Siamo nel cuore di Barriera di Milano, periferia nord di Torino. A pochi passi dal mercato di piazza Foroni, c’è un giardinetto con due alberi e una manciata di panchine. Siamo all’angolo tra corso Palermo e via Sesia. Di fronte c’è il retro della chiesa della Madonna della Pace. In una di queste case di via Sesia viveva la famiglia della mia mamma. Ingresso dal ballatoio, due camere, niente bagno. La latrina comune per tutto il piano era all’esterno. Mi raccontava mia mamma che il bagno lo facevano di sabato con una grande tinozza dove veniva versata l’acqua scaldata sul fornello a gas. Mio nonno faceva l’operaio alla Riv, mia nonna le pulizie nelle case dei signori. Lei, immigrata dalla Sicilia, non ha mai imparato a leggere e scrivere.
A quei tempi la Barriera arrivava sino a Porta Palazzo, il più grande mercato all’aperto d’Europa. Solo in tempi recenti la parte più vicina al centro è stata accorpata ad Aurora, forse anticipando un diverso destino per i due pezzi di quello che un tempo è stato un borgo operaio. Nel 1917, in pieno conflitto mondiale, lo sciopero contro la guerra e la fame si trasformò in insurrezione: ogni angolo della Barriera divenne una barricata. Per contrastare le cariche a cavallo vennero inaugurate le barricate elettrificate. In piazza Crispi c’era una Scuola Moderna, dove gli operai anarchici studiavano per impadronirsi del sapere riservato ai signori, per imparare ad autogestire la società di liberi ed uguali che avevano nella testa e nelle mani.
Durante il fascismo, nonostante la durissima repressione, in Barriera agiva uno dei tre gruppi anarchici clandestini di Torino. Negli anni della Resistenza la Barriera fu teatro di lotte durissime, prima in fabbrica, poi nelle strade. Difesero le fabbriche dalla distruzione, perché era viva in loro la memoria degli anni Venti, dell’occupazione delle fabbriche, della lotta in armi per cacciare per sempre i padroni.
La fine del fascismo non portò la vita per la quale in tanti avevano lottato ed erano morti ma il filo delle lotte non si spezzò. Negli anni Sessanta e Settanta il volto della Barriera mutò: accanto ai torinesi e ai contadini piemontesi inurbati arrivarono lavoratori dal Meridione e dal Veneto. La convivenza non fu facile. Furono le lotte comuni a rompere il muro di diffidenza e persino di razzismo tra i lavoratori piemontesi e gli ultimi arrivati. In fabbrica il nemico di tutti era sempre il padrone e chi lo serviva, nelle periferie operaie le lotte per la casa, i trasporti, le scuole, la sanità furono il fronte sul quale si ricostruì la comunità della Barriera, una comunità che diveniva includente, nella solidarietà tra eguali.
Poi sono arrivati gli anni Ottanta e, a poco a poco, tutto è cambiato. Il lavoro, qui come nel resto del paese, è diventato sempre più precario, pericoloso, frantumato. La lotta di classe continua ma a vincerla sinora sono stati i padroni. Ritrovare un fronte di lotta comune con gli immigrati arrivati dall’Africa, dalla Cina, dal Sudamerica, dai paesi dell’est non è facile, anche se da qualche anno qualcosa si sta cominciando a muovere.
Dopo due anni di pandemia la vita in Barriera è sempre più difficile. Il prezzo di gas e luce è raddoppiato, tanta gente è sotto sfratto o con la casa messa all’asta. Se non ci sono i soldi per il fitto e le bollette, la tutela della salute diventa una merce di lusso che possono permettersi in pochi. Chiunque abbia bisogno di una visita o di un esame urgente lo constata sulla propria pelle: o paga o non riesce neppure a prenotare. Alla ASL di Torino è diventata una litania cronica: “Non ci sono posti, riprova domani”. A volte vinci il terno al lotto: proprio quel giorno è saltato un appuntamento in un ospedale piemontese a 150 chilometri di distanza. Ma… anche la fortuna ha un costo: chi non ha tempo e soldi per pagarsi il viaggio è obbligato a rinunciare.
La gestione della pandemia è stata anche un laboratorio dove sperimentare tecniche di controllo sociale prima impensabili, pur di non spendere un soldo per la casa, la sanità, i trasporti, le scuole. La guerra in Ucraina renderà ancora più precarie le vite di chi, in questo inverno tiepido, si è trovato bollette spaventose da pagare. Il governo risponde proclamando lo stato di emergenza “umanitario” e moltiplicando la spesa militare.
