Bombardieri F35? Valgono centocinquantamila terapie intensive. La portaerei Trieste? Cinquantamila respiratori polmonari. Una manciata di blindati ed un elicottero? Trecentotrentamila posti letto oppure dieci miliardi di mascherine.
La produzione bellica non si è mai fermata. In pieno lockdown l’AIAD, la Federazione delle Aziende Italiane per l’Aerospazio, la Difesa e la Sicurezza, membro di Confindustria, scriveva ai propri associati che c’era “l’opportunità per le società e le aziende federate, di proseguire la propria attività, concentrando l’operatività sulle linee produttive ritenute maggiormente essenziali e strategiche”.
Essenziale e strategico per chi e per cosa? Per i governi e per le agenzie di sicurezza che li acquistano per i vari teatri di guerra. Questo settore dell’industria bellica, che ha in Piemonte uno dei suoi centri di eccellenza, non ha mai smesso di funzionare a pieno regime, perché la guerra per il governo Conte è un motore “essenziale” dell’economia, un tassello indispensabile per i giochi di potenza a livello planetario.
Gli anziani delle RSA, i lavoratori obbligati a far circolare le merci, i commessi dei supermercati, i medici, infermieri e OSS erano sacrificabili. Pedine di poco valore sullo scacchiere della storia. Mentre venivano prodotti cacciabombardieri, elicotteri da combattimento, missili e droni, la gente continuava ad ammalarsi senza ricevere cure adeguate. Per la nostra salute il lockdown non è mai finito: non si fanno i tamponi per il Covid, visite ed esami specialistici per altre patologie sono stati quasi azzerati. A maggio hanno riaperto buona parte delle attività produttive e commerciali, la sanità privata offre i suoi servizi a pagamento, mentre l’attività ambulatoriale resta in lockdown.
La metafora della guerra al virus, tanto cara al governo, ha un sapore agre di fronte alla strage di questi mesi. Decine di migliaia di morti. Quanti sarebbero ancora vivi se ci fossero state le strutture adatte ad affrontare l’epidemia? Ma… riusciamo davvero ad immaginare che i governi che si sono succeduti negli anni avrebbero davvero potuto mettere la salute di tutti davanti alle esigenze del profitto?
Le spese militari in Italia crescono da anni, così come i tagli alla sanità. Per chi se le può permettere ci sono le cliniche private, la prevenzione, le cure. Per gli altri la vita, specie in questi mesi, è diventata un terno al lotto. A decidere non è mai il destino. Decidono padroni e governi. Sono loro che hanno deciso dove e come investire, dove e perché spendere il denaro sottratto alle nostre buste paga.
La spesa militare è passata dall’1,25 per cento del Pil fino a raggiungere un picco del 1,45 per cento mentre quella sanitaria è scesa di un punto percentuale, con una previsione per il 2020 che si aggira sul 6,5 per cento del Pil. Negli ultimi 10 anni sono stati tagliati 43.000 posti di lavoro nella sanità. In Italia ci sono 3,2 posti letto ogni mille abitanti, contro i 4,7 della media europea. In Germania sono otto: inutile chiedersi perché lì la diffusione dell’epidemia sia stata controllata molto meglio che da noi. In Italia i posti letto (15mila euro l’uno) sono calati del 30 per cento tra il 2000 e il 2017. I responsabili siedono in tutte le poltrone rosse del parlamento.
Dopo due mesi e mezzo di pandemia, la situazione non è migliorata: non ci sono state nuove assunzioni di medici, infermieri, assistenti sanitari, gli ospedali non sono luoghi sicuri né per chi ci lavora né per chi vi è ricoverato. Chi osa denunciare la situazione viene deferito ai consigli di disciplina o licenziato. I lavoratori della sanità devono scegliere tra la borsa e la vita. Tra rischiare la vita per avere uno stipendio, o rischiare il posto per difendere la propria vita e quella degli altri.
Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio Mil€x nel 2020 sono stati stanziati circa 26,3 miliardi in spese militari, un miliardo e mezzo in più rispetto al 2019, di cui 5,9 miliardi di euro sono destinati all’acquisto di nuovi sistemi d’arma. Provate a calcolare quanti posti letto, quanti ospedali, quanti tamponi, quanta ricerca si potrebbe finanziare con questi 26 miliardi e rotti di euro. Avrete la misura della criminalità di chi ci governa oggi e di chi ci ha governato in questi anni.
