Draghi e la competitività. La massimizzazione dei profitti per i soliti noti.

Il rapporto commissionato a Mario Draghi da Ursula Von Der Leyen, mostra già dalla prima descrizione tutto il senso del suo essere. Trattando del “futuro della competitività europea” si evidenzia, con l’accento sulla competitività, in quale ambito ci troviamo. Questa lunga serie di “suggerimenti” altamente prescrittivi, non guidano l’Europa fuori dai pantani della stagnazione, né hanno l’ambizione di ridefinire l’architettura dell’Unione per scrollarsi di dosso i legacci ultraliberisti. Al contrario, perseguendo nella strada già tracciata all’epoca del trattato di Maastricht, si tenta di massimizzare le risorse esistenti, (o rimanenti, dipende dai punti di vista) per ristabilire introiti e liquidità al sistema finanziario.

Ma andiamo per gradi e cerchiamo di capire in quale contesto si trovano ad operare le “soluzioni” proposte da Draghi e, soprattutto, come siamo arrivati a questo punto.

Le ragioni della progressiva perdita di redditualità fra individui e nuclei familiari va ricercata nella scelta strategica di sostenere l’economia finanziaria piuttosto che l’economia reale basata sulla produzione. Dal modello keynesiano al modello neoliberista lo scarto sta nell’apparato produttivo. Il quale viene rifunzionalizzato allo scopo di creare utili non tanto e non solo attraverso la realizzazione monetaria della produzione (la vendita) ma attraverso la resa e la tesaurizzazione finanziaria della produzione, che è tutt’altra cosa.

Tale processo di cambiamento strutturale del sistema economico poggia su quel corpus teorico che è il neoliberismo. La teoria neoliberista vorrebbe aver ragione del fatto che basta che ci sia qualcuno all’interno della società che abbia soldi per poi, con i suoi investimenti, far girare l’economia. Quell’adagio tanto caro a Reagan, il trickle-down. Seguendo tale principio si è scelto di privilegiare i dividendi rispetto alla formazione di indotti produttivi locali.

La finanziarizzazione dell’economia si riferisce quindi al passaggio dall’economia produttiva al crescente ruolo dei mercati finanziari. In questa transizione assumono un ruolo sempre più determinante le istituzioni come la BCE, la Commissione europea, il FMI e le banche centrali (già privatizzate negli anni ‘90). Ovviamente la transizione finanziaria impone una cesura netta con il passato, e che tutto passi per i canali finanziari, in modo che tutto possa essere monetizzato e oggetto di investimento. Ovviamente anche e soprattutto i debiti statali devono rientrare all’interno dei meccanismi del mercato azionario (in un intricato meccanismo che dal mercato delle obbligazioni giunge alla cartolarizzazione dei futures).

La finanziarizzazione del debito sovrano e la conseguente imposizione di politiche fiscali restrittive hanno contribuito a creare un contesto economico in cui la crescita a lungo termine è rimasta debole. Le relative misure di controllo di solvibilità del debito hanno ridotto la domanda interna in molti paesi europei, rendendo difficile il rilancio della crescita economica. La finanziarizzazione e le politiche fiscali rigide hanno accentuato le disparità economiche tra i paesi del nord Europa, più forti e solidi finanziariamente, e quelli del sud Europa, che hanno sofferto maggiormente a causa della crisi del debito. Questo divario ha contribuito alla frammentazione economica e politica dell’Unione Europea.

Unitamente a questo passaggio epocale di orientamento strategico, anzi esattamente per perseguire tale scopo, si è di fatto attuata la strategia dell’offshoring produttivo, capitalizzando il vantaggio competitivo di produrre sottocosto altrove (est Europa e Asia). In linea con l’approccio finanziario, l’industria non produce più ricchezza da distribuire attraverso la creazione di indotti e domanda aggregata, ma deve produrre utili e dividendi per mantenere alto il valore azionario. Per capirci, ridurre i costi aumenta il ricavo per unità di prodotto a parità di prezzo di vendita.

Quindi la stagnazione economica europea e il fenomeno dell’offshoring produttivo sono strettamente correlati, poiché il trasferimento di attività produttive e manifatturiere verso paesi con un basso costo del lavoro, ha avuto impatti negativi rilevanti sulla crescita economica, la produttività e l’occupazione in Europa. Questa correlazione può essere analizzata sotto diversi aspetti, tra cui il cambiamento nella struttura produttiva europea, la perdita di posti di lavoro, l’impatto sulla domanda interna e il rallentamento degli investimenti. Il bello è che tale fenomeno era già stato osservato negli anni ‘80 negli States con la depressione della cosiddetta rust belt.

