Dove risiede la causa delle differenze esistenti nel comportamento dei maschi e delle femmine? Nella biologia o nella cultura? La domanda è retorica, dal momento che i ruoli hanno subito variazioni da epoca ad epoca, da luogo a luogo. Quando l’antropologa Margaret Mead ci fornì un’ampia descrizione, attraverso i suoi studi contenuti in “Sesso e temperamento in tre società primitive”, sugli Arapesh, i Mundugumor e i Tehambuli, tre diverse tribù della Nuova Guinea, ci offrì la possibilità di comprendere quanto l’assegnazione dei ruoli di genere sia funzionale al sistema culturale che la contiene.
Tra gli Arapesh l’adult* ideale, a prescindere dal suo sesso, ha una natura gentile, accondiscendente, solare, che ricorda l’ideale femminile della classe media occidentale così come lo ha costruito una certa narrativa dominante. All’interno di questa tribù, infatti, le relazioni sessuali non implicano temperamenti diversi né comportamenti aggressivi e tutto ruota intorno al concepimento e alla procreazione e l’espressione “partorire un figlio” è usata tanto per i maschi che per le femmine. I Mundugumor hanno invece tutt’altro temperamento: entrambi i sessi si avvicinano al nostro modello ideale maschile; le donne, al pari degli uomini, sono prepotenti e vigorose; non amano concepire e allevare figli. Infine i Tehambuli sono caratterizzati da una notevole differenziazione sessuale, invertita rispetto ai nostri modelli: gli uomini sono schivi, ombrosi, amano chiacchierare, indossare ornamenti mentre le donne indossano vesti semplici, si radono i capelli, sono intraprendenti, hanno il senso pratico degli affari.
Altri studi, condotti da antropologi in ogni angolo del mondo, confermano quanto dimostrato finora. Jules Henry, che osservò a lungo i gruppi indigeni nella foresta brasiliana, constatò in essi la totale assenza di differenze sessuali riguardo al temperamento. Edward Hall nel “Linguaggio silenzioso” descrisse una società patriarcale dell’Iran, dove le donne dovevano essere fredde, calcolatrici e dotate di senso pratico mentre gli uomini dovevano esprimere le loro emozioni, essere sensibili e intuitivi, preferire la poesia alla logica. L’elenco potrebbe continuare ma il punto cruciale è un altro ed è quello di dimostrare che tutti quei comportamenti che differiscono dai nostri modelli di riferimento sono sempre considerati come un’eccezione alla regola e mai, nemmeno per un momento, portatori di valore , in grado di contribuire all’arricchimento dell’umanità. Ciò deriva dal fatto che l’intero impianto della cultura occidentale si è fondato sull’etnocentrismo inteso come principio propulsore di progresso e di civiltà. Gran parte dell’antropologia del secolo scorso è stata strumentalizzata da un approccio evoluzionista di matrice vittoriana, fortemente eurocentrato, ed ha sempre guardato agli altri popoli come arretrati rispetto ad una presunta scala evolutiva della quale ha presunto di occupare lo scalino più alto.
La verità è che il bisogno di giustificare le imprese colonialiste, le quali rappresentano il culmine di un processo di dominazione e che affondano le loro radici agli albori della modernità, coincide con il programma di schiavizzazione e di culturicidio dei popoli d’oltreoceano ai fini dello sfruttamento economico. Non è un caso che si faccia strada, fin dagli ultimi anni del XVI sec., quel pensiero cartesiano dicotomizzante che sancirà la definitiva opposizione binaria tra umani e non umani, cultura e natura, anima e corpo, ragione e istinto, uomo e donna, città e campagna ecc…, corrispondenti, rispettivamente, a valori positivi e negativi, superiori e inferiori. Tutte quelle caratteristiche che osserveremo da quel momento sono il frutto della diffusione di quell’assunto. L’invenzione della razza è difatti il coronamento di quel processo, la giustificazione e l’alibi per eccellenza, che ha permesso di sfruttare il resto del mondo in tranquilla coscienza. Un indigeno africano o un amerindo verranno definiti più simili agli animali non umani, gli sarà negata un’anima e sarà schiavizzato senza alcun rimorso.
Possiamo dunque affermare che in patria, con identici presupposti, si siano applicati quei sistemi educativi funzionali ai modi di produzione economica e che tutti, indistintamente, siano una risultante di fattori storici e non, come vorrebbe far intendere un bieco provincialismo inconsapevole, di “natura”. E sono sempre i diversi atteggiamenti, i diversi incoraggiamenti e i diversi sistemi educativi che hanno sospinto i differenti atteggiamenti sessuali: la pazienza per le femmine, la forza per i maschi, che tradotti in termini di funzionalità corrispondono per il primo a una docile passività, per il secondo ad un’attiva aggressività. Se questi elementi li trasponiamo in un contesto di produzione economica capitalistica fondata sullo sfruttamento della forza lavoro, ci risulterà chiara la loro utilità: negare uguali diritti vuol dire differenziare le capacità e contare su un esercito di riserva che possa essere utilizzato nelle fluttuazioni occupazionali, costanti dell’economia industriale.
