Il governo ha scavallato a fine anno la scadenza dell’approvazione della legge di stabilità, con il “patto del cotechino”: l’opposizione ha ridotto a 90 gli emendamenti presentati ed il governo non ha posto la fiducia. In cambio c’è stata la diretta televisiva tra le 18 e le 19 per garantire visibilità a tutte le forze politiche, e poi tutti a casa, a festeggiare la fine dell’anno nell’accogliente dimensione domestica e familiare. Qualcuno ha voluto movimentarsi la vita, esibendo e maneggiando pistole (gli spari sopra, sono per NOI), ma con la conferenza meloniana di inizio anno siamo tornati alle consuete pisciate…
Tuttavia, sarebbe sbagliato trascurare i forti elementi di preoccupazione che assillano le élite al potere. Il 2024 sarà un anno di forte impatto sugli equilibri politici e finanziari globali e non sempre il risultato può essere considerato scontato. Quasi la metà della popolazione mondiale sarà chiamata a votare e l’incastro che ne potrebbe scaturire non è per nulla tranquillizzante.
A cominciare naturalmente dai conflitti in corso, con la guerra in Ucraina ormai quasi persa (per l’Occidente), la martellante offensiva israeliana apparentemente inarrestabile, cui aggiungere almeno una sessantina di altre guerre “dimenticate”. Pur marciando a pieno regime, l’industria bellica non riesce a fare fronte alla richiesta, mentre il deficit di strategia comincia ad accompagnarsi anche al deficit finanziario. In altre parole, stanno finendo sia le armi che i soldi: il tempo per trovare le une e gli altri potrebbe non bastare.
In mezzo a questo Armageddon, sono ovviamente le entità più deboli a rischiare di più. Non mancano voci autorevoli, nello stesso perimetro del comando, a riconoscere la realtà ed avvertire dei pericoli, se non affrontati in tempo. Mario Draghi, ad esempio, incontrando a Milano una serie di capi azienda multinazionali, ha lamentato la debolezza dell’Europa, stritolata tra Usa e Cina, sul piano tecnologico, industriale e commerciale; concetti ribaditi più tardi a Bruxelles, presentando in anteprima i risultati del suo rapporto sulla Concorrenza alla Presidente della Commissione Europea. Dimenticando ovviamente di citare il proprio ruolo nella scelta politica di prostrarsi al potere americano, nella vicenda che ha portato allo scoppio del conflitto ucraino. Altro caso: il nuovo governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, che insiste nella pressione sulla BCE per fare abbassare i tassi d’interesse, dopo che ha fatto parte del Board di Francoforte per anni e avere condiviso quell’impostazione che ha deciso di alzare i tassi di quattro punti e mezzo in meno di due anni.
Ora il quadro si fa molto confuso e incerto. L’escalation del conflitto in Medio Oriente sta già provocando danni molto sensibili, con rincari del petrolio, tensioni e ritardi sui rifornimenti di semilavorati, allungamento delle tratte di trasporto per evitare il Mar Rosso, rialzo dei noli. Fattori che possono fare risalire di nuovo i prezzi (in particolare quelli energetici) e quindi ritardare l’allentamento monetario necessario per prevenire la recessione.
Nello stesso tempo occorre fare i conti con il rallentamento tedesco: la locomotiva europea non può più sfruttare nessuno dei vantaggi che ne hanno fatto la fortuna negli anni passati (il gas russo a basso costo, un “marco svalutato” chiamato euro, un lavoro precarizzato dalle leggi Hartz, il bacino di delocalizzazione dell’est europeo, il mercato d’esportazione cinese). Infatti, nel 2023 l’economia tedesca ha fatto -0,3% e gli effetti si sono fatti sentire in tutto il continente, con un calo della produzione industriale che a novembre si attestava, nell’eurozona, a -6,8%. Un arretramento pesante e forse non solo momentaneo.
