Il 14 settembre il Centro Studi Confindustria ha presentato, in pompa magna, il proprio Rapporto Scenari Economici, redatto da uno stuolo di eminenti studiosi e corredato, come ora si usa, di slides. Dietro la facciata dei dati e dell’autorevolezza scientifica, questi appuntamenti sono occasioni in cui le teste d’uovo della Confindustria, cioè dell’associazione sindacale dei capitalisti italiani, cercano di giustificare l’attuale modo di produzione e le inevitabili miserie e sofferenze che lo accompagnano, non perdendo occasione per chiedere all’autorità politica, al Governo, questo o quell’intervento a vantaggio delle imprese.
Il tema scelto quest’anno è quello della disoccupazione giovanile, che il rapporto definisce il vero tallone d’Achille del mercaro del lavoro e, più in generale, della ripresa economica. Secondo i dati elaborati dal CSC, nel 2016 fra i giovani, nella fascia dai 15 ai 24 anni, in Italia era occupato il 16,6 %, in Germania il 45,7, la media dell’Eurozona era del 31,2. Nella fascia 25-29 anni, il divario rispetto agli altri paesi dell’Eurozona si amplia al 17,1%, mentre si riduce al 10% per i giovani nella fascia dai 30 ai 34 anni.
L’impatto delle politiche giustificate dalla crisi economica è stato devastante: dal 2008 al 2014 i giovani occupati nella fascia 15-24 anni sono diminuiti di più di un terzo (dal 24,2 al 15,6%), mentre il numero dei poveri, nella stessa fascia, è quadruplicato (dal 2,7 al 10%).
La disoccupazione giovanile è per il Centro Studi Confindustria la principale causa dell’emigrazione: dal 2008 al 2015 509 mila cittadini italiani hanno trasferito la residenza all’estero, di questi 260 mila (il 51%) aveva meno di 39 anni, con un’incidenza quasi doppia rispetto alla percentuale sul totale della popolazione della stessa classe d’età.
Quindi se la disoccupazione giovanile riduce nel lungo periodo la forza lavoro a cui può attingere il sistema produttivo, con l’abbassamento del potenziale di crescita, l’emigrazione aggrava questa situazione: secondo i calcoli delle teste d’uovo confindustriali, l’emigrazione provoca una perdita di 14 miliardi per il solo 2015, generati dalle spese delle famiglie per la crescita e l’educazione dei figli che, calcolata per 51 mila emigrati al di sotto dei 40 anni nel 2015, daà un totale di 8,4 miliardi di euro. Ad essi vanno aggiunti quelli spesi dallo Stato per la formazione dalla scuola primaria all’università che dà un totale di 5,6 miliardi di euro.
Naturalmente la soluzione sono sgravi e incentivi, tutti a vantaggio degli imprenditori. Ma è l’unica soluzione? Saprattutto, sono queste le cause della disoccupazione e dell’emigrazione?
Se la disoccupazione giovanile è la conseguenza delle politiche di questi anni, con l’allungamento dell’età lavorativa, il prolungamento del tempo di lavoro, il taglio dei servizi sociali e quindi dei posti di lavoro in scuola, sanità ecc., l’emigrazione è conseguenza diretta della politica salariale condotta dalle grandi organizzazioni sindacali, Confindustria in prio luogo, in collaborazione con CGIL, CISL e UIL, che è al tempo stesso la causa prima dell’aumento della povertà.
Il primo passo per porre rimedio alla miseria e all’emigrazione è costringere gli industriali ad aprire i cordoni della borsa, sganciando parte di quelle ricchezze che hanno accumulato con la connivenza dei governanti e dei politici di Stato. E questo è possibile solo con l’azione diretta e l’autorganizzazione, nessun governo, nessuna maggioranza parlamentare sarà mai capace di soddisfare le esigenze degli sfruttati.
Tiziano Antonelli