La clava dei dazi. USA: le varie velocità della rilocalizzazione

Per approcciare la questione dei dazi è necessario partire da un assunto, ossia che gli interessi economico-finanziari dettano le agende di amministrazioni e governi di ogni sorta. In questo meccanismo, è necessario che i vari “leaders” siano relegati al ruolo di meri esecutori che hanno come contropartita una ricompensa in termini di potere personale e status sociale. Alla luce di ciò si può tracciare un filo conduttore che lega le azioni dei vari presidenti USA, da Obama al secondo mandato di Trump. Ovviamente ogni amministrazione opera secondo l’immagine che si è data in campagna elettorale, ma indipendentemente dai modi le strategie possono essere utilizzate come bussole per capire l’orientamento in atto. E tutte le bussole, da Obama a Trump passando per Biden, puntano nella stessa direzione, quella del reshoring, seppur con alterne fortune.

Questo concetto ha un significato diametralmente opposto a quello di offshoring, è una strategia per re-internalizzare alcune fasi produttive cruciali. Sgomberiamo subito il campo da letture buoniste, in quanto tale procedura non si è resa necessaria solo allo scopo di riportare lavoro nel ceto medio e medio-basso statunitense, perché preoccupati delle sorti della povera gente. Il tutto presuppone un semplicissimo calcolo: la gente senza lavoro costa troppo e non consuma. Questo implica un enorme esborso per i sussidi di disoccupazione e i ridotti consumi, che nel paese dell’economia “consuming oriented” per eccellenza porta a contrazioni di PIL, ma soprattutto a minori gettiti fiscali. Per inciso rammentiamo che il Governo federale incamera la maggior parte del gettito fiscale dalle ritenute sul salario e dai versamenti diretti in base al reddito, i quali pesano per un 49%, più le tasse di previdenza sociale e Medicare (Social Insurance and Retirement Receipts) per circa il 36%.

Un’altra ragione economica è da ricercare nella “potenza” della produzione di beni. I classici studi di economia suggeriscono che un singolo posto di lavoro nel settore manifatturiero ha il potenziale di crearne due e mezzo in altri settori dell’economia; l’industria paga allo Stato il 20% in più rispetto al settore dei servizi per un insieme analogo di competenze dei dipendenti, stimola la spesa dei consumatori e le esportazioni. Quindi se l’industria langue niente lavoro da tassare e niente crescita di PIL, il che gioca anche a sfavore del debito in quanto se il PIL si contrae o non aumenta proporzionalmente al debito i mercati si spaventano.

Ma non è, come si diceva, il puro spirito caritatevole a muovere le strategie USA. Meno gettito fiscale, minore PIL e maggiori spese sociali riducono la potenza di investimento delle varie amministrazioni, sulla quale si tarano molti degli introiti delle big corp’s. Paradossalmente nel paese del libero mercato e dell’ultraliberismo economico, senza i mastodontici investimenti pubblici tutto tenderebbe al rallentamento.

Va inoltre precisato che non si può certo ridurre la strategia di reshoring alle sole necessità di politica interna, c’è un’altra ragione che va ricercata tanto nella strategicità delle fasi produttive di alcuni prodotti specifici, quanto nei rischi dei trasporti globali. Possono sembrare ragioni secondarie. Ma essere eccessivamente esposti ai rischi di far produrre tecnologie strategiche in altri paesi o dover affrontare ritardi o perdite a causa di chiusure di rotte marittime decisive per il trasporto (vedi gli attacchi alla navigazione nel Mar Rosso), comincia a non essere accettabile in questa fase storica. Mettiamo in conto anche l’ambiguità di essere competitors della Cina ma di produrre entro i suoi confini componenti tecnologiche di rilievo. Sommando quindi queste problematiche si ottiene uno sprone più che convincente ad attivare una serie di politiche atte a riportare entro confini sicuri molte fasi produttive.

Questo processo parte dal primo mandato del Presidente Obama nel 2010 con il lancio di uno specifico piano “Make It In America”, che prevedeva tra l’altro “una legge volta a ritenere responsabili i Paesi che manipolano ingiustamente la propria valuta. La creazione di una strategia nazionale per la produzione, affinché l’America possa avere una tabella di marcia completa, su come rafforzare il settore manifatturiero e creare più posti di lavoro. La creazione di una banca infrastrutturale per facilitare investimenti efficienti e il finanziamento di progetti infrastrutturali, per far sì che più americani tornino al lavoro.

Ora va anche ricordato che Obama è intervenuto nella fase di big recession; quindi, non bastavano solo le iniezioni di liquidità per salvare le banche, serviva ravvivare la macchina industriale per creare reddito da lavoro, visto che il sistema del credito al consumo era congelato.

