Il 6 aprile 2021, circa un paio mesi dopo il suo insediamento, due incontri internazionali davano occasione al nuovo premier italiano di illustrare, per la prima volta, pubblicamente, la propria visione della politica estera nazionale ed europea.
Quel giorno, infatti, Mario Draghi compiva il suo primo viaggio in Libia come presidente del consiglio trovando modo, durante le dichiarazioni congiunte col nuovo capo del governo libico Abdel Hamid Mohamed Dbeibah, di esprimere “soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi”[1] e garantire un rinforzo del supporto che l’Italia offre a tali operazioni.
Il premier italiano non poteva non sapere che chiamare “salvataggi” i rimpatri forzati e le infinite vessazioni che i profughi subiscono una volta giunti nelle carceri libiche, da anni denunciate da Ong come Amnesty International e Oxfam, non è un semplice eufemismo, quanto piuttosto un esercizio della più cinica ipocrisia, perpetrato ad onta delle vittime di quegli abusi. Ma il nuovo governo italiano rilanciava però così quanto gli esecutivi precedenti, dal 2016 in poi, avevano intrapreso spingendo ancor più l’acceleratore sulle politiche di pieno affidamento del controllo dei flussi migratori diretti verso l’Italia e l’Europa alle cosiddette “guardie” libiche.
Il primo memorandum di intesa Italia-Libia era stato siglato il 2 febbraio 2017, dall’allora Presidente del Consiglio italiano Paolo Gentiloni e da Fayez Mustafa Serraj, all’epoca presidente del Governo di Riconciliazione Nazionale della Libia.
Stipulato in violazione dell’articolo 80 della Costituzione italiana[2] perché non era passato per il voto delle camere, svergognato da dettagliati rapporti di Amnesty International che denunciavano le violenze e lo sfruttamento selvaggio cui nei lager libici son sottoposti i catturati, l’accordo veniva, nondimeno, rinnovato senza modifiche per altri tre anni il 2 febbraio 2020 dal governo Conte 2. Eppure, all’epoca, filmati degli orrori che esso incentiva erano giunti persino alle nostre trasmissioni televisive di prima serata.
Non a caso, solo cinque giorni dopo, a fronte di polemiche e proteste sollevate fuori e persino dentro il parlamento, Di Maio, ministro degli esteri del governo Conte 2 (e dell’attuale) si inventava un’imminente proposta di revisione del trattato mirata a “garantire tutele ai migranti” e “promuovere una gestione del fenomeno migratorio nel pieno rispetto dei principi della Convenzione di Ginevra”.[3] Uscita bizzarra: che credibilità può avere chi firma un accordo triennale e cinque giorni dopo dichiara di star preparando una bozza per modificarlo? Ennesima foglia di fico chiamata a coprire lo spregiudicato cinismo di quella scelta; ma, in ogni caso, val la pena ricordarlo, di quell’annunciata proposta di modifica, fino al giorno in cui Conte si dimise e anche dopo, non si è vista traccia.
In merito all’accordo Libia-Italia, Iverna McGowan, direttrice dell’ufficio di Amnesty International presso le istituzioni europee, si era pronunciata in maniera chiara già in un comunicato dell’1 febbraio 2018: “Un anno fa il governo italiano, appoggiato da quelli europei, ha sottoscritto un equivoco accordo col governo della Libia a seguito del quale migliaia di persone sono finite intrappolate nella miseria, costrette a subire tortura, arresti arbitrari, estorsioni e condizioni di detenzione inimmaginabili nei centri diretti dalle autorità libiche”.[4]
Come poi è stato documentato, alle trattative per la ratifica di quell’accordo aveva partecipato, fin dagli esordi, in qualità di alto funzionario delle guardie costiere libiche, Abd al-Rahman al-Milad, detto Bija, uno dei maggiori boss del traffico di esseri umani che operano sulle rotte italo-libiche la cui foto, scattata mentre prendeva parte a un summit bilaterale sulla questione svoltosi in Italia nel 2017, fu diffusa da L’Avvenire.
