La lotta per la libertà fra i monti del Kurdistan

«Quella dei curdi è forse la più grande nazione senza stato. Prima pensavamo che fosse un grosso problema. Oggi non ne siamo più tanto convinti»

«Anche noi, vicini al PKK, secondo la realtà dei curdi, siamo un po’ “anarchici”, perché abbiamo sempre voluto rompere quelle forme dello stato o questa vita che non abbiamo scelto»

Martedì 14 Ottobre, un nutrito pubblico di quasi ottanta persone ha partecipato con interesse e attenzione al dibattito, organizzato dai locali comitati No Muos, su un tema di stringente attualità: “La lotta per la libertà tra i monti del Kurdistan”.

Un’iniziativa molto importante che si è fregiata del contributo di due dirette protagoniste della lotta e della controinformazione sulla questione curda: Havin Guneser, delle Edizioni Iniziativa Internazionale per la libertà di Ocalan, e Nilgun Bugur (UIKI-Onlus Ufficio informazione del Kurdistan in Italia).

L’iniziativa palermitana è stata fortemente voluta con il chiaro obiettivo di squarciare il velo della disinformazione e dell’indifferenza su quello che sta succedendo in queste settimane nel nord della Siria, ovvero l’eroica resistenza della città di Kobane e delle milizie che la difendono dagli attacchi dello Stato islamico. I fatti di Kobane hanno avuto anche il merito di far conoscere l’esperienza del Rojava, la regione della Siria settentrionale nella quale i curdi (insieme anche ad altre etnie) stanno mettendo in pratica già da diverso tempo un esperimento di autonomia amministrativa basato sui principi del “confederalismo democratico”, una teoria elaborata molti anni fa da Abdullah Ocalan e dal Pkk, e che trae ispirazione dagli scritti di Murray Bookchin – l’ideatore del “municipalismo libertario” – e di altri intellettuali. In un’area devastata dal terrorismo di stato e dall’oscurantismo totalitario e religioso, il popolo curdo sperimenta nuove forme di autogoverno e democrazia dal basso in cui sono stati introdotti valori dirompenti come l’assemblearismo, la laicità, la parità di genere, la solidarietà, la giustizia sociale. Insomma, una “terza via” – quella curda – certamente insopportabile per tutti i signori della guerra.

Quella che segue è una sintetica trascrizione delle relazioni di Havin e Nilgun.

«Questo è un momento critico non solo per i curdi, ma per tutto il mondo. Quella dei curdi è forse la più grande nazione senza stato. Prima pensavamo che questo fosse un grosso problema. Oggi non ne siamo più tanto convinti. Dopo la Prima Guerra Mondiale, il Kurdistan è stato diviso in quattro stati diversi: Iran, Iraq, Siria, e Turchia. Il governo turco ci ha sempre chiamato “Turchi delle montagne”, e abbiamo subito sempre una forte discriminazione da parte dell’establishment.
In Siria e in Iraq, anche se non ci sono stati gli stessi meccanismi di rimozione, le discriminazioni nei confronti dei curdi sono sempre state fortissime. In Iran i curdi erano considerati come dei lontani parenti, una “sub-etnia” del popolo persiano. Negli anni ’50 i curdi perdono la speranza, e l’assimilazione diventa pesante.

Il ’68 ha avuto un effetto dirompente nell’est sovietico. Il Pkk nasce nel 1973, ed è stato molto influenzato dai movimenti del ’68, inserendosi nella dialettica tra vecchia e nuova sinistra. Il Pkk non fu fondato solo da curdi. C’erano donne e uomini di differente etnia o religione. Nel 1978, quando il Pkk si è strutturato come partito, tra i fondatori c’erano due donne anche se nessuno lo sa. È sempre stato un partito internazionalista, mai degenerato nel nazionalismo o nel patriarcato. Ci sono stati quarant’anni di dialettica interna al partito, anche dura.

