo e la mutazione degli operai in appendici delle macchine. Non di meno appariva insopportabile la sottomissione individuale ad un dominio, sinonimo di alienazione materiale e psichica, in grado di mercificare corpi e saperi, cooptando anche presunti trasgressivi e alternativi del mondo della cultura e dell’arte.
Infatti, nelle diverse ribellioni che avevano attraversato gli Usa e il Giappone sino a giungere nelle due Europe – quella capitalista e quella socialista – vi era qualcosa di più profondo ed eversivo delle rivendicazioni storiche del movimento operaio: vi era la consapevolezza assai meno recuperabile o mediabile che il modo di vivere offerto dal consumismo e dall’ordine del lavoro non poteva riempire di senso la noia telecomandata di ogni giorno.
La liberazione umana non poteva più coincidere con la produzione, l’inseguimento e l’acquisto di merci esposte che niente di autentico avevano da offrire al piacere della curiosità, all’energia creativa, all’emozione dell’imprevisto.
E proprio su queste insofferenze mai guarite si può tutt’ora parlare di un’amara vittoria del situazionismo: non l’hanno sapute risolvere i rivoluzionari e tanto meno il capitalismo, costretto ormai ad investire sempre più in bastoni piuttosto che in carote.
Così come il tanto celebrato progresso mostra una decadenza senza appigli, dentro un pianeta malsano popolato da esseri variamente patologizzati.
Eppure, quando si entra in questi argomenti – in apparenza poco politici – pure con persone disincantate da ogni impegno, ci si rende conto che si vanno a toccare tasti sensibili, se non addirittura dirompenti, perché “se non si vive come si pensa, si comincia a pensare a come si vive”.
Per i tanti che s’interrogano sulle difficoltà di comunicare e coinvolgere, questo rimane un buon punto di partenza per “creare [nuove] situazioni”. E, tra le macerie di ogni forma di governo e del sistema dei partiti, rivoluzione torna a far rima con autogestione.
Nell’ultimo, inedito, capitolo Gianfranco sottolinea come il “navigare nel mare della storia del situazionismo non è certo facile”, ma tale navigazione riguarda molto da vicino anche il nostro presente e l’altrui futuro.
emmerre