Il quadro che però emerge dalle testimonianze dirette di quanti, dopo infinite tribolazioni, riescono a scappare dalle carceri libiche, o di quei pochi che, dall’interno, rischiando coraggiosamente, provano ad inviare filmati e resoconti all’esterno, è purtroppo ancora più raccapricciante. Esso mostra, infatti, che, oltre alla tortura, anche l’omicidio indiscriminato è tra le pratiche all’ordine del giorno in quegli inferni:
“Sono fuggito dal mio paese a causa della guerra. Ho viaggiato in un camion, eravamo in 24. Arrivati alla frontiera siamo stati catturati e rapiti da banditi libici. Ci hanno portato in un ‘magazzino’ a Bani Walid. Dopo i primi tre giorni siamo stati torturati su una sedia con scariche elettriche, mi chiedevano 8.000 dinar (circa 5.000 euro, ndr) ma io non avevo nessuno a cui chiedere questi soldi, mia madre è morta e mio padre non ho mai saputo chi fosse. Due dei migranti con cui ho viaggiato sono stati uccisi. Da maggio del 2017 a febbraio del 2019 sono rimasto in questo luogo”.[5]
“Ieri 74 prigionieri sono scappati. Ma le guardie li hanno inseguiti. Hanno sparato ammazzando tre minorenni e ferendone due. Ne hanno catturati 25 circa, tra cui 8 bambini. I più grandi sono stati massacrati nel cortile davanti a tutti, con le spranghe gli hanno spezzato gambe e mani”.[6]
Torniamo un momento al 6 aprile 2021: un incidente diplomatico accaduto quel giorno – lo sgarbo misogino della mancata offerta di una sedia da parte del capo di stato turco Erdogan alla Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – offriva al presidente italiano, poche ore dopo il suo rientro dal viaggio africano, un’altra occasione per farsi latore di una politica di gestione dei fenomeni migratori che potremmo definire nuovo segregazionismo e che trova ampi appoggi nei vertici UE. Se i media davano risalto soprattutto al fatto che il premier italiano, scoprendo l’acqua calda, aveva chiamato “dittatore” il presidente turco, altrove stava invece il messaggio economico-politico cogente che emergeva da alcune sue frasi riportate dai giornalisti in virgolettato: “Erdogan è un dittatore di cui si ha bisogno”; “Con questi chiamiamoli dittatori bisogna essere franchi nell’espressione della visione della società ma pronti a cooperare per gli interessi del Paese”.[7]
Pronta, fin dal 2016, si era dimostrata in effetti l’Europa, non a caso tenuta da allora sotto scacco dal despota turco con la minaccia di chiudere i campi profughi, finanziati dalla stessa UE a suon di miliardi di euro, in cui vivono almeno 3.700.000 rifugiati, in gran parte siriani, e aprire loro le frontiere verso il continente. Non a caso, a fronte delle feroci repressioni interne scatenate dal governo turco negli ultimi anni, dell’accentramento sempre più marcato dei poteri nelle mani dello stesso Erdogan, dell’ennesima persecuzione dei curdi perpetrata in Turchia e in Siria e dell’appropriazione indebita di territori che l’ha supportata, l’UE non ha trovato di meglio che condannare a parole, o con blande sanzioni del tutto inefficaci, tali politiche.
Discorso analogo vale per la Libia: l’Italia, essendo dipendente dall’estero per le fonti energetiche, ha in questo paese, come nella Russia putiniana, uno dei suoi più importanti fornitori di gas.[8] All’estrazione di metano lavorano in loco importanti ditte italiane, prima tra tutte l’ENI.
Il recente insediamento di un presunto governo di “pacificazione nazionale” libico offre, oggi, al governo italiano e ai vertici UE un ennesimo appiglio per far finta che, ormai, affrontare il nodo immigrazione delegando alle autorità di quel paese la cattura e il rimpatrio dei fuggiaschi non significhi più esporre questi ultimi agli orrori finora subiti.
Un rapporto di Amnesty International, pubblicato il 15 luglio, testimonia, ancora una volta, quanto spudorata sia questa finzione: “Il Governo di unità nazionale, costituito a marzo 2021, non ha intrapreso alcuna azione per affrontare le violazioni sistematiche nei confronti di rifugiati e migranti detenuti all’interno del paese”.[9]
La data in cui quel documento è stato reso pubblico non era casuale. Quel giorno, infatti, in Italia la Camera approvava una delibera che autorizza cinque nuove missioni internazionali e proroga la missione libica aumentandone i finanziamenti, con un impegno economico complessivo che supera i 240 milioni di euro.[10] Al controllo delle migrazioni sulle rotte libiche era dedicata, in particolare, la “scheda 48”, particolarmente caldeggiata dal segretario PD Letta proprio perché, pilatescamente, scarica le responsabilità degli orrori che la missione avalla sull’intera UE.