Ocalan criticò l’Urss sin dai primi anni ’80. In questi 40 anni il Pkk ha visto la caduta dell’Urss, la nascita e la fine del femminismo, e la creazione di stati da movimenti nazionalisti. Ocalan e i suoi amici, cercarono quindi delle strade alternative. Dal ’93 si possono riscontrare molti sforzi per trovare soluzioni reali alle problematiche. Ocalan analizzò i problemi connessi ai movimenti di liberazione nazionale, al socialismo, alla democrazia.

Tre i punti fondamentali: la libertà delle donne, l’approccio alla violenza rivoluzionaria, l’approccio al meccanismo statale. Iniziò così una autocritica verso se stesso e verso il Pkk.

Per Ocalan la modernità capitalistica si regge su tre pilastri: il capitalismo, l’industrializzazione e lo stato-nazione. La modernità democratica si fonda su differenti pilastri: la nazione democratica, l’industria ecologica, l’economia sociale basata sui bisogni.

Il marxismo-leninismo analizza la storia umana in termini di classe, così come d’altronde ha fatto il Pkk per molto tempo. Il capitalismo si basa sugli imperi, sugli stati-nazione. Ocalan pone alla base della sua analisi la schiavitù della donna. La storia dell’umanità va vista nei suoi ultimi 5000 anni. Ocalan dice che la donna è la prima classe sociale, la prima nazione, la prima colonia. Da questo modello nascono tutte le altre schiavitù. Ocalan parla anche di come “uccidere l’uomo dominante”: non in senso fisico, ovviamente, ma nel senso dell’eliminazione del patriarcato. Noi curdi abbiamo sempre sofferto la mancanza di uno stato tutto nostro. Ma, forse, la cosa peggiore che può capitare all’umanità è l’instaurazione del capitalismo come maggiore strumento dello stato-nazione. In tutto il mondo lo stato-nazione è diventata la tomba di molte culture e di molte persone.

Per creare le varie nazioni, bisogna sempre sopprimere o assimilare le minoranze.

Il Pkk e Ocalan hanno capito i rischi connessi alla creazione dello stato-nazione, ponendo come tema fondamentale la solidarietà internazionalista. La conclusione è che stato e democrazia sono cose diverse. Se ci pensiamo bene, il fascismo è ontologico rispetto allo stato. Lo stato diventa solo un po’ più morbido quando ci sono delle lotte importanti ma, quando non ci sono ostacoli, gli stati gettano la maschera.

Ocalan suggerisce un metodo duale, spinge affinché gli stati esistenti diventino più democratici, e allo stesso tempo – essendo rappresentate in questi stati – Ocalan chiede più autonomia democratica per le popolazioni curde dentro i quattro stati esistenti. Ocalan è stato influenzato da Gramsci, da Foucault, da Bookchin, da Wallerstein, da Braudel. Ha tratto l’idea del municipalismo libertario proprio da Bookchin. Quando si parla di “autonomia democratica” non si parla di un’autonomia come quella catalana, o cose del genere. Noi parliamo anche delle nostre unità di difesa. Non è una autonomia che si fonda sull’etnia, ma si intende la democrazia partecipata. C’è un approccio duale: se da un lato ci sono le municipalità libertarie, dall’altro abbiamo comunità, assemblee, dalla strada al villaggio fino a livelli organizzativi superiori. È sempre fondamentale il parallelismo con la condizione della donna e dei giovani, perché proprio i giovani sono una categoria a rischio di oppressione e assimilazione. La visione che abbiamo è che queste assemblee prevedano livelli di autorganizzazione anche delle professioni, dal basso verso l’alto.

Questo è quello che succede in Rojava, nonostante la repressione della Turchia.

Il capitalismo sta portando una crisi sistemica da circa vent’anni, e stanno cercando di fare una transizione verso qualcos’altro ridisegnando il Medioriente. Prima hanno cominciato a occupare l’Afghanistan e l’Iraq. Quando hanno visto che questi interventi non portavano a niente, Bush e Blair hanno dichiarato l’Islam il pericolo pubblico numero uno. Poi si sono accorti che nemmeno questo funzionava, e hanno voluto creare partiti politici islamisti che fossero in armonia con il capitalismo (come, ad esempio, il partito politico di Erdogan in Turchia o i Fratelli Musulmani). Hanno promesso alla Turchia di ripristinare i confini dell’Impero, risvegliando il vecchio sogno della potenza ottomana.

