Buoni e cattivi. Appunti sull’«Operazione Aquila» e il buonismo mercenario degli italiani.

«Da soldato l’indiano veste l’uniforme, tira la paga e le razioni, e sotto ogni aspetto è su un piano di parità con il bianco. Ciò dimostra alla sua mente semplice nel modo più positivo che non abbiamo pregiudizi contro di lui per via della sua razza e che, se si comporta bene, sarà trattato in modo uguale al bianco. Tornando alla sua tribù, dopo il servizio militare, è in grado di vedere oltre le vecchie superstizioni che hanno governato il suo popolo e pensa e decide per sé»

Generale Crook, in “American Indian Culture and Research Journal” – David D. Smits (1998)

Razzismo 2.0 
Le indagini che hanno accompagnato la percezione sull’immigrazione in Italia nell’ultimo decennio sono impietose. La dicotomia tra percezione e realtà nell’immaginario popolare racconta che se i cittadini europei sovrastimano nettamente la percentuale di immigrati presenti nei loro paesi (7,2% di immigrati non-UE presenti “realmente” e stimati il 16,7% dagli intervistati), il dato che riguarda l’Italia è emblematico. Gli intervistati italiani sono quelli che mostrano un maggior distacco in assoluto tra la percentuale di immigrati non-UE realmente presenti in Italia (7%) e quella stimata, o percepita, pari al 25%. Su questa percezione, conseguente alla propaganda sovranista generalizzata, si sta giocando da tempo il grado di controllo, repressione e sfruttamento di migranti in ogni ambito e livello sociale: dal lavoro (da cui a malapena emergono le cronache della logistica o dell’agroindustria con i pestaggi e i/le mort* ammazzat*) agli internamenti nei CPR (lager diffusi) per i/le senza documenti (dove torture, autolesionismo e morte sono ormai inveterate).

Il “dibattito” sull’immigrazione ha egemonizzato in questi anni quasi tutta la campagna elettorale (che è ormai permanente dal nazionale alle amministrative) e continua, nonostante la pandemia, a trovare terreno fertile negli scontri politici sia a livello istituzionale sia, che è di fatto il vero problema, nella società reale dove le guerre fra poveri canalizzano la rabbia verso l’anello più debole della catena dello sfruttamento. Tra le categorie che vengono usate come dileggio verso tutti coloro che esprimono forme di empatia se non vera e propria solidarietà nei confronti dei migranti vi è quella del “buonismo”. Un “buonista” per l’impettito patriota o sovranista italico è colui il quale finge di ben volere i migranti ma “non se li porta a casa sua”, responsabile dunque in quanto complice delle peggiori nefandezze con cui questi barbari stanno trascinando una nazione, colma di valori e principi (i più vari ed eventuali), verso il baratro. Va in realtà sottolineato come buona parte di questi dispensatori di etichette “buoniste” generalmente lo usino col pleonastico “falso buonista”, significando già una “falsa benevolenza” denotando un certo accanimento linguistico. Poca cosa, l’ultimo dei problemi in una vasta platea di analfabeti funzionali come l’Italia. Ci torna però utile questa categoria in quanto dimostra come l’intramontabile opportunismo del patriottismo italico, in particolare se declinato nel altrettanto sempreverde militarismo degli “italiani brava gente”, non ha mai smesso di ammorbare la narrazione di una fetta consistente di questo paese.

Il “buonismo” che piace ai razzisti
 Il razzismo di stampo nostrano è legato a doppio filo con le imprese coloniali dell’Italia guerrafondaia e militarista. I massacri e le mattanze tricolori in Africa o nel ex Regno di Jugoslavia, per fare due esempi di qui si hanno ampie documentazioni, sono ormai storia; ma restano comunque indigeste in termini di consapevolezza per una larga fetta della popolazione che o non ne conosce il portato e la consistenza o arranca tra giustificazionismo e negazionismo vero e proprio. Di questa attitudine se ne ha ben evidenza nei riscontri positivi che ancora il militarismo ottiene, non tanto per il dato dell’arruolamento volontario (rimane in voga l’altro mood italiota dell’”armiamoci e partite”) quanto per il tifo e la festosità con cui la divisa viene accolta, dalle imprescindibili feste degli alpini alle sfilate di bersaglieri e veterani vari. Ben più preoccupante è in realtà l’omertà o la simpatia attorno alla propaganda militarista nelle scuole, l’incidenza della ricerca militare nell’università e il business nella produzione ed export di armi e tecnologia militare. Ovviamente il bacino di disoccupazione e precarietà sociale, in gran parte meridionale, da cui viene pescata la nuova leva soldatesca, ha un suo peso ed è trasversale a tutti gli stati che utilizzano appunto l’esercito professionale. Ritornando infatti alla citazione di Smits a inizio articolo, tra i nativi americani o popolazione nera così come tra le fasce povere degli States l’arruolamento come unica possibilità emancipatoria ha rappresentato fin dagli albori e tutt’ora rappresenta una fetta consistente del comparto militaresco U.S.A.