Neppure l’epidemia ha fermato il business bellico. Anzi. La portaerei Cavour, costata 1,3 miliardi ed entrata in servizio nel 2009, è stata utilizzata per promuovere il made in Italy armiero nel mondo. Una nuova portaerei, la Trieste, varata lo scorso anno ci è costata 1,2 miliardi di euro. In piena pandemia il governo ha deciso di acquistare per la Marina Militare due sommergibili dal costo di 1,3 miliardi di euro, che saranno costruiti da Fincantieri.
Le armi italiane, in prima fila il colosso pubblico Leonardo, sono presenti su tutti i teatri di guerra. Sette miliardi di euro sono stati sbloccati dal Ministero della Difesa e dal MISE per la prevista “Legge Terrestre” che dovrebbe garantire la costruzione di diversi armamenti. In aprile Fincantieri ha vinto la gara per alcune fregate destinate alla Marina Militare statunitense. Le 36 missioni militari all’estero, al servizio dell’imperialismo tricolore, costano 1,3 miliardi l’anno. C’è anche un bonus per l’industria bellica: un blindato Lince, testato in zona di guerra, ha un valore aggiunto per i nuovi acquirenti.
Le guerre che paiono lontane sono invece vicinissime: le armi che uccidono civili in ogni dove, sono prodotte non lontano dai giardini dove giocano i nostri bambini. I blindati Lince, oltre che in Afganistan, sono stati testati tra le montagne piemontesi, nel cantiere-fortino di Chiomonte, in Val Susa.
In questi anni i militari italiani facevano sei mesi in Iraq, Libano, Afganistan e sei mesi per le strade delle nostre città. Guerra interna e guerra esterna sono due facce della stessa medaglia. I militari, promossi a poliziotti durante la pandemia, sono nelle nostre strade per affiancare le altre forze dell’ordine nella repressione di ogni insorgenza sociale. In molte località sono impiegati nei zone popolari. In Piemonte sono concentrati soprattutto a Torino, dove hanno stretto in una morsa le strade di Aurora e Barriera, quartieri dove la povertà, la precarietà, la difficoltà a mettere qualcosa in tavola, a pagare i fitti e le bollette, già forte, è aumentata durante il lockdown.
In questi due mesi e mezzo il governo ha alternato il bastone alla carota, regalando elemosine e distribuendo multe e denunce. Il loro nemico sono i poveri, quelli che rischiano la vita lavorando in nero, perché altrimenti non saprebbero come camparla, il loro nemico sono i lavoratori sacrificabili, i braccianti che devono chinare il capo e non pretendere protezioni. Niente deve fermare la macchina del profitto: chi la inceppa è trattato da nemico, da vittima sacrificabile.
Le emergenze diventano spesso occasione di sperimentazione di nuove tecniche di controllo e repressione di ogni forma di emergenza sociale. Il governo si prende pieni poteri e giustifica il moltiplicarsi dei controlli e della repressione con la necessità di affrontare la crisi del momento. L’eccezionalità della situazione permette di utilizzare strumenti fuori dall’ordinario. Strumenti, che, anche “dopo” restano, sino a divenire normali. L’apparato legislativo inaugurato negli anni Settanta, facendo leva su un substrato normativo di origine fascista mai cancellato dall’ordinamento repubblicano, ha introdotto fattispecie di reato, che si sono installate stabilmente nell’ordinamento. La logica premiale applicata a chi faceva la spia è diventata uno dei cardini delle inchieste di questi ultimi quarant’anni.
L’emergenza “terrorismo” degli anni Dieci è stata il pretesto che ha portato i militari nelle strade delle città, nei centri di detenzione per immigrati senza carte, nei luoghi delle insorgenze politiche e sociali, dalla terra dei fuochi alla Val Susa. Queste operazioni erano tuttavia “mirate”: l’obbiettivo erano sovversivi, migranti, abitanti delle periferie, comitati di lotta, occupanti di case.
