“Il potere è fare quello che vuoi sapendo che nessuno ti potrà mai fermare “
(Edward Norton – Motherless Brooklyn)
Se qualcuno aveva dubbi residui sul potere sovrastatale delle multinazionali eccolo accontentato dagli ultimi eventi: due vertenze simbolo, tutt’e due al sud, stanno mettendo in discussione posti di lavoro per oltre 20.000 lavoratori complessivamente (e ci limitiamo solo a queste).
La Whirpool, multinazionale americana nel settore degli elettrodomestici, ha deciso di chiudere lo stabilimento di Napoli (400 lavoratori) e questo dopo aver già chiuso, in un’ottica di riduzione dei costi, negli ultimi sei anni lo stabilimento di Trento (500 lavoratori e 300 nell’indotto), due stabilimenti in Germania, uno in Svezia ed uno in Francia.
Dopo sei mesi di occupazione della fabbrica si è ritornati al punto di partenza: ritiro dei licenziamenti e riapertura del tavolo di trattativa. I lavoratori sanno che questa potrebbe trasformarsi in vittoria di Pirro e tutto potrebbe essere rimesso in discussione in men che non si dica.
Chiacchierando proprio di questa vicenda con alcuni compagni anarchici giapponesi venuti a Napoli in occasione del convegno dedicato a Misato Yoda, questi chiedevano come stava andando la vertenza Whirpool (ancora non erano stati ritirati i licenziamenti), domandavano poi da quanto tempo la fabbrica era occupata ed alla risposta (da circa cinque mesi) chiedevano infine candidamente “e stanno portando avanti la produzione da soli?”
Questo mi ha fatto riflettere sul fatto che in Italia siamo in un contesto in cui se solo ti azzardi a pensare a una cosa del genere sei tacciato di utopismo, idealismo, uno che sa solo far chiacchiere ecc., mentre in Argentina, in Turchia, in Francia ed appunto in Giappone quest’idea pare non sia un tabù.
Tornando a noi, c’è da dire che la vertenza ha avuto una eco nazionale e per certi versi internazionale, grazie all’attivismo ed al protagonismo sincero dei lavoratori (l’hashtag #Napolinonmolla è diventato un ottimo tormentone). Alla fine però si sa: i lavoratori spesso, anche nei momenti di lotta più intensi, rischiano di diventare carne da macello per interessi politico elettorali. Il governo va nel panico se le multinazionali vanno via ed in questo contesto il fatto che i lavoratori vadano in mezzo alla strada è decisamente secondario, di fronte alla subordinazione agli interessi delle big corporations.
Accade proprio questo con l’ILVA di Taranto rilevata da Alcerolmittal, multinazionale indiana della siderurgia, dopo aver vinto la gara indetta per rilevare l’attività produttiva dopo sei anni di commissariamento e processi giudiziari che hanno visto avvicendarsi sei governi.
Dopo solo un anno dall’accordo i padroni dell’acciaio mondiale (stiamo parlando del primo gruppo siderurgico mondiale) hanno in pratica detto: scusate ci siamo sbagliati, dobbiamo chiudere e andarcene perché non rientriamo coi profitti. Questo dopo aver avuto una sorta di immunità di fatto sui disastri ambientali fino al 2023 (per quella data i morti saranno fisiologici, in attesa di tempi migliori… la speranza si sa , è l’ultima a morire).
Stiamo parlando dello scudo penale renziano del 2015, poi tolto poi rimesso e poi tolto ancora… la multinazionale ha comunque deciso di ridurre drasticamente il personale e la produzione ed infine di andarsene definitivamente. Il governo entra in campo direttamente solo perché si gioca la testa anche qui (con buona pace della Whirpool che a telecamere spostate ora potrebbe riproporre ancora esuberi e chiusura).
I sindacati dal canto loro propongono l’ipotesi della “nazionalizzazione” (attenzione alle parole grosse, si tratterebbe nel migliore dei casi una partecipazione al 10-12% del pacchetto azionario) appoggiandosi all’esempio della Francia. Intanto ancora una volta i lavoratori diventano carne da macello sia come produttori di profitto per le multinazionali sia come percettori di morte per tumori nel caso tarantino.
La questione è talmente complessa che se istintivamente la proposta di chiudere la fabbrica definitivamente potrebbe apparire anche “salutare” (meglio 8.000 disoccupati che 8.000 famiglie morte o malate di tumore), al momento lo spettro della miseria appare decisamente più impellente, con l’illusione di poter produrre otto milioni di tonnellate di acciaio all’anno (questo l’obiettivo prefissato, attualmente stiamo alla metà) in maniera pulita ed indolore. Non bisogna essere particolarmente dotati per capire che si tratterebbe di riconvertire integralmente tutto il ciclo produttivo, macchinari compresi, quindi la cosa necessiterebbe di enormi investimenti, mentre addirittura le prescrizioni fatte dagli organi ispettivi al famoso altoforno due in materia di sicurezza e di impatto ambientale attualmente non risultano nemmeno ottemperate. Di qui il rimpallo di responsabilità fra multinazionale, stato e relativi commissari straordinari.
A quanto pare però la situazione non coinvolge solo Taranto. Quando si parla della messa a rischio di 10.700 lavoratori si parla dell’intero numero di addetti a livello nazionale: basta farsi un giro in rete per vedere che ArcelorMittal ha assunto nei 12 siti italiani un totale di 10.777 dipendenti. 8.277 a Taranto, a Genova 1.016, a Novi Ligure 681, a Milano 123, a Racconigi 134, a Paderno Dugnano 39, a Legnano 29 ed a Marghera 52. A questi 10.351 lavoratori si aggiungono quelli di Anis con 64 lavoratori, Am Energy con 100, Am Tubolarcon 40, Am Maritime con 222. Al momento 1.260 sono in cassa integrazione ordinaria, voluta dall’azienda a luglio per tredici settimane e poi prorogata per altri tre mesi. Nell’accordo firmato con i sindacati il 6 settembre 2018, l’azienda si era anche impegnata a garantire la contrattualizzazione entro il settembre 2025 degli esuberi rimasti nel 2023, cioè al termine del Piano ambientale, senza ritoccare al ribasso il costo del lavoro tagliando le ore in fabbrica di ciascun dipendente.
La questione è ancora aperta e il governo si gioca la testa. Il massimo appoggio e la solidarietà va ai lavoratori, con la consapevolezza che né la visita di conte dell’8 novembre a Taranto, ne gli accordicchi di governo e neppure la paventata e tanto auspicata nazionalizzazione reclamata dai keynesiani dei giorni nostri riuscirà a risolvere la situazione se i lavoratori non riprenderanno in mano il loro destino e decidere autonomamente il loro destino, senza delegare a burocrati sindacali od a governanti interessati più ai voti che a salvare posti di lavoro e vite umane.
Flavio Figliuolo