Digitale e militare. Tra alti profitti e bassa occupazione, dual use e impatto ambientale.

Lo scorso 20 Giugno presso lo spazio Micene di Milano si è tenuto l’incontro sul tema “La Prospettiva della riduzione del tempo di lavoro” promosso dall’Associazione Culturale Pietro Gori, nell’ambito del quale si è tenuta una mia relazione sul tema “Digitale. Strumento dei conflitti e causa di sfruttamento delle risorse naturali”, del quale vi riassumo alcuni concetti.
Se dovessimo indicare un elemento che, negli ultimi quarant’anni, ha contribuito a modificare a livello globale i rapporti sociali e gli equilibri internazionali, lo possiamo individuare nella cosiddetta rivoluzione digitale. Tre sono gli elementi da prendere in considerazione.
1) L’evoluzione tecnologica, specie nel settore degli armamenti, ha modificato la catena di produzione, indirizzandola sempre più al digitale e sempre meno al tradizionale comparto dell’industria meccanica e siderurgica, che aveva caratterizzato la produzione bellica dei due secoli precedenti. La realizzazione di tale progetto implica la formazione in ambito scolastico, sia a livello medio che universitario, di personale sempre più specializzato, ed una collaborazione sempre più stretta tra ricerca, università, ed apparato industriale militare.
2) Sostenere un utilizzo sempre più ambivalente dei prodotti sia in campo militare che civile: il cosiddetto dual use. Le invenzioni a doppio uso sono identificate ogni volta che un’innovazione nel campo della difesa trova una successiva applicazione civile, vale a dire quando un brevetto della difesa è citato da almeno un’invenzione non militare.
3) Mantenere a livello globale una divisione del mercato del lavoro che assegni al mondo capitalista, specie quello occidentale ad influenza statunitense, il ruolo guida delle nuove produzioni, quelle digitali, e destini ai capitalismi minori a livello periferico le produzioni più tradizionali, a minore contenuto tecnologico, in modo da assicurarsi il primato della progettazione, costruzione e commercializzazione degli armamenti. Assicurare il “dual use” permette all’impresa con un’attività di difesa, il vantaggio di ridurre la sua specificità, le sue caratteristiche uniche e quindi i rischi di mercato, ma al contempo sfruttare al meglio il suo ambiente economico e tecnologico e in questo modo realizzare guadagni di efficienza.
Innumerevoli sono i dispositivi di origine prettamente militare entrati nel quotidiano uso civile. Importanti innovazioni come il GPS, gli UAV, i display e i controlli fly-by-wire hanno trovato la loro strada negli aerei commerciali e nelle applicazioni civili. Il GPS è un classico esempio di come le tecnologie militari abbiano un impatto sul mondo civile. La geolocalizzazione ha trovato applicazione ben oltre l’avionica civile, rivoluzionando il trasporto terrestre e altre industrie di servizi, e diventando una caratteristica standard su ogni smartphone e tablet di consumo. Gli UAV erano inizialmente destinati all’osservazione militare e alle missioni di combattimento, ma oggi i droni sono usati anche per scopi civili. In conclusione, possiamo affermare che la dualità tra sfera militare e civile e l’ottimizzazione della spesa in RICERCA & SVILUPPO militare, ha costituito un notevole volano in termini di conoscenze e sviluppo, richiedendo meno costi grazie al fatto di avere tecnologie fortemente generalizzate (che vengono riutilizzate in altri brevetti).
I conflitti hanno fatto emergere il forte legame tra le grandi piattaforme digitali e gli apparati militari, di sicurezza e di intelligence, alimentati dal controllo che le grandi piattaforme esercitano su conoscenze, infrastrutture e tecnologie critiche di tipo “duale”: i dispositivi di intelligenza artificiale (IA) incorporati negli armamenti o i sistemi satellitari di ultima generazione, che svolgono ormai un ruolo fondamentale nei conflitti contemporanei. Pertanto le maggiori imprese digitali diventano il centro, il motore dell’innovazione e lo Stato accresce la sua dipendenza nei loro confronti. I funzionari della sicurezza e dell’esercito svolgono attività di monitoraggio delle strategie delle imprese digitali (si pensi, ad esempio, ai comitati legati all’intelligenza artificiale, dove sia in Cina che negli Stati Uniti alti funzionari militari e amministratori delegati delle piattaforme condividono le strategie di sviluppo delle tecnologie rilevanti in ambito civile e militare). D’altra parte, la dipendenza si muove anche nell’altra direzione: il sistema pubblico (università e centri di ricerca pubblici) continua a rappresentare una risorsa insostituibile per lo sviluppo dei progetti innovativi delle piattaforme.