L’operazione Aquila: i “buoni” afghani

Una Notizia di cui non si è scritto se non in modo sommario e che comunque non ha mai interessato le prime pagine né di giornali né di notiziari è quella che riguarda l’esito rocambolesco con cui i militari italiani, a ruota di quelli statunitensi, se la sono svignata dall’Afghanistan. L’8 giugno del 2021 a Herat avvenne la cerimonia dell’ammaina bandiera che sancì la formale conclusione dell’occupazione militare italiana in Afghanistan iniziata nel dicembre 2001. In 20 anni di occupazione è stato impiegato personale civile afghano (interpreti, mediatori culturali, guardie, amministrativi e addetti alle pulizie) che di fatto hanno collaborato attivamente con il contingente militare italico.
L’operazione Aquila contemplava questa evacuazione in tre atti: il trasferimento in Italia del personale afghano e relativi parenti di 1° grado (Herat e Kabul) composta da circa 222 persone nella prima trance e 440 in una seconda, tramite vettori aerei civili e militari; per i i primi la loro sistemazione temporanea in due basi logistiche dell’Esercito e una della Marina Militare, o in “centri covid” per i positivi, dove venivano assistiti da operatori sanitari della Croce Rossa e da mediatori culturali; l’inserimento nel Sistema d’Accoglienza e Integrazione (SAI) del Ministero dell’Interno per l’inserimento definitivo nella nostra società.

A scrivere i motivi di tale generosità ci pensa il Generale di Corpo d’Armata e ufficiale di Artiglieria da Montagna Giorgio Battisti nelle pagine web di “Analisi Difesa”: “Si tratta di una doverosa azione di gratitudine da parte italiana che in tal modo ha riconosciuto l’impegno profuso da questi afghani nel supportare i nostri reparti, senza i quali sarebbe stato difficile interagire con le realtà locali per le profonde diversità socio-culturali.”
 Ma come hanno deciso chi e quanti fossero meritevoli di tale opportunità tra le migliaia di afghani che in un modo e nell’altro hanno vissuto a contatto con l’occupazione militarista? 
L’annuncio repentino del ritiro delle forze statunitensi da parte del presidente Biden pare non abbia lasciato molti margini di intervento a chi in questi decenni gli ha fatto da sottopancia; sono state così condotte delle “valutazioni di affidabilità” sulla base anche dei rapporti espressi dei militari italiani che li hanno impiegati e una verifica di “affidabilità” che ha riguardato i familiari dei collaboratori afghani. Ad aiutare queste centinaia di “buoni” afghani e loro famigliari ci stanno pensando anche le Associazioni Combattentistiche e d’Arma e come suggerisce l’esercito italiano “soprattutto quelle più numerose e organizzate, come l’Associazione Nazionale Alpini”, immancabile emblema di volontarismo e disciplina che ammorba con parate e molestie anno dopo anno le nostre città. Sempre il Generale Battisti sottolinea: “La loro situazione è completamente diversa da quella degli immigrati clandestini e da coloro che arrivano in Italia con i cosiddetti “corridoi umanitari” […] Questi afghani hanno imparato la nostra lingua, il nostro modo di pensare e di ragionare, sono rispettosi del nostro stile di vita, della nostra cultura e della nostra religione, come noi lo siamo stati con loro in Afghanistan […] Sono individui portati in Italia dalle nostre Istituzioni, abituati a rispettare le nostre leggi e le nostre regole di vita comune. Essi hanno assicurato una collaborazione che sicuramente ha migliorato il livello di sicurezza dei nostri Soldati permettendo loro, nel contempo, di assolvere meglio il compito.”
Per una parte di questi, in realtà, c’è l’idea di impiegarli in una sorta di apparato gemello a quello statunitense, denominato MODA (Ministry of Defense Advisors), e che prevede l’impiego degli afghani più “utili”, considerato che ci sono laureati (avvocati e professori) ed ex ufficiali formatisi nelle Accademie militari, di questi diversi conoscono più lingue straniere oltre al dari e pashtu (lingue ufficiali afghane). Utili, come si diceva, per svolgere ruoli di coach e di mentor sia per funzionari civili e militari nazionali sia per partner stranieri in occasione di altre attività utili alla “nostra Difesa”.
Questa carità è stata elargita anche a centinaia di semplici gestori di negozietti all’interno delle basi italiane e dei comandi NATO che vendevano prodotti di artigianato locale.
Così rendicontano dall’esercito: “il loro contributo è stato molto apprezzato da tutti noi per la possibilità di acquistare oggetti ricordo di quell’affascinante Paese e per le notizie che spesso ci anticipavano sulla situazione locale. […] Indubbiamente, erano spinti dal guadagno ma ciò non compensava i rischi che affrontavano, alla pari dei collaboratori locali, per l’incolumità loro e dei loro cari.”

Il militarismo non manca mai di insegnarci quale sia la morale patriottica che si dipana indenne nei secoli, ovvero che la bontà o la cattiveria di un popolo, la bontà o la negligenza di una comunità, di una famiglia o di una persona consisterebbe nel grado di utilità, servitù e affidabilità alla causa di chi invade, occupa e annichilisce. L’idea di libera circolazione e di civiltà non è uguale per tutti, i migranti che decidono di ricercare la propria felicità altrove non hanno “meritato” l’accoglienza, coloro i quali hanno servito e trastullato le libere uscite dei membri della coalition of the willing, negli anni sempre più rimpolpata di eserciti e armi, invece sì. 
Attraversare mari e deserti, montagne e paesi rischiando di morire per sé, per il proprio futuro o quello dei propri cari pare destare solo disprezzo o indifferenza. Solo se si è pronti a morire in guerra, nelle tante guerre volute da padroni e governanti, la vita appare rispettabile. Rovesciare questa morale è la nostra causa. La causa di ogni antimilitarista.



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