ll 23 maggio 2015 l’Unione Sindacale di Base ha firmato l’accordo del 10 gennaio 2014 sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e Confindustria che lega il diritto di presentare liste per le elezioni delle RSU e comunque qualsivoglia diritto sindacale all’impegno a non scioperare contro accordi firmata dalla maggioranza dei sindacati e, nei fatti, dalle stesse CGIL CISL UIL.
Sostiene di farlo
vedi http://www.usb.it/index.php?id=1132&tx_ttnews[tt_news]=83104&cHash=6c742287f0
, sulla base “della pressante richiesta di migliaia di lavoratori, iscritti e delegati sindacali USB di non abbandonare il presidio sindacale nelle fabbriche e nei posti di lavoro” e di non condividere un “accordo che continuiamo a considerare assolutamente negativo e dopo una battaglia legale durata oltre un anno. Un accordo i cui effetti continueremo comunque a contrastare sui posti di lavoro e in tutte le sedi che riterremo opportune.”.
E’ evidente che la scelta di USB non è, di per sé, un evento di grande rilevo, l’accordo è infatti comunque operativo, sulla base di quest’accordo da più di un anno è stato impedito ai sindacati non firmatari di presentare liste per l’elezione delle RSU nelle imprese, contro l’accordo non è stato possibile costituire un fronte unitario del sindacalismo di base visto che la Confederazione Cobas ed altri hanno firmato immediatamente, la sinistra CGIL ha criticato l’accordo stesso ma, come di norma, è restata al coperto nell’organizzazione che ha stilato l’accordo stesso.
E’ tuttavia un segnale delle difficoltà della sinistra sindacale ad affrontare la questione generale della libertà di organizzazione sui luoghi di lavoro.
Per di più, per dirla con più franchezza che discrezione, nell’ambiente del sindacalismo di base, si è trattato della semplice conferma di quanto si prevedeva.
Infatti RdB, l’organizzazione da cui, con limitati innesti, è germogliata USB era solita firmare qualsiasi accordo potesse firmare pur di garantirsi i diritti sindacali e proprio questa scelta era stata una delle ragioni, e non l’ultima, della sua uscita dalla CUB e della nascita di USB.
Detto ciò, resta la solita questione, quella che anche a chi scrive hanno posto i militanti usbechi con i quali ha avuto modo di parlare della firma che si prospettava.
Secondo loro il rifiuto di firmare accordi dannosi ai lavoratori ma tali da garantire diritti all’organizzazione espressione di un’attitudine idealista che non tiene conto della concreta esigenza di tutela da parte dei lavoratori ad esempio su problemi disciplinari a livello aziendale.
Si tratta, in campo sindacale, di questione vecchia, ciononostante ritengo che la loro tesi vada presa in considerazione. Posso, a questo proposito, tranquillamente affermare che né per quanto riguarda me stesso né, soprattutto, per quanto riguarda il sindacato nel quale milito mi è parsa fondata l’accusa di astrattezza e di lontananza dalla vita quotidiana dei lavoratori.
Resta legittima la domanda se ha senso rinunciare a diritti e privilegi che il governo e lo stato sono disponibili a concedere quando l’attuale sistema di norme che regola la vita sindacale non sembra scandalizzare la massa dei lavoratori.
Soprattutto, si deve tener conto del fatto che effettivamente molti lavoratori, mi riferisco anche a iscritti e militanti CUB seri e combattivi ma sono convinto valga anche per altri, guardano con legittima preoccupazione al fatto che nel nuovo quadro in molte aziende saremo obbligati a fare sindacato senza la possibilità di avere delegati RSU e senza i limitati spazi di libertà di azione che la presenza nelle RSU garantisce.
Credo che l’unica risposta sensata a queste obiezioni consista nel ribadire che l’idea che si possano scambiare diritti dei lavoratori con diritti per le organizzazioni senza che questo scambio comporti una mutazione genetica di tipo degenerativo per l’organizzazione che si presta allo scambio è mera illusione nella migliore delle ipotesi e una vera propria menzogna nella peggiore.
Se infatti noi consideriamo gli interessi dell’organizzazione come un bene in sé è perché consideriamo l’organizzazione non come uno strumento per l’azione dei lavoratori ma come un fine al quale si può sacrificare ogni coerenza e, da questo punto di vista, non si vede alcuna differenza con i sindacati di stato che della tutela di se stessi fanno il primo obiettivo.
Ovviamente i militanti USB possono affermare che il proprio gruppo dirigente si caratterizza per posizioni politiche rivoluzionarie, comuniste ecc. ma resta il fatto che noi siamo non ciò che pretendiamo o, al limite, crediamo di essere ma ciò che facciamo.
Per dirla tutta, l’idea che un gruppo dirigente che si vuole rivoluzionario possa esserlo effettivamente mentre si caratterizza per pratiche opportuniste è questa sì idealismo allo stato puro.
In sintesi il problema non è se serva un’organizzazione sindacale radicale e radicata, realista e combattiva ma come la si costruisce e, da questo punto di vista, l’indipendenza, non a parole ma nei fatti da governo, padronato, istituzioni non è un optional ma una condizione minima.
Lo è proprio a partire dal principio di realtà, se vogliamo un’organizzazione capace di organizzare lotte contro un avversario forte, serve un tessuto di militanti lontani in radica da ogni deriva opportunista.
Detto ciò eviterei polemiche, USB è un sindacato come CGIL CISL UIL e, come tale, può essere un interlocutore o un avversario, certo però con questa scelta ha liquidato ogni possibile illusione sulla sua natura di organizzazione autonoma e di classe.
Se però non ci limitiamo a valutare una scelta contingente, è importante porre l’accento su due fatti:
- è in discussione una legge sulla rappresentanza sindacale che riprende, in peggio, quanto previsto dall’accordo del 10 gennaio 2014 per quanto riguarda il legame fra godimento dei diritti sindacali e accettazione del vincolo della non mobilitazione contro gli accordi firmati “a maggioranza”;
- sempre più spesso si propongono, l’ultimo caso è stato lo sciopero del trasporto urbano milanese del 28 aprile 2015, normative antisciopero che riconoscono ai soli sindacati “rappresentativi” ilo diritto di indire scioperi.
Siamo, insomma, di fronte ad uno scenario che va valutato con attenzione, nei fatti, se passerà ed è assolutamente possibile visto il quadro politico e sociale, una legislazione di questa fatta, l’azione sindacale diventerà sempre più difficile e complicata e sarà sempre più necessario lo sviluppo e la pratica di ipotesi radicali e di forzature del quadro legislativo.
Proprio per questo motivo vale oggi il famoso slogan del maggio 1968: ceder un peu c’est capituler beaucoup!
Cosimo Scarinzi