Censura e rivolta sul tetto del mondo. Proteste in Nepal e social media

Quando ai primi di settembre il Governo del Nepal ha ordinato il blocco di 26 (praticamente tutti…) social media giustificandolo col fatto che i loro responsabili non avevano risposto alla richiesta, fatta alla fine di agosto, di “registrarsi”, la notizia è arrivata poco oltre l′area degli addetti ai lavori. Anche se a livello locale qualche articolo aveva fatto notare che la registrazione avrebbe comportato una supervisione o un controllo sui contenuti pubblicati. Poi però in alcune città a partire dalla capitale ci sono state manifestazioni di protesta che sono sfociate in atti di vera e propria rivolta urbana. Sono morte una cinquantina di persone, la sede del Parlamento è stata data alle fiamme, sono stati incendiati grandi alberghi e case di personalità politiche, più di diecimila detenuti sono evasi dalle carceri, tutti avvenimenti spesso documentati da foto e filmati. Qualcuno potrebbe credere che tutto sia solo l′espressione di una rivolta generazionale e che le giovani e i giovani nepalesi prendano i social troppo sul serio. In realtà, come hanno scritto persone meglio informate sulla realtà politica e sociale del paese, in piazza sono andate anche persone per protestare contro il Governo che viene accusato di essere in mano a una élite di corrotti. Dopo una settimana di rivolta, il blocco imposto ai social è stato rimosso, il Primo Ministro si è dimesso, il Governo è caduto e sono state indette nuove elezioni.

Avvenimenti del genere confermano che il rapporto tra Rete e politica funziona secondo meccanismi ben conosciuti e che la contesa tra due parti riguarda il controllo della comunicazione elettronica. Le aziende proprietarie delle piattaforme, che di solito hanno dimensioni e risorse enormi, quando resistono alle ingiunzioni dei Governi non lo fanno perché sono paladine della libertà di comunicazione, ma, principalmente, per evitare che diminuisca il flusso dei profitti che incassano quotidianamente da ogni post, immagine, commento o filmato pubblicato sui loro siti. Si tratta di schermaglie, piuttosto che guerre, che vanno avanti praticamente da sempre: infatti è impossibile elencare tutti i casi, succedutisi negli anni, nei quali un Governo ha bloccato – per un tempo più o meno lungo – l’accesso dei suoi cittadini a uno o più social. In alcuni paesi è stata adottata la strategia di favorire la creazione di piattaforme “nazionali” che spesso hanno un numero di utenti di tutto rispetto e che sono – nella maggior parte dei casi – sconosciute o quasi fuori dai confini. Come, per esempio, accade in Russia con VK-Vkontakte, un social che si stima abbia circa 500 milioni di utenti. Oppure in Cina, dove predominano le piattaforme Xiaohongshu (RED) e Douyin, che insieme ad altre avrebbero più di un miliardo di utenti. Anche se, in quest’ultimo caso, bisogna ricordare che i social che conosciamo qui in Europa sono vietati dietro la Grande Muraglia. Creare dei sistemi di comunicazione sociale “autarchici” ha risolto alcuni problemi dei Governi che in questo modo non sono costretti ad avere a che fare con aziende che hanno i loro capitali e i loro centri di comando all’estero, ma più comodamente con imprenditori e società che devono sottostare alle leggi locali.

La situazione esistente, molto brevemente riassunta sopra, ha creato nel corso degli anni un certo equilibrio che però a volte si rompe, come nel caso del Nepal. Un ulteriore elemento di squilibrio è stato, negli ultimi tempi, la crescita esponenziale nell’uso di applicazioni tipo WhatsApp, Telegram, Signal (solo per citare i nomi più noti), che hanno tra le loro funzioni anche molte caratteristiche che li accomunano ai social media e che spesso come tali vengono usate. Questo ha, in parte, alterato l’equilibrio esistente, introducendo una serie di nuove problematiche che costituiscono una sfida per chiunque abbia l’obiettivo di tenere sotto continuo e completo controllo le comunicazioni che si scambiano le persone.

In questo contesto di scaramucce periodiche si inseriscono le continue proposte legislative. La Comunità Europea è tra le istituzioni più attive nel campo, indirizzate ad eliminare quasi completamente la possibilità di mantenere un minimo di anonimato e quindi di riservatezza quando si è connessi e si comunica tramite la Rete. Non avendo il coraggio di imporre un qualche tipo di censura generalizzata, i politici, in modo trasversale ai partiti e agli schieramenti, usano ogni pretesto per avanzare proposte che vanno comunque in quella direzione. Una delle ultime, in ordine di tempo, è quella del divieto di collegarsi a un sito “per adulti” senza che venga fornita una prova certa dell’età del richiedente. A questo fine in Italia è in via di sperimentazione una applicazione che dovrebbe certificare in modo sicuro che chi vuole collegarsi a un sito di quelli vietati sia maggiorenne. Proposte del genere sono, tra le altre cose, la dimostrazione concreta che le soluzioni precedenti anche molto recenti – come quella del controllo parentale sui telefonini dei minori – non hanno funzionato.

Intanto da pochi giorni è iniziato in Italia il primo anno scolastico senza cellulari.

Pepsy

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