Delibera capace di creare qualche raccapriccio persino in vari parlamentari del suo stesso partito. Emblematico, in tal senso, l’intervento di Giuditta Pini, deputato PD dal 2013 (l’anno della strage in mare più infame, che vide morire almeno 368 migranti), che così esordiva: “Colleghi, una premessa innanzitutto, almeno tra di noi in questa sede: la Guardia costiera libica non esiste, esistono una serie di milizie private che gestiscono i campi che sono stati definiti da organizzazioni internazionali e dall’ONU, lager a terra, milizie che pattugliano contestualmente il mare di fronte a quei lager. All’interno di quei lager le donne vengono stuprate e gli uomini torturati. Il tutto viene filmato e quei filmati vengono mandati ai parenti in cambio di soldi con la promessa poi di liberare quelle persone. Se i parenti riescono a raccattare abbastanza soldi, queste persone vengono poi messe su dei barconi e mandati a fare la traversata del Mediterraneo; spesso e volentieri quei barconi vengono intercettati dagli stessi miliziani e vengono riportati nei lager. Quest’anno, nel 2021, la cosiddetta Guardia costiera libica ha intercettato 15 mila persone e le ha riportate a terra, di queste 8 mila sono scomparse. Perché, cosa succede? Accade che se non si hanno più soldi per pagare il riscatto o se si è orfani o se i genitori non riescono più a trovare i soldi, queste persone vengano fatte semplicemente sparire, vengono vendute come schiave oppure fanno una fine che a noi non è dato sapere. L’anno scorso questo Parlamento ha votato il rifinanziamento di questa missione con la sacra promessa che si sarebbe modificato il Memorandum Italia-Libia, che, lo ricordiamo, non è mai passato per queste Camere. Il Memorandum non è stato cambiato di una sola virgola; non solo, i dati ci dicono che la situazione nei campi e in mare quest’anno è peggiorata”.[11]
A dispetto di queste dissonanze, intorno a cui si raccoglievano, in quell’occasione, una trentina di deputati, dopo essere passato alla Camera, il pacchetto di nuove e vecchie missioni è stato votato anche dal Senato il 21 luglio.
Come si vede, il progetto segregazionista di cui Draghi e la sua maggioranza (che, ricordiamolo, va da Articolo Uno alla Lega), insieme a stati europei di peso come la Germania, si fanno oggi promotori non è, semplicemente, in continuità con quanto fatto dai governi italiani ed europei precedenti. Ne costituisce, piuttosto, un rilancio ad ampio raggio.
A fugare ogni dubbio in merito sarebbero bastate le dichiarazioni congiunte rilasciate, il 21 giugno, alla vigilia della seconda conferenza internazionale sulla Libia, da Draghi e Merkel sulla “necessità” di un rinnovo dell’accordo con la Turchia e di un’estensione di quel modello a tutti i principali paesi di origine o transito della migrazione diretta al continente: da Libia e Tunisia a stati del Sahel come Mali, Niger, Ciad, Sudan e Burkina Faso, a paesi come Marocco, Etiopia ed Eritrea. Ma piena conferma ne dava, due giorni dopo, il documento di sintesi emerso dalla seconda conferenza di Berlino conclusasi, appunto, il 23 giugno. Le conclusioni cui giungevano i rappresentanti dei governi di Algeria, Cina, Congo, Egitto, Emirati Arabi, Francia, Germania, Italia, Libia, Paesi Bassi, Regno Unito, Russia, Svizzera, Stati Uniti d’America, Tunisia, Turchia, Unione Africana, nonché di Nazioni Unite, Unione Europea e Lega degli Stati Arabi, che vi partecipavano, erano in breve le seguenti: dato il nuovo corso libico, il processo di comune gestione del controllo delle frontiere europee, già delineato dalla precedente conferenza berlinese del 2020, può finalmente includere “la Libia come partecipante a pieno titolo”.[12] L’unica frase che, nel documento, richiamava la vergogna delle torture, degli stupri, delle estorsioni subiti da migliaia di persone in mare e nei lager libici, era la seguente: “Le violazioni e gli abusi dei diritti umani, nonché le violazioni del diritto internazionale umanitario, devono essere affrontate”.[13]
Questo stato di cose, ad avviso di chi scrive, sta a indicare quanto velleitaria e ipocrita sia oggi la pretesa degli stati occidentali di distinguersi da regimi apertamente dispotici come quelli vigenti in Libia, Egitto, Turchia, Russia o Cina, cui in realtà non fanno altro che appaltare, delocalizzandola, una parte del lavoro più “sporco” su cui si costituisce, ormai nell’universo mondo, l’accumulazione di capitale: dalla messa a disposizione di fonti energetiche, manodopera, materie prime, mezzi di produzione e circuiti di circolazione a costi altamente competitivi alla gestione e allo sfruttamento dei migranti, al mercato delle informazioni, alla collaborazione nella repressione dei dissensi.
