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Il loro e il nostro

Il loro e il nostro

È nel 1999 a Berlino che ha preso il via il Forum che ha assunto il nome di G 20; inizialmente si è trattato di un incontro dei ministri delle finanze e dei banchieri centrali delle 20 principali economie mondiali alle prese con il ripetersi di sussulti finanziari, poi nel 2008 in seguito alla grande crisi c’è stata la discesa in campo anche dei capi di stato e di governo.

Tanto per capire di cosa stiamo parlando: il G 20 raggruppa il 60% della popolazione globale, l’80% del Prodotto interno lordo ed il 75% degli scambi commerciali a livello mondiale. Un aggregato che non ha nessuna intenzione di darsi una struttura relazionale fissa e nessun segretariato ma si accontenta di un minimo di formalità, che consenta un po’ di confronto e di discussione (soprattutto per studiarsi meglio e mandarsi avvertimenti) una volta all’anno grazie ad uno spettacolare summit finale (quest’anno a Roma il 30 e 31 ottobre) e ad una serie di incontri a livello ministeriale, alcuni già tenuti ed altri definiti secondo questo calendario:

  • Lavoro-Istruzione a Catania, 22-23 giugno;

  • Esteri-Sviluppo a Matera con sessione ad hoc sulla Cooperazione allo Sviluppo a Brindisi, 28-30 giugno;

  • Economia e Finanze a Venezia, 9-10 luglio;

  • Ambiente-Clima-Energia a Napoli, 22-23 luglio;

  • Innovazione e Ricerca a Trieste, 5-6 agosto;

  • Salute a Roma, 5-6 settembre;

  • Agricoltura a Firenze, 19-20 settembre;

  • Commercio internazionale a Sorrento, 5 ottobre;

  • Segmento ministeriale congiunto MEF-Salute in occasione del Vertice finale del 30-31ottobre a Roma.

Come si vede prima il governo Conte e ora quello Draghi approfittano di questo battesimo italiano nell’ospitare il G20 per rilanciare la vocazione turistica del paese: Roma, Venezia, Firenze, Napoli, Sorrento, Matera, Catania, Trieste e scusate se è poco. Sia che ci siano accordi sia che non ce ne siano, almeno albergatori e ristoratori ne beneficeranno – così come i numerosi funzionari che parteciperanno agli eventi – anche se preoccupazione del governo tricolore è – come ci raccontano – nientemeno quella di richiamare i padroni del mondo alle loro responsabilità. Queste infatti sono le priorità indicate dalla presidenza italiana al forum:

  • People: “le nostre azioni politiche devono essere incentrate sulle persone”, contro disuguaglianze, povertà, esclusione;
  • Planet: “fermo impegno a fornire risposte a questioni chiave come il cambiamento climatico, il degrado del suolo, la perdita di biodiversità…la mobilità sostenibile, l’efficienza energetica”;

  • Prosperity: “sfruttare tutto il potenziale della rivoluzione tecnologica per migliorare concretamente le condizioni di vita dei cittadini di tutto il mondo, in ogni aspetto della loro vita”.

Priorità che, in buona sostanza, dovrebbero definire politiche in grado di “accelerare la transizione energetica, combattere il cambiamento climatico, sostenere l’empowerment delle donne, collaborare per una digitalizzazione fruibile da tutti, eliminare le disuguaglianze, creare un sistema sociale più inclusivo” e via così, ovviamente senza cambiare il sistema che sta alla base del meccanismo di impoverimento, emarginazione, gerarchizzazione della società e cioè il capitalismo nelle sue diverse varianti. L’imperativo “è stringere con più forza possibile la cooperazione globale per superare la grave crisi esplosa con la pandemia”. Come sia possibile farlo in un mondo dominato dalla conflittualità crescente tra i vari imperialismi, dalla corsa agli armamenti e dal persistente clima di guerra fa parte dello spettacolo che periodicamente ci viene ammannito per convincerci che lor signori si stanno dando da fare per risolvere i problemi dell’umanità.

In effetti siamo pieni di carte e di parole, di costituzioni e di proclami, di dichiarazioni e di impegni, alcuni anche bellissimi come la Dichiarazione dei Diritti dell’Essere Umano; il problema è che non sono applicati e funzionano come foglie di fico per le vergogne del potere. Il tema dei diritti umani rimane centrale oggi come ieri ed emerge con più forza in questi tempi grazie agli effetti della pandemia/sindemia di Covid-19 che ha comportato un drastico peggioramento nelle libertà e nei diritti accompagnato da un aggravamento della condizione economica e sociale di interi settori sociali. Il dilagare di conflitti caratterizzati da veri e propri crimini di guerra, l’espandere di sistemi repressivi e di controllo sempre più sofisticati, l’operare terroristico di bande armate al servizio di questa o quella multinazionale, l’aggressione al territorio e all’ambiente, il riemergere della schiavitù e l’infame mercato sulla pelle di quanti sono in fuga da un presente di sofferenza e morte arricchiscono il quadro.

Transizione ecologica, cambiamenti climatici, riconversione, digitalizzazione, automazione sono parole all’ordine del giorno ed al loro suono intonano la musica gli imbonitori di turno per convincerci che lor signori sanno dove sta la salvezza, cercando di occultare il semplice fatto che i piani di sviluppo e di riorganizzazione del capitalismo stanno riducendo alla fame la classe proletaria mondiale, inclusa quella dei paesi industrializzati. Un po’ di soldi, qualche sacrificio in attesa dell’immancabile ripresa ed ecco che i giochi sono fatti. Il G20 di quest’anno ha questo compito.