La perdita di posti di lavoro nei settori manifatturieri non è stata sempre compensata da un aumento dell’occupazione in settori ad alta tecnologia o nei servizi avanzati. Questo ha contribuito alla disoccupazione strutturale in molti paesi europei, poiché i lavoratori licenziati dal settore manifatturiero spesso non hanno trovato impiego in altri settori con le stesse competenze. L’offshoring ha anche contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro, dove i posti di lavoro altamente qualificati e quelli a bassa qualificazione sono cresciuti, mentre i posti di lavoro mediamente qualificati (tipici delle industrie manifatturiere) sono diminuiti. Questo ha avuto un effetto negativo sulla classe media, riducendo la domanda interna e aumentando le disuguaglianze. L’offshoring ha portato L’Europa a perdere parte della sua base manifatturiera, che è storicamente stata una fonte di innovazione tecnologica e miglioramento della produttività. La deindustrializzazione che ha seguito l’offshoring ha portato alla perdita di settori strategici in molti paesi europei. La produzione industriale non è solo un motore della crescita economica, ma stimola anche l’innovazione e la diffusione di nuove tecnologie. Senza una base produttiva forte, l’Europa ha visto un rallentamento della crescita della produttività. Con lo spostamento delle attività produttive all’estero, gli investimenti in infrastrutture industriali e in ricerca e sviluppo in Europa sono diminuiti. Questo ha indebolito la capacità dei paesi europei di innovare e mantenere una crescita sostenibile a lungo termine. L’offshoring ha quindi avuto un impatto negativo sui salari, specialmente per i lavoratori meno qualificati. La concorrenza globale ha esercitato una pressione verso il basso sui salari nei settori tradizionali, mentre l’aumento della disoccupazione ha ulteriormente ridotto il potere contrattuale dei lavoratori. I lavoratori hanno subito una compressione salariale, poiché le imprese cercavano di rimanere competitive con le economie a basso costo di manodopera. Questo ha ridotto la domanda interna di beni e servizi, contribuendo alla stagnazione economica.

Altra questione impattante è la stessa architettura dell’economia produttiva europea basata su un Hub geografico (detto Blue Banana o Megalopoli europea) di alta concentrazione di investimenti che va da Londra a Genova passando per Bruxelles, Francoforte, Zurigo e Milano. In questo hub produttivo-finanziario, la fanno da padroni gli asset economici franco-tedeschi con una posizione ancillare di altri stati. Questa è la visione plastica della struttura economica europea che riverbera nella struttura finanziaria, normativa e monetaria. Con il motore economico piazzato nella Mitteleuropa e le propaggini finanziarie che giungono fino alle piazze affari che contano.

Questo contesto economico che trainava in più direzioni fino agli inizi degli anni ‘90 ha poi preso tutt’altra direzione, orientandosi su poche direttrici industriali, quelle ritenute più remunerative e a più alto valore aggiunto, la principale fra queste è stata l’industria automobilistica. Quella ritenuta la più vantaggiosa da mantenere entro i confini europei, limitandosi ad importare tecnologia elettronica e informatica dall’Asia. Altra industria da mantenere è stata quella aerospaziale.

Ora il motore è ingolfato, in tutti i sensi. L’automotive, che per anni è stato il traino industriale europeo, è in affanno e con esso quel che rimane del suo indotto non esportato altrove. Nel frattempo la transizione dell’economia da industriale a finanziaria, ossia dall’economia materiale ai servizi ha polverizzato l’industria manifatturiera rendendo fragile la struttura socio-economica del vecchio continente. In aggiunta a ciò gli accordi interni ai trattati europei, come il patto di stabilità e i parametri di Maastricht hanno impedito investimenti pubblici che non avessero immediata rilevanza finanziaria.

Tutto ciò si è tradotto in quella che Lawrence “Larry” Summers [1] ridefinì “stagnazione secolare” cioè una situazione in cui un’economia sperimenta una crescita debole o inesistente per un lungo periodo, accompagnata da una bassa domanda aggregata, investimenti insufficienti e tassi d’interesse ridotti.

Le ricette di Draghi non intervengono in alcun modo per ripristinare la crescita della domanda aggregata, puntando piuttosto su qualche altro asset trainante: l’industria bellica. L’unica che attualmente può liberare risorse pubbliche e può ridare ossigeno all’industria teutonica in stagnazione. La riconversione industriale spe06rimentata durante la pandemia ha fornito dati incoraggianti sulla capacità produttiva europea (che potenzialmente è ancora alta) e l’indebitamento pubblico per ragioni di difesa appare essere un peccato minore del debito pubblico per il welfare.

In aggiunta al revamping industriale, i suggerimenti sono indirizzati anche verso la governance europea, e nella fattispecie il meccanismo decisionale del Consiglio europeo ampliando la tipologia di scelte che si possono prendere a maggioranza qualificata anziché all’unanimità.

In conclusione di questa brevissima analisi dei connotati della relazione sulla competitività europea possiamo affermare che di realmente innovativo non c’è nulla. Al contrario si persegue sulla strada senza uscita degli equilibri dei mercati finanziari in barba al fatto che queste strategie dagli anni ‘90 ad oggi hanno di fatto impoverito milioni di persone, ridotto all’osso i servizi indispensabili, mercificato le risorse naturali e consegnato risparmi e pensioni alle compagnie di investimento.

Un’operazione che tende a rafforzare il potere decisionale centrale (in questo caso Bruxelles e Francoforte), favorire un incremento delle spese militari, indebolire ulteriormente i servizi essenziali e privatizzare quello che rimane. Il tutto condito con gli immancabili pacchetti sicurezza per prevenire le rimostranze e i conflitti che si genereranno dalla macelleria sociale come conseguenza di queste ennesime scelte sciagurate.

JR

Note

[1]. Summers, L. H. (2014). “U.S. Economic Prospects: Secular Stagnation, Hysteresis, and the Zero Lower Bound.”Business Economics, 49(2), 65-73.

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