Da quando il primo patto Italia-Libia fu firmato, le statistiche ci dicono che almeno un migliaio di profughi, ogni anno, sono morti in mare cercando di raggiungere le nostre coste. Alla responsabilità diretta che governo e parlamento italiano hanno per il loro mancato salvataggio si aggiunge quella, non meno diretta, per il destino atroce di tutti i fuggitivi che, catturati dalle vedette libiche, sono ora carcerati in quel paese (17.000 nei soli primi sette mesi del 2021).
Dunque, perché almeno alle parole sia restituito il loro peso e significato: il governo presieduto da Draghi, gli organi direttivi dell’UE, i parlamentari nazionali e continentali che hanno votato quei provvedimenti non sono semplicemente complici degli orrori libici: ne sono i mandanti!
Naturalmente, gli orientamenti dell’Italia e della stessa Unione Europea in materia sono dettati da equilibri e competizioni internazionali in cui hanno un peso determinante anche stati, interessi e potentati non europei, primi fra tutti quelli afferenti agli USA. Tuttavia, il grado di responsabilità che i governi italiani ed europei dell’ultimo quinquennio hanno in ogni singolo stupro, tortura, estorsione, vessazione, subiti dalle decine di migliaia di fuggitivi catturati in questi anni da quelle bande di trafficanti di esseri umani che essi hanno elevato al ruolo di guardie costiere e carcerarie, è equivalente a quelli dei boss mafiosi cui basta dar ordini ai propri sgherri, senza doversi sporcare le mani a compiere atrocità in prima persona.
A modesto avviso di chi scrive, questa è, oggi, la sola, sostanziale, differenza percepibile, nell’ambito delle politiche migratorie, tra gli stati occidentali che si autodefiniscono “democratici” e gli stati, quasi sempre non occidentali, cui essi affidano l’esecuzione di quel progetto di segregazione globale dei migranti che, sotto l’egida imperturbabile dell’ONU, sta riempiendo il mondo di nuovi lager, non meno inaccettabili, per chiunque abbia un minimo di rispetto per l’essere umano, di tutti quelli che li hanno storicamente preceduti.
Malac@pa
NOTE
[1] “Sul piano dell’immigrazione noi esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa nei salvataggi e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia” (https://www.perunaltracitta.org/2021/04/07/draghi-in-libia-248-caratteri-vergognosi-per-nascondere-le-torture/).
[2] Che recita; “Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi”.
[3] Il documento, che contiene attualmente le quattro convenzioni stilate a Ginevra nel 1949 e tre protocolli aggiuntivi, due del 1977 e uno del 2005, regolamenta i diritti delle vittime e dei prigionieri di guerra, di malati, feriti, naufraghi, personale medico e ausiliario e civili che si trovano su territori occupati.
[4] https://www.amnesty.it/italia-libia-un-anno-laccordo-sullimmigrazione/.
[5] J.S.K., 20 anni, Sudan. Testimonianza raccolta presso l’Hotspot di Pozzallo, febbraio 2020, riportata in La fabbrica della tortura. Rapporto sulle gravi violazioni dei diritti umani dei migranti e dei rifugiati in Libia (2014-2020), a cura della Onlus Medici per i Diritti Umani.
[6] Testimonianza inviata a Giulia Tranchina, avvocato italiano operante a Londra, via whatsapp, da “un africano occidentale” fuggito dal piccolo centro di detenzione di Khoms, successivamente confermata da una denuncia di Medici senza frontiere e riportata dal quotidiano L’Avvenire, ad agosto 2020: https://www.avvenire.it/attualita/pagine/libia-profughi-rimessi-in-carcere.
[8] L’Italia ha investito miliardi di euro per costruire infrastrutture utili all’estrazione e allo sfruttamento di queste risorse energetiche in Libia; particolare importanza ha, per gli “interessi nazionali”, il monumentale gasdotto di Mellitah, lungo 520 metri, che porta gas in Sicilia.
[10] Il decreto, oltre a prorogare tutte le missioni già approvate nel 2020, istituisce due nuove missioni delle forze armate, l’operazione UNSOM in Somalia e l’operazione EMASOH nello Stretto di Hormuz, e tre nuove missioni delle Forze di polizia, due dislocate in Libia, una terza in Ucraina.
[11] Relazione delle Commissioni III (Affari esteri e comunitari) e IV (Difesa) sulla deliberazione del Consiglio dei Ministri in merito alla partecipazione dell’Italia a ulteriori missioni internazionali. Giovedì, 15 Luglio, 2021. https://www.deputatipd.it/interventi/relazione-delle-commissioni-iii-affari-esteri-e-comunitari-e-iv-difesa-sulla-4.
[12] https://specialelibia.it/2021/06/24/seconda-conferenza-di-berlino-sulla-libia-conclusioni-del-23-giugno-2021/. Da questo indirizzo è possibile accedere anche al testo originale in inglese.
[13] Ibidem.