Anche l’Italia naturalmente patisce, nonostante i dati occupazionali di novembre, sbandierati come prova del buono stato di salute del paese. Gli occupati sarebbero saliti di 520.000 rispetto ad un anno prima, la disoccupazione generale calata al 7,5% e quella giovanile al 21%. Nessuno fa rilevare che almeno l’80% dei “nuovi occupati” sono rappresentati dai vecchi che non hanno potuto andare in pensione per l’allungamento dei termini, mentre l’illusione ottica sulle fasce giovanili è dovuta prevalentemente a fattori demografici (si assottigliano le classi di età). In parte poi, va ricordato, dipende anche dai sostanziosi incentivi alle imprese perché assumessero NEET (chi non lavora, non studia, non fa tirocinio): dopo il decreto del 4.5.2023 le aziende incassavano dallo Stato il 60% dello stipendio pagato al lavoratore. Senza contare le forti esenzioni contributive (fino a 3 anni o addirittura fino a 4) per chi assumeva under 36, o altre categorie svantaggiate.
Tutti incentivi scaduti a fine anno, che hanno drogato il mercato del lavoro, senza innescare meccanismi durevoli. Si tratta ora di capire come funzionerà il nuovo incentivo: le aziende potranno dedurre il 120% del costo del lavoro (il 130% in determinati casi) dei propri neoassunti. Conviene quindi attendere almeno la fine del primo semestre 2024 per dare un giudizio obiettivo sui risultati raggiunti.
Per ora il dato di 23.743.000 lavoratori complessivi (di cui 18,7 milioni di dipendenti) rappresenta un record, nonostante resti fermo il tasso di occupazione (al 61,8%) e soprattutto quello degli inattivi (33,1%). È un elemento di raffronto scandaloso, sia rispetto alle media Ue (25,5%), sia verso i partner comparabili (Germania 20%, Francia e Spagna circa 26%). E certo non è riconducibile al fenomeno post-pandemico delle “grandi dimissioni”, di cui spesso si favoleggia.
I dati della povertà stanno lì a dimostrarlo, insieme alla loro immagine riflessa, cioè la spesa per assistenza, che ha la funzione di mantenere in piedi questo pezzo crescente della società marginalizzata, prima che diventi un problema di ordine pubblico.
Una spesa per assistenza che, secondo il rapporto di Itinerari Previdenziali, nel 2022 era arrivata a 157 miliardi di euro, vale a dire una fetta che assorbe oltre il 28% della spesa pubblica complessiva per prestazioni sociali (559 miliardi). Una spesa che è cresciuta in 10 anni del 126%, a fronte di una spesa sociale cresciuta molto meno (29%). Un sintomo della crescente povertà, che viene messa a carico dell’Inps e della fiscalità generale e che arriva a conteggiare oltre 6,5 milioni di pensionati totalmente o parzialmente “assistiti” (il 40% del totale).
Un peso fiscale che grava sui conti pubblici e su chi è chiamato a sostenerli, con la tassazione dell’IRPEF, una nota partita di giro tra datori di lavoro ed erario (senza che i lavoratori tocchino palla), oppure tra Inps e pensionati (perché anche sulle pensioni si pagano fior di tasse).
Tutto questo per supplire a chi le tasse può decidere di non pagarle, come le partite Iva. Come dimostrano i dati sugli ISA (indici sintetici di attività, quelli che hanno sostituito dal 2018 gli studi di settore), le Partite Iva sono proprio “in fuga dalle tasse”. Su 2,42 milioni di autonomi censiti, ben 1,34 milioni si fermano sotto la soglia della sufficienza, dichiarando (e pagando) meno di un terzo di quanto pagano gli “affidabili”: il loro reddito medio si ferma a 23.530 euro annui, contro un valore di quasi 75.000 euro dei contribuenti considerati affidabili.
Si tratta di un indice di evasione notevolissimo, che negli ultimi tre anni ha sottratto, si calcola, una media di 31 miliardi di euro annui al Fisco, rendendo leggerissima la pressione fiscale subita. E a tutta questa platea sarà offerta, con la legge delega fiscale in corso di realizzazione, la possibilità del concordato preventivo, cioè la negoziazione ex-ante di quanto si è disposti a pagare, in cambio della garanzia dell’esenzione dai controlli e quindi la salvaguardia dell’impunità.
Due pesi e due misure, per mettere al riparo le clientele e le basi elettorali del centro-destra (e non solo) da intromissioni spiacevoli e costose, da una parte, e continuare a spennare i soliti soggetti, abituati a pagare per tutti, dall’altra.
La giustizia non è cieca e qui ci vede benissimo!
Renato Strumia