Il terremoto dell’Aquila fu un’occasione preziosa per mettere sotto controllo un’intera popolazione. Le ragioni divennero presto chiare: creare le condizioni perché i terremotati si rassegnassero, non pretendessero la ricostruzione ma accettassero spostamenti o l’edilizia d’emergenza. Nei campi-tende, dove i senza casa vennero rinchiusi furono imposte regole da caserma/prigione: coprifuoco notturno, controllo delle visite, blocco della solidarietà spontanea. I sopravvissuti alla catastrofe vennero sottoposti ad un processo di infantilizzazione/repressione tipico delle istituzioni totali. Quei campi/tende furono il banco di prova, nel quale una fetta di cittadini italiani vennero considerati potenzialmente pericolosi e privati di parte delle loro libertà.
Un trattamento simile, a lungo sperimentato con profughi e migranti, nel nostro paese è stato sistematicamente attuato nei confronti della popolazione sinta e rom, gruppi di umani razzializzati ed emarginati, relegati in baraccopoli ai margini delle metropoli, dove il controllo e la violenza statale sono normali. La criminale impreparazione ad affrontare l’epidemia ha spinto il governo a mettere tutti noi ai domiciliari di massa, imponendo drastiche limitazioni alla libertà di movimento. L’intera Italia si è trasformata in un campo tende. Un’occasione per sperimentare sull’intera popolazione tecniche di controllo militare, altrimenti impensabili.
Non è nemmeno finita. La necessità di movimento delle merci e delle persone, insita nella logica capitalista, ha imposto la fine del lockdown ma non la fine dei divieti e della militarizzazione. Anzi. Non sono consentiti cortei ma è permessa la movida, è vietato fare sciopero ma sono consentite le messe.
A maggio in Lombardia l’esercito ha fatto irruzione nei magazzini della logistica per coadiuvare la polizia per spezzare scioperi e picchetti. Il 6 maggio hanno sgomberato la TNT di Peschiera Borromeo, occupata per impedire il licenziamento di 66 interinali che lavoravano lì da 5 anni. Hanno poi fatto irruzione alla BRT di Sedriano. Il 22 maggio sono entrati alla UPS di Milano, dove i lavoratori sono in cassa integrazione da oltre un mese mentre la merce viene spostata su altri siti, per fingere un calo di produzione e disfarsi dei lavoratori più combattivi.
Il 27 maggio i lavoratori in sciopero hanno trasformato il presidio davanti alla Regione in corteo spontaneo che, nonostante l’approccio muscolare della polizia, è riuscito a muoversi per la città. In Piemonte, nel distretto ortofrutticolo di Saluzzo, i militari stanno stringendo in una morsa di ferro i braccianti che arrivano per la stagione delle raccolte, con controlli ossessivi e deportazioni.
In questi mesi il governo ha provato a renderci complici di una strage di stato, soffocandoci di retorica patriottica e coprendoci con un sudario tricolore. L’unione sacra degli italiani nella “guerra” al coronavirus, il sacrificio della libertà per il bene di tutti. Una favola che si scioglie di fronte a bombardieri prodotti a Cameri, mentre alle persone ammalate venivano prescritti tachipirina e scongiuri.
Il nazionalismo è un virus mortale, che di anno in anno sta infettando la nostra società. La paura del domani viene usata per innalzare nuove barriere, per finanziare guerre, stragi, occupazioni militari. Gli anziani sacrificati nelle RSA mentre si costruivano sommergibili da guerra sono l’emblema di regole sociali che è nostro impegno spezzare.
Non siamo sulla stessa barca di padroni e sfruttatori. Il tricolore era sulle camionette dei militari che hanno rotto i picchetti operai. Lo sa bene chi ha scioperato per non morire di lavoro, da chi ha resistito alla militarizzazione ed ha creato reti solidali. I prossimi mesi, anche se l’epidemia si attenuasse davvero, saranno durissimi. La destra fascista si sta organizzando: le piazze arancioni, che raccolgono fascisti, negazionisti, complottisti sotto il tricolore si candidano a far voce al disagio sociale, invocano libertà sotto la direzione di un generale fascista.
Le esperienze di mutuo appoggio, le lotte contro la militarizzazione dei territori, per riprendersi spazi di organizzazione politica e sociale sono il segno che la macchina del produci, consuma, crepa può essere inceppata. Ma non basta. Le industrie belliche, le caserme, i poligoni di tiro, le basi aeree e navali sono a due passi dalle nostre case. Occorre gettare sabbia nel motore del militarismo.
Maria Matteo