La dinamica delle primavere arabe è esemplare. Forse gli arabi non volevano più libertà e democrazia? Certo che le volevano. Ma non erano organizzati, e non avevano una visione e una organizzazione della vita futura. L’imperialismo ha cavalcato questo bisogno, e i nuovi regimi sono diventati peggio dei vecchi. In Siria i curdi hanno impedito che questo potesse accadere, perché erano organizzati e avevano l’autonomia democratica e il confederalismo democratico come modo di vita. La Turchia ha accusato i curdi di sostenere Bashar al Assad, ma non è affatto così, perché pur riconoscendo che Assad era un dittatore, l’Esercito siriano libero era comunque eterodiretto da francesi e americani, e il popolo non aveva scelta. Il potere stava passando di mano, e non certo in favore del popolo. I curdi hanno scelto una terza via. Hanno messo in atto tutto quello di cui abbiamo parlato finora insieme a quelli che vivevano in Rojava: siriani, arabi, ceceni, e altre persone di altre regioni. L’Isis è stata sostenuta dagli Usa e dalla Germania che ha riconosciuto l’Isis come movimento terroristico appena quattro settimane fa. A sostenere l’Isis ci sono Arabia saudita, Qatar, Turchia, Usa, Regno unito che forniscono soldi e armi all’Isis e all’Esercito siriano libero. La Turchia sostiene l’Isis perché continua a seguire il sogno di un nuovo Impero ottomano e non vuole che il movimento di liberazione curdo metta in atto l’autonomia democratica mostrando che in quelle regioni può funzionare qualcosa di diverso dal modello di stato-nazione.

Noi non auspichiamo interventi militari esterni. Non chiediamo altro che la creazione di un corridoio. Per il resto, ce la sbrighiamo da soli.

Tutto il mondo guarda a Kobane. E molti la paragonano alla Guernica del 1937. Allora ci fu un movimento di solidarietà internazionale contro i fascisti, ma fu debole. Oggi dobbiamo cambiare la storia, la storia non deve ripetersi. Perché se questo esperimento fallisce, tutto il mondo si sposterà su posizioni più a destra. Quindi ecco perché oggi le donne e gli uomini curde lottano per il popolo curdo ma anche per tutta l’umanità, perché siamo consci del momento critico nel quale ci troviamo. Perciò faccio appello affinché facciate sentire la vostra voce per noi anche qui in Italia».

