Per Veronelli la scienza non ha ancora occupato lo spazio, né si intuisce possa farlo, delle infinite metamorfosi del vino. Un pensiero ecologico radicale per un’epoca, come quella degli inizi anni ’60 del secolo scorso, in cui l’industrialismo marca le sorti ineluttabili e progressive del genere umano: «vi è qualcosa che sfugge, qualcosa che noi solo conosciamo, con cui solo noi comunichiamo, noi che amiamo il vino: la sua anima. Ha origine dalla pianta simbolica, la vite. E’ coltivato e non fabbricato come le cose inerti. E’ soggetto a mille condizioni naturali prima di venire alla luce; un giorno nasce e subito ha bisogno di attente cure; solo attraverso pericoli ed esperienze giunge alla maturità, per poi declinare e, più vecchio morire. Un ciclo che è di ogni creatura.1» Ed è proprio in quel contesto che fa la sua apparizione la famosa frase di Luigi Veronelli secondo cui «il peggior vino contadino è migliore del miglior vino industriale». Non perché, come erroneamente è stato tradotto sino a noi, vi è una lettura semplicistica e bucolica di un mondo come quello contadino, superbamente anarchico, che concilia animalità e grande umanità, né perché vi è una presunzione anti-scientifica di tipo mistico-ancestrale, ma soltanto una vecchia testardaggine: «essere i vini contadini migliori. Piccolo il podere, minuta la vigna, perfetto il vino. Polemica aspra su ciò. Spergiurano: il contadino non sa vinificare; non sa e tu insegnalo; ma non che non conviene, cuopre cuopre. A uve sane, o bestie, è l’immediata opera. (…) Nego con ciò la validità dell’intervento ‘enotecnico’? Affatto; dico solo che deve essere condizionato. Le ‘pratiche’ che rispettano l’integrità della composizione naturale del vino sono lecite nella misura in cui apportano un’intelligente correzione delle sue ‘imperfezioni’. La natura, nella sua infinita sapienza, ha tutto previsto perché l’uva, se è sana, se è colta al punto esatto, si trasformi in vino con il minimo aiuto dell’uomo; aiuto che deve favorire i fenomeni naturali e non alterarli2.» L’apprezzamento per un mestiere artigianale, libero ed individuale, coincide con l’opinione secondo cui la natura è in grado di fornire una materia prima di eccellenza atta ad essere trasformata, senza alterazioni. “Ant’anni” prima, come avrebbe detto Gino, che qualsiasi format biologico costruisse una cornice procedurale e simbolica del ‘naturale’. Il vino è dunque, nei secoli, Bacco, Lieo, Libero: è emancipazione dalla tirannia, civiltà che cresce all’ombra delle vigne, libertà dei costumi. Lo sguardo di Gino si rivolge ai maestri d’Oltralpe, alla “quadriade” intraducibile dello splendido concetto di terroir: la vite, il terreno, il clima, l’essere umano.
Gino cammina le campagne e beve molti vini – quanti? «- flebile in matematica, non ne ho mai tentato il conto; 10 bicchieri pro die “a sbutoni” da quando ho iniziato a bere; 10 anni e ora ne ho – quasi – 78, centinaia di migliaia di bicchieri3» racconta in una delle sue ultime conversazioni che ci giungono scritte, poco prima di lasciare il palcoscenico della vita. Veronelli ama rivolgersi al lettore con il ‘tu’, «instaurando una comunicazione di grande familiarità, di anarchica abolizione delle gerarchie allocutive4»: «se non ami il vino, se non sei disposto a riconoscerlo amico, non leggermi’5.» Da qui partono le sue mirabolanti descrizioni dei vini, risalenti, nelle loro prime formulazioni, ad un’Italia ancora priva delle denominazioni di origine: alla fine degli anni Cinquanta6. Solo così possiamo renderci conto di quanto tutta letteratura eno-gastronomica, di lì a venire, sia in qualche modo a lui debitrice: «Grignolino di Migliandolo. Colore: rosso rubino delicato, ma vivo e acceso (sottile trasparenza porporina); brillante. Profumo: bouquet anche delicato e fresco (con lievissima insistenza erbacea). Sapore: asciutto senza cedimenti e senza asprezza; sottile fondo amarognolo di grande eleganza; sentore di pepe bianco, lieve fragranza di rosa; nerbo sottile ma deciso e stoffa leggera ma aristocratica; ha carattere e razza. Questo l’esame organolettico di un grignolino accolto nel volume, il quadro direi delle sue “costanti”, anno per anno, buona o cattiva l’annata. Dice tutto quella descrizione? No, non può dirlo, non dice ad esempio, che è vino testa balorda, anarchico, individualista; rosso chiaro, vivo di trasparenza porporina alla nascita, subito asciutto senza cedimenti ed asprezze, vuole essere bevuto da giovane; uno, due, cinque anni secondo volontà sua (capace, in certe annate, di andare avanti, a dispetto), si fa colore rosso rubino (se ne ha voglia, si smorza (se ne ha voglia) nell’aristocrazia; solo se ti riconosce amico, per come lo ascolti, per cure che gli dài, svela tutto il bouquet sottile di verde nocciola ed il gusto lieve amarognolo, pacato, e attento, controllato (finalmente) e armonico. Se, nell’esame organolettico, avessi messo tutto questo, il tecnico si sarebbe confermato: “Veronelli è matto” e, testa balorda anarchico individualista come quel suo vino, inattendibile7.»
Concludo proprio là, al confine tra il sacro e il profano, con la prima dissacrante parodia della messa8, dove Gino Veronelli incomincia i suoi “Vini d’Italia”: « Introibo ad altare Bacchi, ad eum qui laetificat cor hominis.» Perché allora, come oggi, e con lo stesso spirito goliardico, si avverte e si esalta quell’inesprimibile del vino.
1 Luigi Veronelli, I vini d’Italia, Canesi Editore, Roma 1961, pag. 13
2 Luigi Veronelli, Il vino giusto, Rizzoli, Milano 1971, pag. 23
3 Luigi Veronelli, Pablo Echaurren, Bianco Rosso e Veronelli. Manuale per enodissidenti e gastroribelli II°, Stampa Alternativa, Virebo 2005, pag. 98
4 Manuela Manfredini, Parlare col ghiottone. L’Italiano delle guide gastronomiche, in http://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/speciali/panevino/3.html
5 Luigi Veronelli, Il vino giusto, cit. pag. 9
6 Cfr. Luigi Carnacina, Luigi Veronelli, La grande cucina : 3715 ricette, 242 soggetti a colori, 221 soggetti in nero, 139 disegni, a cura di Luigi Veronelli Contiene dizionario gastronomico, Garzanti, Milano 1960; Luigi Veronelli, I vini italiani, cit.
7 Luigi Veronelli ( a cura di), Catalogo Bolaffi dei vini d’Italia. “Il Gotha dei vini”, prima ristampa, Giulio Bolaffi Editore, Torino 1970, pp. XIX, XX
8 Risalente al XII secolo sotto il nome di Officium Lusorum si riferisce al codice di Benedictbeuern (Carmina Burana), di cui si ha una versione più tarda pubblicata da Tommaso Wright come Missa de potatoribus (Messa dei bevitori) o Missa gulonis Cfr. Francesco Novati, Studi critici e letterari. L’Alfieri poeta comico. Il ritmo Cassinese e le sue interpretazioni. Un poeta dimenticato. La parodia sacra nelle letterature moderne. Loescher Editore, Torino 1889.