L’Italia è in guerra. È una verità banale eppure non riconosciuta dai più. L’impegno militare italiano è in continua crescita da diversi anni, ma viene, di volta in volta, reso opaco, nascosto dietro i diversi ossimori che hanno disegnato l’evolversi del paradigma bellico nel nostro paese. Guerra umanitaria, operazione di polizia internazionale, guerra contro il terrorismo sono solo alcune delle chiavi di lettura utilizzate per misconoscere la natura delle missioni militari in cui le forze armate del Bel Paese sono state e sono tutt’ora impegnate.
La maggiore disinvoltura nel chiamare “guerra” la guerra di ministri come Guerini e Crosetto non intacca la convinzione che il nostro sia un paese pacifico.
Una cortina fumogena fitta fitta rende opaca una realtà cruda.
Nel 1999 tre mesi di bombardamenti italiani in Serbia non vennero resi noti, così come l’impegno diretto in Libia nel 2011.
Oggi truppe italiane sono in prima fila in ambito NATO nella guerra in Ucraina. Truppe italiane sono piazzate ai confini tra i paesi Nato e la Russia, droni spia partono ogni giorno dalla base siciliana di Sigonella per fornire informazioni all’esercito ucraino.
Dalla stessa base aeronavale di Sigonella vengono imbarcati i rifornimenti destinati alle forze armate israeliane impegnate in una guerra genocida a Gaza.
Il primo aereo cargo delle forze armate degli Stati Uniti per rifornire le forze armate israeliane di armi, munizioni ed equipaggiamenti militari è decollato da Sigonella venerdì 13 ottobre. Il secondo sabato 14 e il terzo domenica 15. Ha preso il via così l’inedito ponte aereo – via Italia – tra il grande scalo tedesco di Ramstein e la base aerea di Nevatim (deserto del Negev) nei pressi della città di Beersheba, quartier generale degli squadroni dell’Aeronautica militare di Israele equipaggiati con i nuovi cacciabombardieri F-35 a capacità nucleare.
Nulla di nuovo. Da tempo l’Italia è una piattaforma logistica proiettata nel Mediterraneo per le guerre, che la vedono impegnata sia in ambito Nato, sia come ingranaggio dell’imperialismo tricolore.
Le 18 missioni militari in Africa sono parte dello sfruttamento neocoloniale che l’ENI conduce nel continente e uno degli ingranaggi dello spostamento a sud della guerra ai migranti.
Guerra ai migranti che, proprio in queste ultime settimane, ha avuto una brusca accelerazione.
Il 6 novembre la presidente del consiglio dei ministri Meloni ha sottoscritto con il primo ministro albanese Rama un protocollo per la gestione in territorio albanese dei naufraghi ripescati in mare dalla Marina Militare e dalla Guardia di Finanza. Entro la prossima primavera verranno aperte due strutture: una nel porto di Shengjin per le procedure di identificazione e smistamento e la seconda, una vera prigione, nell’area di Gjader, 20 chilometri nell’entroterra. Le spese e la gestione saranno tutte a carico dell’Italia, il governo albanese garantirà la sorveglianza esterna.
Siamo arrivati alla realizzazione di campi di concentramento fuori dai confini, luoghi dove sarà ben difficile per i reclusi comunicare con gli avvocati o presentare ricorsi. Alla faccia del divieto dei respingimenti collettivi, del diritto di asilo e di altri “principi”.
A fine settembre il governo aveva prolungato la detenzione amministrativa sino a 18 mesi e aveva dato mandato al ministero della Difesa di costruire nuove prigioni per migranti e richiedenti asilo in aree militari, scegliendo piccole località poco abitate.
Una scelta che qualifica CPR, Cas ed hotspot come “opere destinate alla difesa e sicurezza nazionale”.
Il governo fa la guerra ai migranti e schiera le forze armate. I CPR sono diventati, anche per legge, campi di concentramento per prigionieri di guerra.
Il governo alza l’asticella a incarica la Marina militare e la Guardia di Finanza di rastrellare in mare e imprigionare fuori dai confini gli sconfitti della guerra che lo Stato Italiano combatte da decenni nel Mare di Mezzo.
Sono tanti gli ingranaggi della macchina militare, che investono sempre più profondamente la nostra società.
Militari sono impegnati dal 2009 nell’operazione “Strade sicure”: li troviamo nei CPR, nei cantieri militarizzati della Val Susa, nelle periferie urbane, dove la sorveglianza etnicamente mirata è parte del dispositivo di controllo e criminalizzazione dei poveri nati altrove.
In un paese dove il numero dei reati, fonte il ministero dell’Interno, è in costante riduzione, si aumentano i dispositivi di sorveglianza e la militarizzazione del territorio, nonostante non vi siano segnali di significativi momenti di insorgenza sociale. D’altro canto la violenza della guerra di classe, attuata dagli imprenditori e dai loro alleati all’interno delle istituzioni, è tale che i governi mettono in campo misure di prevenzione delle lotte sociali, che vedono le forze armate affiancare le polizie nella repressione e nel controllo.
L’antimilitarismo oggi più che mai non può ridursi ad un ruolo meramente testimoniale, ma deve sapersi fare concreto orizzonte di lotta, che sappia far crescere i movimenti che si muovono in modo significativo contro basi militari, fabbriche d’armi, poligoni di tiro, mercati delle armi aerospaziali come quello che si terrà a Torino a fine novembre.
Smontare gli ingranaggi simbolici e materiali del militarismo è necessario allo sviluppo di movimenti di opposizione radicale all’ordine statale, capitalista, religioso, patriarcale.
Maria Matteo