La tragica morte a Firenze di Sebastian Galassi, un rider di Glovo travolto da un’auto mentre faceva le consegne, ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica le difficili condizioni di lavoro di questi lavoratori ipersfruttati. Un’organizzazione del lavoro disumana (letteralmente): poco dopo la morte, sul cellulare di Sebastian è arrivato il licenziamento a causa di un feedback negativo da parte di un cliente ! (colpa dell’algoritmo, si è giustificata l’azienda). D’altra parte gli incidenti, per lavoratori costretti a correre a rotta di collo in mezzo al traffico in cambio di un misero cottimo, sono all’ordine del giorno. Nei pressi di Roma un altro ciclofattorino si è gravemente infortunato mentre scavalcava una recinzione nel tentativo di portare a termine la consegna.
Un po’ di storia
In un precedente articolo (UN, 11/2021) avevamo cercato di fare il punto sulle lotte dei rider.
In sintesi. I ciclofattorini (riconducibili alla più ampia categoria dei “platform worker”, lavoratori governati da una piattaforma digitale) sono comparsi nelle strade italiane a partire dal 2015. A dispetto di un’organizzazione del lavoro fatta apposta per isolare i lavoratori, ciascuno dei quali è solo con la propria app che, attraverso un complesso logaritmo, determina tempi e modalità di lavoro, i rider sono riusciti fin dall’inizio a sviluppare forme significative di lotta.
Vista l’attenzione dell’opinione pubblica anche la politica si è interessata a loro varando, su impulso dei 5 Stelle, una legge che avrebbe dovuto essere di tutela (DL 3 settembre 2019 n. 101, convertito nella legge 128/2019) ma che si è rivelata il solito trappolone giuridico fatto apposta per essere aggirato.
A fronte del riconoscimento di alcuni diritti minimali (tutela dei dati personali e diritto alla non discriminazione, iscrizione all’INAIL, proibizione del cottimo, riconoscimento del diritto di percepire un compenso orario minimo) la legge ha lasciato irrisolto il punto fondamentale cioè la natura giuridica del rapporto di lavoro, per cui i ciclofattorini, secondo i casi, possono essere considerati lavoratori parasubordinati (co.co.co.), autonomi o subordinati. La decisione viene demandata ad “accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative”, che possono persino derogare in peggio le norme di legge.
Di queste norme capziose ha subito approfittato il padronato. Nel settembre 2020, in piena pandemia, l’associazione padronale Assodelivery ha sottoscritto con l’UGL un contratto capestro che ha gettato nuovamente i lavoratori nel calderone del lavoro autonomo e ha reintrodotto dalla finestra quel cottimo che la legge aveva apparentemente cacciato dalla porta. Da notare che sebbene persino il Ministero del Lavoro abbia stigmatizzato l’accordo, considerando il sindacato privo della necessaria rappresentatività, il CCNL mantiene pieno valore legale.
Ne è seguita la mobilitazione dei lavoratori, mentre anche la magistratura milanese (pressata dall’opinione pubblica) ha sollevato un polverone aprendo inchieste, commissariando Uber Eats per caporalato, comminando multe e avviando indagini fiscali. Il tutto conclusosi poi con modesti risultati (qualche multa e l’obbligo di tenere corsi di formazione ai lavoratori).
A questo punto Just Eat, una delle maggiori piattaforme, ha deciso di abbandonare il fronte padronale e di sottoscrivere (siamo a marzo 2021, poco dopo uno sciopero ben riuscito) un accordo con i confederali. Il contratto, se da un lato ha riconosciuto i rider come lavoratori dipendenti, dall’altro (CGIL-CISL-UIL non si smentiscono mai) li ha inseriti in un profilo molto penalizzante, appositamente creato nell’ambito del comparto della Logistica. La multinazionale diretta da Jitse Groen ha cercato così di giocare d’anticipo scommettendo su di una evoluzione della normativa europea. In ogni caso i lavoratori non si sono accontentati ed è in corso una vertenza (promossa dal Si Cobas) per la piena applicazione del contratto della Logistica.
La situazione è stata ulteriormente complicata dallo sbarco in Italia, nella seconda metà del 2021, di nuove aziende di delivery come la turca Getir e la tedesca Gorillas, specializzate nella consegna ultraveloce. Le new entry hanno offerto ai propri rider contratti a termine con regolare inquadramento nel comparto del commercio.
Crisi economica e frammentazione contrattuale
L’espansione del mercato, favorita dal boom delle consegne a domicilio provocato dalla pandemia, non poteva durare in eterno. Il “ritorno alla normalità” in campo sanitario, le notevoli difficoltà economiche derivanti dalla guerra e la spietata concorrenza tra le imprese del settore sta determinando una crisi sempre più evidente.
Gorillas chiude i battenti dopo nemmeno un anno dallo sbarco nel nostro Paese, licenziando 540 dipendenti tra rider e impiegati. I lavoratori fanno notare che sia Gorillas che Glovo appartengono alla stessa multinazionale, Delivery Hero. La scelta è stata quindi quella di togliere dal mercato l’azienda “dove i lavoratori avevano qualche tutela in più, per una realtà imprenditoriale tossica come Glovo” (come scrive “Deliverance Milano”) dove i salari sono compressi dal contratto pirata UGL. Getir ridimensiona drasticamente gli organici e si parla di un suo prossimo ritiro dal mercato italiano. Everli (dopo aver cercato di creare un sindacato giallo aziendale con cui sottoscrivere un accordo capestro) licenzia e anche Domino’s pizza ha deciso di lasciare l’Italia.
Il quadro contrattuale rimane estremamente frammentato: Glovo, Deliveroo e Uber (riunite in Assodelivery) continuano ad applicare il CCNL UGL che considera i dipendenti come “lavoratori autonomi” e questo nonostante numerose sentenze in senso contrario della magistratura. Just Eat applica l’accordo con CGIL-CISL-UIL (facendo però un uso abnorme dei contratti part time a 10 ore e rifiutandosi di applicare gli aumenti salariali previsti dal rinnovo del CCNL Logistica).
Getir (finché dura) applica il contratto del Commercio: l’84 % dei dipendenti è a tempo determinato e sono in corso con i confederali trattative sull’ipotetica stabilizzazione del personale.
Per le aziende minori è una vera e propria giungla; qualcuna come MyMenu ha aderito all’accordo siglato dai confederali con Just Eat, mentre anche sindacati autonomi come la Confsal si sono gettati nell’affare sottoscrivendo con una sconosciuta confederazione delle Piccole e medie imprese un accordo fotocopia di quello UGL .
In questa situazione suona come una beffa il rapporto annuale 2021 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, secondo cui, grazie all’attività ispettiva, “sono state assicurate ai 60.000 riders delle società ispezionate le tutele previste per i lavoratori subordinati sotto il profilo retributivo, previdenziale e di salute e sicurezza” . Un’affermazione talmente surreale che, scrive ancora “Deliverance Milano,” sembra scritta da “Topo Gigio”.
Un quadro non facile per i lavoratori che, tra frammentazione contrattuale, crisi economica, ruolo narcotizzante dei sindacati confederali, particolarismi dei sindacati di base, continuano a mobilitarsi per far valere i propri diritti, come si è visto anche nel recente sciopero (15 settembre) dei rider milanesi di Glovo e Deliveroo contro l’abbassamento delle tariffe imposto dai padroni. La mobilitazione ha ottenuto un immediato rialzo dei compensi. Ancora una volta solo la lotta paga!
Mauro De Agostini