Nella periferia nord di Torino, ad Aurora e Barriera, dove si concentra la maggior parte degli immigrati che vivono a Torino, il controllo militare imposto durante il lockdown è diventato normale. Intere aree del quartiere vengono messe sotto assedio, con continue retate di persone senza documenti o che vivono grazie ad un’economia informale. Ogni pretesto è buono per bloccare con mezzi antisommossa e cani molecolari interi isolati del quartiere.
Il 6 febbraio di quest’anno era una domenica come tante. Quel giorno il Senegal vinse la coppa d’Africa: in Barriera qualche centinaio di senegalesi si riversarono per strada a festeggiare. Persino l’allegria di quella sera è stata occasione per criminalizzare chi vi aveva partecipato esprimendo attivamente il proprio scarso gradimento di fronte allo scorrazzare di auto della polizia. Quando vince la nazionale italiana la polizia si guarda bene dal cercare di fermare i festeggiamenti in strada. Stuoli di giornalisti e fotoreporter hanno accompagnato la polizia a caccia di ragazzi, colpevoli di fare il tifo per la loro squadra.
Questo episodio è però solo la punta di un gigantesco iceberg. Da due mesi il comitato per l’ordine e la sicurezza ha puntato sull’area di corso Palermo limitrofa al mercato di piazza Foroni: quasi ogni giorno ci sono camionette di polizia, carabinieri, alpini. Un vero assedio quotidiano aizzato dal prete della parrocchia della Madonna della Pace, il cui oratorio è vicinissimo ai giardinetti. I poveri che passano ore su quelle panchine non devono sporcare la città-vetrina. L’aspirazione ad avere una socialità non mercificata va repressa.
Trattare le questioni sociali in termini di ordine pubblico è una scelta chiara della nuova amministrazione di centrosinistra in continuità con la giunta pentastellata e con le precedenti giunte targate PD. A Torino, alle ultime elezioni comunali è stato eletto sindaco Stefano Lo Russo, un uomo dell’establishment del Partito Democratico, ma la circoscrizione 6, di cui fa parte Barriera di Milano, per la prima volta è passata nelle mani dei fascisti di Fratelli d’Italia, che hanno fatto e continuano a fare un’intensa propaganda nelle aree più povere del quartiere, soffiando sul fuoco della guerra tra poveri, cui hanno attinto per aggiudicarsi la circoscrizione. La violenta militarizzazione dell’area centrale del quartiere è anche il tentativo di fare concorrenza ai fascisti sul loro stesso terreno.
Il governo della città e quello della circoscrizione puntano sulla guerra tra poveri italiani e poveri immigrati, per avere mano libera nei processi di riqualificazione escludente in atto nella periferia nord della città. Processi che sono contrastati dagli anarchici radicati nel quartiere da oltre quarant’anni, che provano a rioccupare con iniziative di informazione, lotta, socialità gli spazi messi sotto assedio dalla polizia, quelli minacciati di sgombero o sfratto.
La trasformazione in atto non ha tuttavia un andamento lineare, perché, al di là dello stop imposto dalla pandemia, Torino, ben diversamente da Milano non è uscita dalla crisi, innescata dalla fuga della Fiat da Torino. Gli abitanti continuano a diminuire, la sofferenza sociale è in costante crescita. Gli assi intorno ai quali si sta ridisegnando la città sono due: da un lato c’è la vetrina per i turisti, dall’altro l’innovazione e la ricerca tecnologica messe al servizio dell’industria bellica. Per ora ci concentreremo sulla città-vetrina.
Tutto è cominciato con le olimpiadi invernali del 2006. L’investimento fu massiccio sia in città sia nelle valli alpine al punto che il comune, allora governato da Sergio Chiamparino, senza il salvataggio di San Paolo Intesa avrebbe fatto default. Invece Chiamparino venne rieletto con cifre plebiscitarie e la banca ottenne ad un prezzo d’affezione un terreno di pregio tra il tribunale e il palazzo della Provincia (oggi Città metropolitana) e vi edificò il primo grattacielo della città. Grazie al restyling del centro e ai grandi eventi da allora hanno cominciato a fiorire i B&B, gli alberghi di nuova costruzione, finendo inevitabilmente con l’investire Aurora.
