Il progetto dell’autonomia differenziata, che consente a ciascuna Regione ordinaria di negoziare particolari e specifiche condizioni di autonomia, è reso possibile dalla Riforma del Titolo V della Costituzione. La Riforma del Titolo V è datata 2001 (legge Costituzionale 3/2001), elaborata durante il Governo D’Alema ed approvata sotto il Governo Amato.
Vediamo un po’ come sono andate le cose e cosa hanno comportato. Le norme del 2001 non hanno previsto la possibilità, da parte del parlamento, di emendare i disegni di legge del consiglio dei ministri per attuare le “intese” tra governo e Regioni. La modifica degli accordi può avvenire solo attraverso il reciproco consenso delle parti e nessun referendum può intervenire in merito agli accordi. Successivamente ai referendum consultivi delle Regioni Lombardia e Veneto, del 22 ottobre 2017, dal quesito che chiedeva l’assenso a un generico aumento dell’autonomia regionale (“Vuoi che alla Regione siano attribuite ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia?”), il progetto ha subito una rapida accelerazione.
Nel 2018, a fine legislatura, il governo di centrosinistra a guida Gentiloni ha siglato accordi di pre-intesa con i governatori di Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna (28 febbraio 2018), mentre al punto 20 del contratto di governo 5 Stelle/Lega, si ribadiva la volontà di concedere l’autonomia alle regioni in regola, tanto che mercoledì 13 febbraio 2019 è stata sottoscritta l’intesa Miur-Regione Veneto sulla regionalizzazione della scuola.
L’attuale assetto costituzionale prevede che, qualora le Regioni lo chiedano, resti allo Stato solo l’indicazione degli indirizzi generali sull’istruzione e dei “livelli essenziali delle prestazioni” (Lep), con la cessione delle cosiddette “materie concorrenti”, gestibili anche in forma esclusiva.
In pratica, cos’è la regionalizzazione? Puntando sulla riduzione del cosiddetto “residuo fiscale”, cioè la differenza fra gettito fiscale complessivo dei contribuenti di una regione e restituzione in termini di spesa per i servizi pubblici, le regioni più ricche che oggi versano le tasse allo Stato (che a sua volta le ridistribuisce in tutto il Paese), domani si terrebbero più soldi aprendo la strada a servizi diversi per investimenti e qualità e ad una competizione tra le diverse regioni.
Le tre regioni che hanno avviato il processo di autonomia differenziata sono, direi ovviamente, ai vertici della speciale classifica del residuo fiscale. Con meno clamore, altre regioni hanno intrapreso lo stesso iter: a testimoniarlo è un dossier del servizio studi del Senato del luglio 2018 in cui si dice che “l’autonomia differenziata” di fatto coinvolgeva già tredici regioni a statuto ordinario su quindici. Sette regioni avevano formalmente conferito al presidente l’incarico di chiedere al governo l’avvio delle trattative: Campania, Liguria, Lazio, Marche, Piemonte, Toscana e Umbria. Altre tre regioni avevano assunto iniziative preliminari che in alcuni casi hanno portato all’approvazione di atti di indirizzo (Basilicata, Calabria e Puglia).
Il fatto che anche regioni che sono nella parte bassa della classifica del residuo fiscale, in pratica che ricevono dalla redistribuzione delle tasse più di quanto ne ricevono in cambio in termini di servizi può spiegarsi dia un lato con la maggiore discrezionalità di indirizzo della spesa di ciò che resterà, dall’altro con velleità autonomistiche.
Vogliamo qui concentrarci su cosa comporterà l’Autonomia differenziata nel campo dell’istruzione. Se il passaggio alle regioni di ambiti di competenza dello Stato fa parte della tradizione della Lega, non si può negare che la matrice legislativa di tale progetto è da ricercarsi nel Decreto Bassanini del 2001, che già contemplava un decentramento dei servizi, ivi compreso quello scolastico e nell’Autonomia Scolastica, introdotta nel 1998 dalla riforma Berlinguer.
Quali scenari nella scuola possono allora prospettarsi con l’autonomia differenziata? Dalle bozze di intesa, soprattutto per Lombardia e Veneto, risultano le molteplici competenze attribuite alle Regioni: dalla gestione, all’assunzione del personale scolastico (dai dirigenti al personale Ata), dall’offerta formativa all’insieme dell’attività didattica, dai sistemi di valutazione, all’alternanza scuola-lavoro (mutata nel nome, ridotta nella quantità di ore, ma rimasta nella sostanza).
Se attuata, sarebbe la fine di un sistema unitario d’istruzione e di diritto allo studio. All’inevitabile aumento del divario tra nord e sud corrisponderanno istituti e studenti di serie A e di serie B; in scuole estremamente diversificate per programmi, per strumenti e per risorse il valore legale del titolo di studio si svuoterà di senso; si realizzerà il vecchio progetto leghista delle “gabbie salariali”, con i salari di alcune aree del nord che cresceranno, o resteranno stabili, e quelli del centro-sud che diminuiranno; le università del Sud (e non solo) chiuderanno e le scuole (già piene di problemi strutturali) diventeranno l’ombra di loro stesse.
Non sarà affatto un vantaggio nemmeno per gli insegnanti delle regioni dalle scuole di serie A. Qualcuno a Nord crede nel “miracolo” di stipendi più alti, ma per quanti passeranno dallo Stato alle regioni è pronto lo stesso tiro mancino che subì il personale non docente che venne statalizzato nel 2000, provenendo dagli Enti locali. Il rischio oggi è lo scomputo degli anni di servizio per tutti, quello in questo caso maturato nello Stato, con l’annullamento dell’anzianità e la sparizione dei “gradoni”, non presenti nel Ccnl per gli Enti locali.
Come fermare questo processo? Solo l’informazione e il dibattito, ma soprattutto la mobilitazione unitaria dei lavoratori, dei cittadini, dei sindacati e delle associazioni professionali può fermare questo progetto disgregatore, che cela, dietro le rassicuranti proposte di efficienza e merito, un modello di istruzione, cultura e società basato sulla disuguaglianza e sulla concorrenza.
CGIL, CISL, UIL, SNALS e GILDA si sono venduti per vaghe promesse e un piatto di lenticchie sul contratto, del quale non si parlerà che dal 2020. Ma la questione fondamentale resta la regionalizzazione di Scuola ed Università, rispetto alla quale non c’è alcun accordo serio, tanto che non si affronta minimamente il cavallo da battaglia della Lega, richiesto dalle Regioni Veneto e Lombardia e cioè la gestione regionale del personale.
L’intesa fra i sindacati e governo apre la strada ad un’ approvazione veloce del peggiore punto del contratto del governo pentalegato. Il governo in questione è nel frattempo caduto, ma, come è facile immaginare, non c’è nulla di buono da aspettarsi in merito dal nuovo, dal momento che il progetto di regionalizzazione è pressoché bipartisan.
Effe Zeta