In secondo luogo, vi è una dipendenza economica. Da un lato, il valore di mercato delle piattaforme costituisce una quota consistente dell’intera ricchezza nazionale. Allo stesso tempo, le altre imprese – comprese quelle impegnate nella fornitura di apparecchiature militari come Lockheed Martin e Raytheon – necessitano dei servizi forniti dalle piattaforme per la digitalizzazione delle loro attività e per mantenere la propria competitività. Dall’altro, la domanda pubblica e, in particolare, quella proveniente dal settore militare costituisce una fonte di accumulazione essenziale, soprattutto nelle fasi di contrazione della domanda privata.
Dopo aver descritto lo stretto rapporto tra l’evoluzione del mondo digitale e l’appartato bellico si è toccato un tema non sempre al centro dell’attenzione e spesso trascurato: il rapporto tra il mondo digitale e il suo impatto energetico e ambientale, in particolare il consumo d’acqua. L’energia richiede acqua. Quella idroelettrica fornisce il 16% dell’elettricità mondiale, quella fossile e nucleare assorbe il 15% del totale dell’acqua estratta annualmente. Sappiamo come l’acqua è un bene scarso: sebbene copra il 71 per cento del globo, solo una minima parte è direttamente usufruibile dall’umano. Il 2,5% è acqua dolce, e solo lo 0,3% è localizzata in bacini idrici, laghi o fiumi, ovvero di pronto utilizzo per le attività umane.
Il digitale è il nuovo protagonista dei consumi. Il ciclo produttivo dei beni digitali, dalla fase di estrazione delle materie prime passando per la produzione dei semiconduttori, necessita di un massiccio impiego di risorse idriche. L’attività estrattiva è quella a più alta impronta idrica. Il 90% delle operazioni minerarie che riguardano le materie prime per le componenti del digitale impiegano tra i 340 e 6.270 litri per tonnellata di minerale. I Server producono calore e devono essere costantemente raffreddati. Un data center di medie dimensioni ha un utilizzo idrico pari a quello di tre ospedali di piccole dimensioni. Il download di un singolo GB ha un’impronta idrica fino a 200 litri d’acqua. Quindi il digitale, nuova frontiera della produzione militare, è il maggiore responsabile del consumo idrico.
Altro aspetto affrontato è stato quello della formazione. Abbiamo prima accennato che le nuove tecnologie richiedono una profonda trasformazione del sistema scolastico per preparare adeguatamente gli utilizzatori dei nuovi strumenti.
Nel settembre 2022 è partito il progetto del liceo della Transizione Ecologica e Digitale: è una iniziativa promossa dal Ministero dell’Istruzione con il supporto di Elis – ente no profit, nasce nel 1965 su impulso di Papa Giovanni XXIII, che chiede a Josemaría Escrivà de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, di pensare e realizzare un’iniziativa capace di promuovere la condizione sociale e lavorativa dei giovani – sotto la presidenza di Marco Alverà, CEO di Snam, che si avvale della rete di grandi gruppi e imprese che aderiscono al Consorzio di aziende CONSEL. Il progetto con una durata di quattro anni, coinvolge ben 28 licei di tutta Italia e quattro università (Bocconi, Politecnico di Milano, Università di Roma Tor Vergata e Università degli Studi di Padova).La mission del liceo TED è ben chiara: fornire ai giovani gli strumenti e le competenze necessarie per affrontare al meglio non soltanto la transizione ecologica, ma anche la Digital Transformation in atto, andando così a ridurre il gap tra la domanda di competenze in ambito ICT e la relativa offerta. Lo scopo è quello di formare persone consapevoli delle potenzialità delle principali tecnologie digitali, come per esempio l’intelligenza artificiale e la robotica, con competenze adeguate per lavorare nel mondo dell’innovazione.