Dal 2005 ad oggi si sono susseguiti sgomberi di posti occupati dagli anarchici e di occupazioni abitative. La nascita nel crocevia tra corso Palermo, via Bologna e corso Brescia dello sfavillante centro direzionale della Lavazza ha contribuito all’accelerazione cui abbiamo assistito nel 2019 e 2020, quando sono stati spazzati via l’Asilo di via Alessandria e l’occupazione di corso Giulio Cesare, e, soprattutto, il campo rom di via Germagnano e il mercato degli stracci tra San Pietro in Vincoli e il canale Molassi.
Il Balon per centinaia di anni è stato per Torino il luogo di scambio informale, dove chiunque poteva vendere o comprare a poco prezzo abiti, utensili, biciclette, scarpe, mobili vecchi. Chi vendeva ne ricavava qualcosa per mettere insieme il pranzo con la cena, chi comprava poteva contare su prezzi bassi. Un lungo processo di riqualificazione dell’area del Balon ha condotto alla normalizzazione forzata del vecchio mercato. Tutto cominciò con la giunta Chiamparino che divise il Balon degli antiquari e dei rivenditori dell’usato presentabile, dagli straccivendoli. Sino al 2019 i venditori più poveri, spesso immigrati, rom, senza casa erano relegati nell’area ghetto di San Pietro in Vincoli e del Canale Molassi, che erano tuttavia contigue al Balon “ripulito” per turisti e nuovi abitanti della zona.
Nel 2019, dopo otto mesi di lotta ed occupazione abusiva, gli straccivendoli sono stati sgomberati ed il mercato è stato spostato in un piazzale desolato di fronte al cimitero. La gestione degli spazi e dell’ordine pubblico del Balon venne affidata all’Associazione dei commercianti del Balon, che l’hanno gestita bandendo tutte le presenze sgradite per aver partecipato alla lunga lotta per la difesa del mercato degli stracci. I guardiani che sorvegliano il mercato sono stati assoldati di un’associazione dal nome neutrale che si chiama PiemonteStoria. Il presidente di PiemonteStoria e addestratore di questi sorveglianti privati fa parte dell’estrema destra torinese, ha tenuto conferenze nella sede di Aliud, gruppo della destra identitaria vicino a Fratelli d’Italia. La nuova giunta Lo Russo ha indetto a dicembre un nuovo bando per la gestione del mercato. Mi permetto di supporre che tanto cambierà perché tutto resti come prima.
Un lungo processo di gentrificazione sta investendo da alcuni anni la periferia nord di Torino, con un focus speciale su Aurora e, parzialmente, Barriera, aree densamente abitate da una popolazione multietnica e povera ma troppo vicine al centro per non essere appetibili per gli interessi speculativi di chi sta provando a ridefinire lo spazio urbano per favorire il turismo, con grandi eventi sportivi, artistici e musicali che fungano da calamita per attrarre visitatori. Non solo. La nascita del campus Einaudi lungo le sponde della Dora ha modificato il valore degli immobili, favorendo la cacciata degli abitanti che non potevano permettersi i nuovi affitti. L’effetto gentrificante del polo universitario potrebbe estendersi grazie allo Student Hotel.
Il progetto di studentato di lusso messo in naftalina negli ultimi due anni è ripartito all’inizio di quest’anno. Siamo in corso Giulio Cesare, di fronte al ponte Mosca nel cuore dell’area di Porta Palazzo. Quest’opera è uno dei tasselli della vasta operazione di riqualificazione escludente dell’area. Le conseguenze, se l’operazione avrà successo, sono facilmente prevedibili: ulteriore aumento dei prezzi degli immobili, crescita degli affitti, sfratti e cacciata degli abitanti più poveri.
Sul sito della società olandese “The Student Hotel” si legge: “I nostri hotel sono luoghi d’incontro ideali per persone di ogni dove, tutte accomunate dal desiderio di conoscersi e scambiare idee. Amanti dell’avventura, imprenditori, studenti e persone del posto: tutti sono benvenuti nei nostri spazi.” Quest’approccio dimostra la volontà di proiettare un’immagine agile, anticonformista seducente per giovani ricchi ma con uno stile “alternativo”. Gente attratta da un’area urbana vivace e multietnica. Va da sé che la multietinicità va inscatolata nell’esotico perbene, innocuo, adattato alle nuove esigenze di chi investe tanti soldi: i poveri che sostano e dormono all’aperto, i negozi dove si vende e si compra a poco prezzo vanno cacciati. Quando i meccanismi di espulsione economica non bastano vengono integrati dal controllo militare del territorio.