La conseguenza è nota a tutti, dal momento che le donne non godono ancora di una retribuzione pari a quella degli uomini. Si sostiene che tutto ciò sia “naturale”, per il fatto che la donna, essendo soggetta alla responsabilità della maternità, sia necessariamente penalizzata nella sua capacità lavorativa. Ancora una volta possiamo, con l’aiuto dell’antropologia, sfatare questo mito utile: Colin Turnbull ha descritto l’attività delle madri dei Pigmei Mbuti che durante il parto erano spesso a caccia o in viaggio e non la riducevano affatto. Le caratteristiche di un rapporto tra madre e piccol* sono restrittive non in assoluto ma, nel nostro caso, relativamente alla società industriale contemporanea.
In quest’errore di fondo è caduto anche il femminismo nordeuropeo che ha svilito le donne del sud del mondo, escludendole dal suo programma di emancipazione. Quel femminismo, nato e sviluppatosi in concomitanza con le mire espansionistiche degli Stati-nazione, ha riguardato non a caso una classe medio borghese del nord Europa e s’inserisce in quello stesso contesto discriminatorio di cui abbiamo accennato. Negli ultimi decenni dello scorso secolo si è infatti fatto strada un movimento femminista nero che ha contestato aspramente e posto in contraddizione il femminismo bianco, criticandone i presupposti.
Già l’anarchica Emma Goldman, in passato e seppure con modi e intenti assai diversi, nella sua polemica contro le suffragiste aveva posto l’accento sul pericolo di un’omologazione al potere patriarcale, facendo notare come la richiesta di un’uguaglianza al diritto di voto celasse in realtà una parità vuota ed acritica, come “il privilegio di diventare giudice, carceriere, boia”. La sua attenzione all’interdipendenza tra il mutamento sociale e collettivo e quello interiore, di cui è stata pioniera, viene oggi ampliato e declinato a sempre più numerosi livelli, grazie anche alla trasformazione dei luoghi deputati alla produzione del sapere: lo sviluppo di un pensiero femminile come Gender Studies ha introdotto nuove prospettive di studio, accogliendo i contributi delle donne di ogni luogo del mondo.
Tornando al punto in questione, dunque, il femminismo nero, utilizzando un pensiero decostruttivista derivato da Deridda e più in fondo dal metodo lacaniano, ci ricorda che lo stesso femminismo nordeuropeo non solo si è sviluppato di pari passo con il colonialismo ed il razzismo ma ha assunto uno sguardo altresì evoluzionista eurocentrico, che poneva al vertice dello sviluppo la donna bianca, occidentale, benestante ed il resto delle donne come involute rispetto al loro traguardo. Le differenze, come nel caso degli studi antropologici di quel tempo, piuttosto che essere considerate come un arricchimento sono state valutate come il segno distintivo di una mancata emancipazione.
Il dibattito che anima il presente si sviluppa in varie direzioni, avvalendosi di una tale ricchezza di contributi e di prospettive da produrre riflessioni cruciali: l’ecofemminismo queer, a partire dalla riflessione di Adrienne Rich che nel saggio pubblicato nel 1980 “Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica” indica nel lesbismo una scelta di libertà alternativa, uno spazio di resistenza e di lotta all’obbligo socialmente imposto dell’eterosessualità che ha prodotto la subordinazione delle donne;il femminismo nero e postcoloniale, che denuncia il razzismo eurocentrico teso a considerare il resto del mondo come una sua appendice ed introduce il concetto d’intersezionalità tra i vari assi della discriminazione (razza, genere, classe, sessualità), puntualizzando la necessità di riconoscerli come differenti forme di un unico sistema di potere.
Uno dei testi più acuti di questo filone è “Can the Subaltern Speak?” del 1988, di Gayatri Chakravorty Spivak che, nell’analizzare il modo in cui l’Occidente rappresenta le donne colonizzate, si/ci domanda se queste donne abbiano la possibilità di autorappresentarsi dal momento che la loro voce risulta, prendendo in prestito un termine lacaniano, forclusa. Ciò che ne risulta, secondo una pluralità di sguardi differenti, come ci suggerisce Gayatri Spivak, è che sia del tutto improbabile considerare le donne bianche come referenti, perché significherebbe trovarsi nell’impossibilità di formare alleanze politiche che agiscano oltre le contrapposizioni di razza, classe e confini nazionali. Suggerisce perciò di sperimentare un essenzialismo strategico che nel riconoscimento dell’intersezione tra razza, genere ed etnicità possa, attraverso una pratica solidaristica, costruire un soggetto politico collettivo transnazionale che tenga conto delle diverse specificità. Quale più grande stimolo per pensare in termini di alternativa a una civiltà occidentale in declino che ha raggiunto i suoi limiti?
Maddalena Porcelli