Tutti questi obiettivi si concretizzeranno con un programma didattico che vuole sintetizzare le conoscenze umanistiche e scientifiche del tradizionale liceo italiano con una maggiore attenzione alle materie STEM (Science, Technology, Engineering, Mathematics). I ragazzi si interfacceranno allo studio di big data, robotica ma anche logica, retorica, geopolitica, astrofisica, impronta carbonica, ecologia e beni comuni. Viene modificato il metodo d’insegnamento inserendo ogni singolo istituto scolastico in una rete di cooperazione tra scuole, università e aziende, avvicinandosi al modello di college americano.
L’intervento si è concluso con l’osservazione sull’impatto che l’industria bellica ha avuto negli ultimi decenni sull’occupazione. L’idea che l’industria militare sia una trave portante del sistema economico e occupazionale è stata un mito persistente dagli anni ’80 in poi, mito ormai sfatato dai dati ufficiali del settore. Negli ultimi dieci anni ciò che è aumentato è solo il fatturato – e i profitti, lievitati del 773% – mentre gli occupati sono calati del 16%; utilizzando i dati del rapporto annuale dell’ASD (AeroSpace and Defence Industries Association of Europe) si assiste ad una contrazione dell’occupazione a fronte di una crescita eccezionale dei profitti. In uno spazio temporale di 40 anni, questo settore è passato da 579 mila occupati nel 1980 a poco più di 537 mila occupati nel 2021 (meno 7,2%), dopo essere sceso nel 1995 intorno ai 400 mila addetti. Nello stesso periodo il fatturato complessivo del settore, a valori costanti, è più che triplicato.
Ma il risultato più sorprendente emerge disaggregando i dati del settore aeronautico tra militare e civile. Mentre i lavoratori del settore occupati in campo militare sono passati tra il 1980 e il 2021 da 382 mila a circa 175 mila (il 54 per cento in meno), l’occupazione in campo civile è, invece, cresciuta da 197 mila a quasi 363 mila (l’84 per cento in più). Gruppi multinazionali che registrano il maggior calo di occupazione, nonostante il loro aumento del volume d’affari e dei profitti, sono quelli tra questi dieci, che più dipendono dalle produzioni militari e sono meno diversificati nel civile: il Gruppo nord-americano Raytheon, 95% di fatturato militare, meno 13 mila occupati; il Gruppo britannico BAE Systems, 95% di fatturato militare, meno 14 mila occupati; il Gruppo nord-americano Northrop Grumman, 87% di fatturato militare, meno 53 mila occupati; il Gruppo nord-americano Lockheed Martin, 86% di fatturato militare, meno 28 mila occupati. Possiamo, quindi, affermare senza timore di essere smentiti, che nonostante si sia verificato nell’ultimo quarto di secolo una crescita imponente delle spese militari nel mondo, il numero degli occupati nell’industria aerospaziale e della difesa non è aumentato, anzi ha subito un’accentuata contrazione (ed è destinato a contrarsi ulteriormente).
Ciò dipende da tre diversi fattori. Il primo è un fattore comune ad altri settori dell’industria manifatturiera: dalla siderurgia all’elettronica. È la crescita costante del fatturato per addetto (competitiveness) che, ad esempio, nell’industria aeronautica è aumentato dal 1980 al 2019 del 250 per cento passando da 90 mila a 315 mila euro per occupato. Il secondo fattore, anche questo comune al resto dell’industria, è la riduzione del numero di occupati per effetto dei processi di fusione, ristrutturazione e innovazione tecnologica su scala europea e mondiale. Il terzo, invece, è un fattore specifico riguardante solo l’industria militare, definito tecnicamente “disarmo strutturale”. È un fattore indotto sì dall’innovazione tecnologica incorporata nei nuovi sistemi d’arma (dai nuovi materiali alla microelettronica) e nei processi di produzione (automazione integrata e flessibile), ma soprattutto dal consistente aumento dei costi di ricerca, sviluppo e fabbricazione. L’aumento dei costi unitari per ciascun nuovo sistema d’arma, significa una diminuzione, a parità di spesa militare, della quantità di pezzi che può essere acquistata dalle Forze Armate. Questa tendenza spinge in una sola direzione: contrazione dei volumi (non del valore) di mercato e ulteriore sovra capacità produttiva dell’industria militare europea.

Daniele Ratti

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