Il governo, a tutti i livelli, preferisce puntare il dito sulle persone più povere, razzializzate, con il continuo ricatto dei documenti, per nascondere la guerra sociale che ha scatenato contro tutti i poveri, italiani e nati altrove, schierandosi a fianco di padroni grandi e piccoli. La settima circoscrizione ha sottoscritto con alcuni abitanti il protocollo “sponde sicure”, per “la tutela e la cura del tratto di lungo Dora Napoli”, vicino al Balon. Di fatto la circoscrizione ha regalato ai proprietari dei bar disponibili a collaborare attivamente con la polizia lo spazio lungo il fiume per i loro dehor: sono sparite le panchine, per impedire che qualcuno ci si sdraiasse, vi passasse qualche ora. Con un’operazione a metà tra il rainbow e il green washing hanno puntato su locali come Pausa Caffé e la limitrofa Locanda sul fiume, per offrire un’immagine gay friendly, accattivante ai nuovi frequentatori dell’area.
Il controllo etnicamente mirato del territorio mira a reprimere sul nascere ogni possibile insorgenza sociale. Il proprietario di Pausa Caffé fa la spia per la polizia, getta olio esausto dove sostano abitualmente ragazzi dalla pelle scura e viene premiato. È tanto impudente da rivendicare con orgoglio le proprie scelte. Scelte che gli sono costate un’attiva campagna di boicottaggio da parte delle aree più radicali del movimento tranfemminsta queer della città.
In lungo Dora Napoli controllo poliziesco e riqualificazione escludente si compenetrano direttamente, al punto che in alcuni casi gli attori protagonisti sono gli stessi. Non tutte le ciambelle riescono con il buco. Se ci spostiamo di cinquecento metri arriviamo al mercato di Porta Palazzo, sul quale sono stati fatti investimenti notevoli. Da un lato l’ostello di lusso Combo, i cui affari paiono non andare alla grande, dall’altra Mercato Centrale. Mercato Centrale è stato aperto nell’aprile del 2019 nel Palafuksas, un edificio verde bottiglia dell’archistar Massimiliano Fuksas.
Nel giorno dell’inaugurazione ci fu una vivace contestazione animata da un’inedita convergenza tra docenti universitari, studenti, anarchici, gente del quartiere. Il Palafuksas ha conosciuto una vita tribolata sin dall’esordio, quando venne costruito al posto della vecchia ala liberty che ospitava i negozietti/bancarelle degli abiti a basso costo per gli abituali frequentatori del mercato.
Un’operazione destinata a fallire, perché i negozi di lusso non lo trovavano attrattivo e i vecchi negozianti non potevano permettersi i nuovi affitti. Dalla sua apertura è sempre stato una spina nel fianco delle amministrazioni subalpine. Dopo anni di chiusura nel 2019 è arrivato il cambio di destinazione. Il bottiglione si è trasformato in un polo del gusto, secondo la recente vocazione torinese, che va da Terra Madre ad Eataly, Alti Cibi ad enorme tasso di sfruttamento.
Ci sono voluti dieci mesi di lavoro con un investimento di sei milioni di euro per realizzare a Torino il terzo “Mercato Centrale” in Italia. All’interno ci sono 26 botteghe, tra artigiani del gusto, ristoranti, bar, birreria e una scuola di cucina. L’operazione pare però fallita, perché la boutique del gusto si è inserita nel cuore proletario della città. La commistione tra maghrebini che sorseggiano il caffè ai tavolini e borghesia sabauda non ha funzionato. “L’esotico” rende se assume le vesti “dell’etnico”, ma è poco accattivante se ha l’aspetto dei tuoi concittadini più poveri e razzializzati. Porta Palazzo per ora, si è dimostrata un ambiente non facile da adattare ai processi di gentrificazione dei quali è investita.
Torniamo però ai giardinetti tra corso Palermo e via Sesia. Qui a fine febbraio ci siamo trovati per occupare l’area con interventi, musica, quattro chiacchiere con chi ci vive. I blindati dell’antisommossa quel giorno non c’erano: il solito gruppetto di Digos sorvegliava da lontano.
Mentre il pomeriggio si muta in sera si gioca a buttare giù i barattoli con le caricature di poliziotti, carabinieri, alpini. Dal negozietto/bar lì vicino qualcuno si unisce. Un signore ci chiede: “Perché siete qui?” Gli raccontiamo il perché e subito l’ambiente diventa più caloroso. Ci offrono una birra, ci chiedono quando torneremo. Il sottile filo che tiene unita la memoria di questo quartiere, apparentemente sepolto, riemerge nella consapevolezza che per un giorno stando insieme, la polizia non si è avvicinata.
Maria Matteo