Nel primo mandato di Trump la questione del reshoring rimane e, in perfetta continuità con il suo predecessore, vengono intraprese alcune specifiche iniziative. Sebbene il Presidente abbia affermato che l’era della delocalizzazione statunitense fosse “finita”, la realtà è che gli Stati Uniti non avevano ancora iniziato ad affrontare le cause profonde dei crescenti deficit commerciali e del declino del settore manifatturiero. Decenni di politiche commerciali, valutarie e fiscali che hanno incentivato la delocalizzazione, unite a una totale incapacità di investire adeguatamente in infrastrutture e buoni posti di lavoro in patria, hanno contribuito a una crescente disuguaglianza e a un’erosione della classe media. Per ovviare alla necessità di un mea culpa del sistema, il tycoon, al suo solito, ha gettato benzina sul fuoco sui pericoli di un enorme e crescente deficit commerciale e sulla minaccia economica rappresentata dalla Cina. Le iniziative intraprese nel primo mandato non sono riuscite a risolvere la causa principale del problema, i costi di produzione statunitensi non competitivi dovuti anche ad un dollaro sopravvalutato e ad una forza lavoro qualificata inadeguata ma con costi superiori alla concorrenza asiatica. Non adottando una politica industriale efficace, di conseguenza, non è riuscito a compiere progressi significativi nel superare il deficit commerciale e la minaccia economica rappresentata dalla Cina che lui stesso aveva contribuito ad ingigantire. Detto in soldoni la sua strategia si è concentrata quasi esclusivamente sui dazi e la ricerca di accordi bilaterali. In questo Trump sembra essere più un politico degli anni ‘20 che un contemporaneo.

Tale processo è poi proseguito con l’opera di Biden il quale il 24 febbraio 2021, ha firmato un ordine esecutivo che prevedeva di creare catene di approvvigionamento più resilienti e sicure per beni essenziali e critici. Biden ha anche ripreso da dove Trump aveva lasciato, con una serie di sanzioni contro la Cina, questa volta in merito a problemi relativi ai diritti umani. È stata predisposta una nuova stagione, della durata di un anno, di potenziamento di asset industriali strategici come la difesa e la sanità pubblica, così come per le tecnologie dell’informazione, i trasporti e le catene di approvvigionamento per l’alimentazione e l’agricoltura. L’obiettivo era quello di creare un settore industriale statunitense meno soggetto a futuri conflitti commerciali o sanzioni “tit-for-tat”, riducendo a sua volta la dipendenza delle multinazionali dalle capacità, dall’innovazione e dalla manodopera della Cina. L’amministrazione Biden ha tentato la strada del reshoring più soft, con incentivi fiscali a chi non delocalizzava, per chi ri-localizzava o, meglio ancora, per chi dall’estero avrebbe investito negli USA.

Nel secondo mandato Trump ha preferito agire con la clava dei dazi. E qui apriamo un ragionamento che cerca di tenere in equilibrio tanto il percorso di reshoring quanto le ambizioni del tycoon. Se da un lato i dazi demenziali imposti e poi ritrattati, creano scompiglio nei mercati e mettono pressione all’Unione Europea, che di unito ha poco o nulla, dall’altro dovrebbero ottenere l’attenzione di alcuni competitors e creare un margine di manovra per le trattative. In realtà appare che la guerra dei dazi sia da analizzare quasi interamente nel tentativo di ridefinire quali hub delle catene di valore globali debbano essere ricollocati in posizione strategicamente favorevole, se non proprio negli USA quantomeno in paesi non ostili, UE, Canada, Messico e forse Groenlandia. Una strategia per costringere i meno collaborativi a ridefinire i piani produttivi aziendali per quanto riguarda la collocazione degli impianti attualmente stabiliti in zone “non desiderabili”.

Nella minaccia di dazi a due o tre cifre è insita questa strategia di pressione per il disinvestimento, e ad osservare le cifre, queste sembrano descrivere il livello di esposizione a rischi di alcune filiere produttive. Ad esempio la Cina con dazi dal 100% in su rappresenta l’area nella quale è più sconsigliato produrre, per le ovvie ragioni di concorrenza e competizione di natura commerciale, e geopolitica. Nell’UE i dazi sono a due cifre, ed è probabile che ci siano ragioni eminentemente commerciali (la filiera Boeing o dell’automotive per esempio). Sulle altre credo che i dazi servano invece a spingere taluni governi ad accogliere con trattamenti fiscali di favore alcune aziende facenti capo ad holding a stelle e strisce.

Nel grande smottamento globale che sta ridisegnando gli equilibri internazionali, questo processo di revisione della globalizzazione produttiva portato avanti, in maniera di volta in volta più o meno evidente o più o meno veemente, dalle varie amministrazioni USA ha una logica tutta inscritta all’interno del processo di riproduzione capitalista orientato dalle teorie neoliberiste, che vedono la competitività come ribasso sine die dei costi di produzione e la competizione come strategie per rallentare l’avversario. In una fase di profonda instabilità e volatilità finanziaria si tenta di rifondare basi produttive più solide nel tentativo di rilanciare i consumi interni. Credo che sia all’interno di questo scenario che debbano essere analizzati gli eventi degli ultimi due lustri.

Jammy

Related posts