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Il bastone senza la carota. Stato “democratico” e continuità delle leggi repressive.

Il bastone senza la carota. Stato “democratico” e continuità delle leggi repressive.

L’avvento alla Presidenza del Consiglio di una post (?) fascista, a cento anni esatti dalla marcia su Roma, provoca timori più che giustificati su una futura involuzione dello “Stato di diritto” in Italia. Tuttavia bisogna tener conto che l’attuale Stato “democratico” dispone già di un ragguardevole bagaglio di norme repressive. Facciamone un breve elenco (e siamo sicuri che alla fine dell’articolo ne avremo dimenticate parecchie).

Le misure amministrative (avviso orale, foglio di via, sorveglianza speciale) sono oggi ampiamente usate contro attivisti, militanti no TAV e sindacalisti di base; definite impropriamente “norme fasciste”, risalgono in realtà alla legge di pubblica sicurezza del 1889 voluta da Francesco Crispi. Lo Stato repubblicano si è ben guardato dall’abolirle ma le ha anzi aggravate con l’introduzione del Daspo nel 1989, via via esteso dall’ambito sportivo ad ogni tipo di manifestazione pubblica.

La misura di Pubblica Sicurezza più longeva è probabilmente l’obbligo di soggiorno, che risale addirittura alle norme penali borboniche (misure per gli “attendibili”), diventa domicilio coatto col regno d’Italia, confino in epoca fascista, soggiorno obbligato in epoca repubblicana. Oggi si presenta in forma più edulcorata (ma con il nuovo governo chissà…). Quanto ai cittadini stranieri “extracomunitari”, con la legge Turco-Napolitano (voluta nel 1998 dalla democraticissima Europa) e l’istituzione dei Centri di Permanenza “Temporanea” (oggi Centri di Permanenza per il Rimpatrio), si è creata una vera e propria detenzione amministrativa disumana in cui il malcapitato viene incarcerato per mesi senza aver commesso alcun reato e senza alcuna reale possibilità di difesa in istituzioni totali in attesa di essere rispedito al Paese di origine. La recente pandemia ci ha poi mostrato come con un semplice atto amministrativo (un DPCM) sia possibile sospendere buona parte dei diritti costituzionali, confinare i cittadini nelle loro case, proibire le manifestazioni pubbliche. Le proteste spontanee contro il greenpass hanno dato il pretesto per introdurre nuove limitazioni alle manifestazioni nei centri storici.

Ma veniamo al diritto penale. Il neoministro della Giustizia Nordio ci ha opportunamente ricordato all’atto dell’insediamento che il nostro Codice penale reca ancora la firma di Benito Mussolini. Ma non si può certo dire che l’Italia repubblicana non ci abbia aggiunto abbondantemente del suo. Gli anni ’70 hanno visto una ricca produzione di norme repressive che, col pretesto di stroncare la lotta armata, hanno criminalizzato una intera stagione di lotte sociali portando in carcere o al camposanto migliaia di militanti. A partire da Genova 2001 il codice penale fascista è stato oggetto di una progressiva e costante torsione repressiva a danno di chi partecipa alle lotte sociali, così abbiamo visto il reato di “devastazione e saccheggio” applicato a casi di danneggiamenti anche minimali. Conseguenze: decine di anni di reclusione comminati agli accusati. È di questi giorni la denuncia da parte di un nutrito gruppo di avvocati (vedi UN n. 24) che lamenta una vera e propria persecuzione contro militanti anarchici con l’uso di imputazioni abnormi e sproporzionate rispetto all’entità dei fatti, in quello che si delinea come un vero e proprio “diritto penale del nemico”. Nell’Italia democratica degli ultimi decenni non manca neppure l’uso sistematico della tortura. Non ci riferiamo qui alle violenze “illegali” della polizia (da Genova 2001 alle tante morti in stato di detenzione) ma a pratiche legalissime come il regime di isolamento carcerario 41 bis, nel quale la durata prolungata delle restrizioni provoca effetti dannosi che si traducono in alterazioni delle facoltà sociali e mentali, spesso irreversibili. Definito “crudele, inumano e degradante” da Amnesty International è stato ripetutamente confermato dalla Corte costituzionale.

Vogliamo parlare della libertà sindacale? Dal 1990 esiste una legislazione che limita fortemente il diritto di sciopero “nei servizi pubblici essenziali” (cioè quasi ovunque), mentre una serie di norme capziose consegna il diritto di rappresentanza pressoché esclusiva a CGIL-CISL-UIL con il chiaro intento di impedire l’auto-organizzazione delle lotte. A Piacenza abbiamo visto persino sindacalisti di Si-cobas e USB arrestati con l’accusa di “associazione a delinquere” per aver posto in atto forme di lotta dura, in passato considerate assolutamente normali. In pratica pare che nella democratica Italia le uniche forme di protesta consentite siano le innocue sfilate per vie non troppo trafficate (anche le sanzioni contro i blocchi stradali sono state aggravate dal decreto Salvini del 2018, mai modificato su questo punto), gli scioperi simbolici e i commenti via web (purché non troppo infuocati).

Ovviamente ci sarebbe parecchio da aggiungere: il giro di vite contro le occupazioni di immobili voluto dal governo Renzi nel 2014, il proliferare di telecamere di controllo nei quartieri, l’uso del taser persino da parte dei vigili urbani. Certamente l’avvento di un governo di estrema destra non potrà che aggravare le norme securitarie esistenti ma gli anarchici e le anarchiche non si fanno illusioni sulle libertà concesse da uno Stato “democratico”. Le uniche libertà reali sono quelle che si conquistano e si mantengono con la lotta.

Mauro De Agostini

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