Quale è invece il nostro compito? È aperta da tempo la ricerca di risposte efficaci alla drammaticità crescente della questione sociale, contraddistinta sia dall’imponente crisi economica che stiamo vivendo sia dalla serie infinita di conflitti regionali, etnici, religiosi, in profonda correlazione con l’affermarsi della politica di attacco al livello di vita, di reddito, di salute, delle classi popolari e di ridefinizione del sistema di dominio mondiale sull’onda degli effetti del Covid-19. Alcuni ricercano nelle ricette di un liberalismo umanitario ormai datato qualche possibilità d’uscita, altri studiano di rilanciare il ruolo dello Stato in funzione di un rinnovato patto tra capitale e lavoro, altri ancora si legano mani e piedi ai poteri forti europei per raccoglierne le briciole e non manca chi fa del populismo parafascista il modello da seguire per legare le masse ad un impossibile progetto nazionalista.

Il peso sociale e politico delle multinazionali di fatto soprattutto statunitensi, la centralizzazione dei processi decisionali, la circolazione di masse imponenti di capitali, lo scardinamento delle economie nazionali, la riduzione dei poteri dei singoli stati, la dimensione stessa della crisi in atto, non rendono però credibili queste opzioni. La globalizzazione continua così come continuano i suoi effetti: la crescita del capitale finanziario, il calo dei profitti nel settore manifatturiero dei paesi della prima industrializzazione, la possibilità di spostare la produzione in posti in cui le condizioni di lavoro sono peggiori (per il proletariato) ed è più facile sfruttare la manodopera, gli utili che approdano dove le tasse sono più basse (e non è certo la soluzione il prospettare una tassa universale del 15% tanto che un big come Amazon potrebbe esserne esente).

Inutile girarci intorno: il momento è particolarmente complicato e preoccupante. I movimenti fanno fatica a riprendere fiato e capacità di incidere sul tessuto sociale, le destre stanno tentando di conquistarsi la scena in modo più o meno aggressivo (i generali francesi minacciano addirittura la guerra civile), il militarismo è sempre più presente nella vita sociale sostenuti dal sistema industriale che sulle armi e sulle guerre prospera e fa affari, come ben dimostra l’aggressione all’Afghanistan ed i vent’anni di guerra ininterrotta.

Eppure se abbiamo la capacità e la volontà di guardare oltre la nostra quotidianità ecco che risalta l’esperienza cilena, quella di una lotta iniziata il 18 ottobre 2019 da una protesta studentesca contro l’aumento dei prezzi delle tariffe dei mezzi di trasporto e che è continuata, con una radicalità crescente e coinvolgendo milioni di persone, nonostante le morti numerose provocate dal Covid-19, riuscendo a imporre la cancellazione della costituzione liberal-fascista e mettere all’ordine del giorno lo smantellamento delle politiche ultraliberiste. Ecco ancora la lotta in corso in Colombia che riprende molti temi di quella cilena, la resistenza di popolo ai generali del Myanmar, quella palestinese contro la colonizzazione israeliana, le mobilitazioni antiautoritarie in Bielorussia e in Russia, il movimento Black Lives Matter negli USA, le continue manifestazioni dei movimenti delle donne in Polonia, Argentina e non solo. Mobilitazioni, resistenze, rivolte: non c’è solo immaginazione e speranza, un altro mondo è possibile.

Autogestione, municipalismo, federalismo, libertarismo non sono più patrimonio esclusivo di un movimento residuale ma temi di riflessione per un’azione politica possibile. In questo gli anarchici e le anarchiche, pur talvolta minoritari, dimostrano di essere, a livello internazionale, parte viva di una battaglia culturale, politica e sociale che si misura con i problemi sul tappeto per elaborare soluzioni praticabili in grado di aprire nuovi spazi di libertà e nuovi condizioni di eguaglianza. Segnali importanti di ripresa di attività e di incisività si danno praticamente in ogni parte del mondo. Da Santiago a Bogotà, da Istanbul ad Atene il filo rosso nero si snoda ininterrottamente, passando per la Bielorussia dove la criminalizzazione e la repressione non impedisce loro di continuare ad impegnarsi a fondo contro l’autoritarismo crescente; per il Messico ove nel Chiapas ed in Oaxaca persistono importanti iniziative di autogoverno popolare e più in generale nell’intera America Latina dove sono sempre più numerose le iniziative sviluppate praticamente in ogni paese, perfino a Cuba ove si registrano segnali importanti di ripresa; per non parlare dell’impegno a sostegno dell’esperienza del Confederalismo Democratico nel Kurdistan. Anche in Europa, pur nella complessità e nella diversificazione del movimento, anarchico ed anarcosindacalista, si sono avute manifestazioni di significativa presenza, sia teorica sia metodologica, nei movimenti sociali. Altri importanti segnali provengono dalle Filippine, dal Senegal, dal Sudafrica , dall’Indonesia, dalla lotta congiunta israelo-palestinese contro il Muro e l’apartheid. I tempi sono sempre più maturi per un impegno specifico che, tenendo conto delle ricchezze e delle particolarità di ogni singola realtà, sia in grado di mettere a confronto, nel riconoscimento reciproco, percorsi ed opzioni che hanno radici ed finalità comuni, per una crescita congiunta e collettiva. Questo sarà il nostro G20.

Massimo Varengo

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