Contando i battiti del cuore

Il mio primo incontro con la musica popolare salentina è stato spiazzante: parecchi anni fa con alcuni amici sono andato – assolutamente disinformato ed impreparato – ad ascoltare Anna Cinzia Villani ospite di un circolo Arci padovano. L’impatto è stato forte. Sono nato in un paese di mare vicino a Venezia e quindi geograficamente distante dalla Puglia, eppure la voce di Anna Cinzia sembrava riportarmi bruscamente alle mie radici: entrato tanto per dare un’occhiata durante le prove, mi sono ritrovato a bocca aperta e sgomento – sembrava quasi ci fosse mia madre, venuta a mancare trent’anni prima, a cantare nella stanza accanto.

In Salento c’ero stato già un paio di volte, quel paio di settimane di ferie che passi a girovagare fra spiagge paesi e sagre e ti arricchiscono dell’illusione di conoscere terra e persone senza però conoscerle affatto. Giusto cose adatte a quei pochi giorni da turista, eppure sono stati tutti avvicinamenti e incontri rimasti in testa e nel cuore a far germogliare la voglia di ritornare. Soprattutto il parlare e le voci: ascoltarle per me, anche se chiuse dentro un disco, è come essere a casa, in un posto tranquillo pacificante e sicuro.

Riflettendoci, questi suoni potrebbero essere ricordi della parlata dei miei piccoli compagni di quartiere e dei loro genitori – tutte famiglie immigrate per il lavoro negli stabilimenti di Porto Marghera. Cose rimaste a fare il nido in testa come gli odori di cucina che si riversavano giù nei cortili da quelle stesse finestre aperte: nei cortili rimbalzavano giù dai primi secondi terzi quarti piani lune rosse e barcaroli controcorrente, voci casalinghe di cantanti improvvisate prese a fare i mestieri mescolate alle canzonissime che zampillavano dalle radioline tenute sempre accese.

Dunque quella sera scopro che Anna Cinzia Villani da mille chilometri di distanza mi restituisce il suono della mia infanzia. Ho poi avuto la fortuna di incontrarla e riascoltarla ancora, e partendo da lei ho cominciato a esplorare il lavoro di altri musicisti e gruppi – da Antonio Castrignanò a Ninfa Giannuzzi e Dario Muci, dall’Ensemble Terra d’Otranto all’Officina Zoè fino al Canzoniere Grecanico Salentino. Tutti che fanno cose stilisticamente diverse, eppure tutti indistintamente impegnati a tradurre le canzoni di famiglia a figli e nipoti e a farlo con dedizione e passione: stanno mettendo nelle loro mani un’eredità che gli è stata passata. Non mi riferisco solo alle canzoni, ma alla maniera di vedere il mondo e di viverlo. Alle relazioni, all’abbracciarsi, all’aprirsi all’altro – cose che qui a nordest sembrano roba d’altri tempi, messe da parte in naftalina una qualche soffitta quando non portate in discarica per lasciar posto alle cucine in formica, all’eternit e al moplen.

Così si finisce a stupirsi dello sgretolarsi dell’essere gente venuta da fuori e della facilità con cui si ricomincia a salutarsi e a parlare, del bicchiere di vino o del caffè offerto senza nulla chiedere in cambio, dei vicini che ti portano in dono un po’ d’olio di quello buono o qualche cosa appena colta dall’orto. Pizzichi di umanità in più che su da noi si sono persi di vista, mentre s’era occupati a sprangare la porta di casa per guardare la televisione in sicurezza fraintendendo fosse una finestra aperta sul mondo che sta fuori.

Tendo a prenderla alla larga; in fin dei conti volevo solo parlarvi del Canzoniere Grecanico Salentino e di questo loro nuovo disco “Meridiana” (ed. Ponderosa, www.canzonieregrecanicosalentino.net). Il Canzoniere Grecanico Salentino è stato fondato negli anni Settanta, tra gli altri, dai genitori di Mauro Durante e di Emanuele Licci che del gruppo oggi sono due delle teste. Li ho visti e sentiti suonare qualche settimana fa, penso sia la sesta/settima volta, ed eccomi ancora a stupirmi di quanto il pubblico gli voglia bene.