«C’è una comunità che non vuole stare zitta di fronte a queste atrocità, ed è per questo che è stato lanciato un appello per il primo Novembre. I curdi chiedono un intervento umanitario, non militare. Da mesi i curdi si difendono da soli. L’Isis è sempre più forte. I curdi hanno il dovere di combattere per se stessi e per l’umanità, ma anche con il sostegno dell’umanità perché la responsabilità è di tutti noi che viviamo in questo mondo, dovremmo sentirla come una responsabilità naturale. Vorrei che si alzasse la voce dei giovani. Noi non possiamo chiedere agli stati che ci aiutino, perché gli stati fanno quello hanno sempre fatto. Noi abbiamo sempre fatto da soli, con il popolo, donne e giovani, e ringrazio i compagni anarchici che ci hanno invitate qua. Anche noi, vicini al Pkk, secondo la realtà dei curdi, siamo un po’ “anarchici”, perché abbiamo sempre voluto rompere quelle forme dello stato o questa vita che non abbiamo scelto, però noi non abbiamo fatto male a nessuno, nel senso che non abbiamo usato la violenza o il potere che viene usato dallo stato. Siamo contro il capitalismo: per noi, dire che un altro mondo è possibile non è solo teoria. Bisogna praticarlo, bisogna iniziare da noi stessi ad avere una vita diversa dal capitalismo. Non vuol dire che si deve vivere senza norme. Anche una vita democratica deve avere disciplina, regole e leggi, dove però possono partecipare tutti quelli che vogliono vivere così. In Rojava adesso c’è questo sistema di autonomia, c’è una “Carta” redatta da curdi, siriani, e altri. Ci siamo organizzati in “cantoni” con la partecipazione del 40% delle donne, dei giovani, e hanno tutti diritto a decidere. E’ un modello per il Medioriente, per risolvere i conflitti, ma è anche un modello per tutto il mondo secondo me. Anche noi abbiamo iniziato con la critica, ma con la critica pratica. Bisogna allontanarsi dalla vita del capitalismo, abbiamo cambiato la vita secondo la nostra ideologia, secondo la nostra identità. È difficile, perché il capitalismo impedisce il cambiamento e giustifica ideologicamente l’immutabilità delle cose. Ma nella storia sappiamo che c’è sempre stato il conflitto tra potere e movimenti, tra cambiamento e conservazione. Neanche oggi si ferma questo conflitto. È quello che succede a Kobane. Se riusciamo a non far ripetere la storia, possiamo far sì che i governi e gli stati non abbiano più voce in capitolo, ma ci vuole molto lavoro. Si deve iniziare dal basso, dalle autonomie, dalle scuole, da tutti i bisogni che ha un popolo. Se ci si aspetta sempre l’intervento dello stato, non succederà mai. Criticando nella pratica, bisogna fare in modo che non ci sia più bisogno dello stato. Quando la teoria non si mette in pratica, le cose si ripeteranno sempre allo stesso modo. Tra i curdi organizzati si cerca di mettere in pratica tutto questo. È un’esperienza che abbiamo imparato dalla nostra lotta, un esempio che può essere preso anche da altri. Bisogna seguire più da vicino l’andamento dei fatti. Se non sentiamo la responsabilità di quello che succede intorno a noi, non abbiamo capito nulla del socialismo, del comunismo o dell’anarchismo. Ognuno di noi si può mobilitare e deve alzare di più la voce, però insieme. Ci sono i curdi dell’Iraq del sud che sostengono l’Isis contro altri curdi. Ci sono partiti della sinistra in Turchia che sostengono l’Isis. Essere di sinistra, una comunista, una democratica, non vuol dire niente di per sé, se non si è coerenti nella pratica. La resistenza dell’YPG è esemplare. Sentono il dovere di costruire un’altra vita, e non hanno paura. Quelli dell’Isis hanno il terrore di essere ammazzati dalle donne guerrigliere perché pensano di non andare in paradiso. I curdi e altri popoli del Medioriente sono abituati alle guerre, ma quello che sta succedendo adesso ha spiazzato tutti. L’Isis ha spiazzato anche gli Usa. Se noi non combattiamo contro l’Isis, perdiamo tutti. E’ un dovere fare qualcosa. Ci sono tante cose da fare. C’è una campagna iniziata in tutta Europa, vogliamo creare una “coalizione dei popoli” con la quale manderemo un po’ di gente al confine di Kobane per fermare il governo turco che sta aiutando l’Isis. Invitiamo tutti ad andare a vedere e conoscere il sistema delle autonomie nel Rojava. Ci sono moltissimi profughi che hanno bisogno di aiuti umanitari. Se in Turchia, in Iraq, in Siria la gente non si sente aiutata, allora cercherà di scappare. E così aumentano i profughi. Bisogna anche pensare al futuro. Gli attacchi dell’Isis continueranno. Gli USA vogliono usare l’Isis fino a quando gli stati nazionali non ne potranno più. Forse l’Iraq o la Siria verranno smembrati, magari per essere controllati meglio. I curdi hanno il diritto di difendersi, ovunque. Il popolo curdo non ha voluto tutto questo, non c’è motivo di vivere così. Ci sono molti più motivi per costruire una vita migliore, e cerchiamo di farlo. Questo sistema di autonomia del Rojava sicuramente non è perfetto, sicuramente facciamo degli errori, perché tutto ciò che dalla teoria diventa pratica spesso può essere diverso, e si può sbagliare. E allora ci vuole il contributo anche di chi non è curdo, degli altri popoli. Noi abbiamo bisogno di più attenzione».

A cura del Gruppo Anarchico “Failla” – FAI Palermo

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