Ai concerti si respira distintamente un’aria di amore sconfinato, una corrente calda che scorre di continuo tra palco e platea e viceversa, che travolge il distanziamento sociale e che non si spegne a fine serata. Amore grande e complesso, un sentimento di condivisione che comprende oltre alla forza liberatoria della danza anche le sfumature della passione, dell’insofferenza e dello sdegno. Non mi ha affatto sorpreso che, invece che le pizziche, fosse alla sagra a Cursi in Salento come nella piazza del paese in provincia di Padova o di Rovigo a fine concerto al gruppo siano stati chiesti a gran voce dei pezzi più intimisti e difficili – mi riferisco ad esempio a “Respiri” e a “Solo andata” (quest’ultima costruita su un testo di Erri De Luca, una poesia che è riduttivo definire come “di forte impatto”). Si sa, resiste ancora (e io ne sono un sostenitore convinto) l’idea insieme anarcoottocentesca e anarcosessantottina e anarcopunk che le canzoni possano trasmettere dei messaggi.

Il gruppo gestisce la propria attività con un rapporto costante e diretto con le persone che lo sostengono e pure ricerca consensi e riscontro in ambiti più istituzionali. Scorrendo i tour degli anni pre-pandemia è facile scoprire che il CGS ha partecipato a raduni di rilievo internazionale (sono stati invitati dal WOMAD ai loro festival in Cile, ad Adelaide in Australia e in Inghilterra), eppure hanno continuato a suonare alle sagre paesane. Erano alla Royal Albert Hall di Londra e un paio di giorni dopo alla sagra di santa Maria Maddalena a Uggiano, a neanche una settimana dal conferimento Songlines Award, Giancarlo Paglialunga e Massimiliano Morabito erano a suonare per un gruppo di appassionati in una piccola sala comunale persa nella nebbia dell’entroterra veneziano. Se il precedente album Canzoniere era verosimilmente concepito come un prodotto d’esportazione, Meridiana appare più riflessivo, diretto ed intimo: musica ricca delle vibrazioni della terra, musica che sento passare dai piedi scalzi alle gambe, che sento salire fino allo stomaco e vibrare dietro lo sterno e depositarsi nel cuore.

Nel suo libro Rito e Passione Vincenzo Santoro raccoglie numerose tracce e testimonianze del lavoro di ricerca e conservazione svolto in questi anni di “rinascimento” (le virgolette sono sue) musicale salentino. Nella testimonianza di Mauro Durante, così come in quasi tutte le altre, ho colto l’esigenza di fare dei distinguo, di prendere qualche distanza e spiegare/spiegarsi meglio, differenziarsi da una certa immagine televisiva che viene diffusa e propagandata come quella ufficiale. C’è bisogno insomma di chiamarsi fuori dal Salento plastificato che è stato offerto ai turisti, dai dépliant e dalla televisione.

Come veneziano ho sofferto il progressivo sfaldamento della mia città a cosa sempre meno mia, la sua trasformazione veloce in centro commerciale. Volendo essere amaro, succede spesso di ritrovarsi fra amici a canticchiare frammenti di “Ariva i barbari” e “Giudeca” attorno al tavolo in qualche festa alcolica: di queste canzoni (Alberto d’Amico era un cantautore comunista attivo ed assai popolare nella Venezia degli anni Settanta) non si riesce ad arrivare a memoria fino alla fine. Volendo essere polemico, se chiedo in giro quasi nessuno sa chi fosse Luisa Ronchini (una grande ricercatrice ed interprete, ha salvato dall’oblio grande parte del canto popolare e tradizionale della laguna) ma si ha un’immagine perfettamente conservata dei Pitura Freska a Sanremo – manco fosse un traguardo raggiunto. Faccio fatica a riconoscermi nell’immagine stereotipata del veneto lavoratore docile semplice e devoto, immerso in un panorama di lavori perennemente in corso, capannoni e cantieri – eppure è l’immagine mediatica della mia gente, quella che resta impressa. C’è insieme una perdita della memoria e uno spostamento della percezione, un’incapacità a identificare le fonti affidabili, una perdita di orientamento che intacca la cultura alle fondamenta.

Potrebbe essere che a Sud le cose funzionino diversamente. Mi verrebbe da fare un parallelo con il lavoro recente di Dario Muci ed Enza Pagliara con Emanuele Licci e suo padre Roberto, che insieme hanno ritrovato le canzoni di Matteo Salvatore, poeta analfabeta che è stato un punto di riferimento molto importante per la canzone d’autore italiana. Il suo “Lamento dei mendicanti” ha più di cinquant’anni, quasi come la “Nina” di Gualtiero Bertelli o la “Bocca di Rosa” di Fabrizio de André e, nonostante l’età, vedo che sopra a tutte queste canzoni non si appoggia la polvere del tempo. Anzi, quando si ascoltano il tempo stesso addirittura sembra prendere una velocità diversa: raccontano con la voce di ieri ma sembrano scritte oggi e per i ragazzi di oggi. Ecco: ascolto e riascolto Meridiana e mi ritrovo a pensare che il futuro sia in mani buone.

Marco Pandin

stella_nera@tin.it

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