L’ultima farsa della “transizione green” è andata in scena a Glasgow e si è risolta con il classico nulla di fatto. Fra il Bla bla bla della Thunberg, ripreso finanche da quel “mostro di oratoria” di Boris Johnson (attualmente famoso per aver improvvisato uno speech su Peppa Pig non raccapezzandosi più con le carte di un discorso che avrebbe dovuto tenere ad una conferenza con gli industriali del Regno Unito), la conferenza di Glasgow è naufragata, si dice, per colpa delle economie emergenti. Il tam tam mediatico incentrava la questione su un discorso di apparente buonsenso ma che, a volerlo soltanto un attimo approfondire, palesa tutta la sua insulsa fallacia.
Il discorso si incentra su una sorta di rivendicazione della possibilità di inquinare e suona più o meno così: “Voi avete inquinato per oltre 70 anni e ora volete essere verdi, lasciateci crescere e poi ne parliamo”. Tagliato con l’accetta, certo, ma il succo è questo ed è un grosso alibi che nasconde tutto dietro un ipotetico diritto di taluni paesi all’industrializzazione. Nelle righe che seguono tenterò di fare un po’ di chiarezza su questo punto, senza ovviamente avere la pretesa di spiegare come va il mondo a chicchessia.
Cercherò in particolare di mettere in fila qualche dato saliente per capire chi produce veramente e dove: l’ipotesi al vaglio in questo articolo è che i paesi riluttanti ad accettare le drastiche riduzioni di CO2 sono in realtà paesi che hanno messo a disposizione il loro territorio alla produzione estera. Cina e India sono quelle che maggiormente stanno in questo tipo di gioco, seguite da Vietnam, Corea del Sud, Taiwan e, ultimamente, anche alcuni stati africani. Il tutto però dipende da quanto territorio si rende disponibile per ogni stato: è decisamente ovvio il fatto che India e Cina possano mettere a disposizione milioni di chilometri quadrati mentre gli altri hanno una disponibilità più limitata.
Proseguendo su questa ipotesi è interessante notare quante controllate estere operino, ad esempio, in India e quanta parte dell’indotto lavori più o meno direttamente per queste imprese. Ci sono attualmente circa 4900 imprese straniere registrate in India delle quali 3374 risultano operanti e attive al giugno 2021.[1] Nell’immediato futuro tale presenza potrebbe aumentare in maniera assai massiccia. Tra le possibilità c’è quella che vede la Cina perdere la sua etichetta di hub manifatturiero preferito sia a seguito del coronavirus, sia per l’aumento dei costi del lavoro. Infatti, le statistiche redatte dal South China Morning Post mostrano un aumento, già a partire dal 2018, della diversificazione tra le importazioni degli USA nelle quali spicca un +50% per i prodotti provenienti dal Vietnam ed un +30% per quelli da Taiwan.
Taiwan e Vietnam, per quanto dotati di sistemi industriali di tutto rispetto, non possono però competere coi volumi potenziali indiani. Nuova Delhi non sta sicuramente a guardare e già dal 2014 aveva varato il programma “Make in India” per attrarre un maggior numero di aziende internazionali sul proprio territorio. Mutuando la strategia dal vicino colosso cinese, con la creazione di ZES, nuovi porti e dotando le aree strategiche del paese di infrastrutture atte ad ospitare attività produttive.[2]
Circa 1.000 aziende straniere sono attualmente impegnate per trovare accordi a vari livelli con le autorità indiane per trasferire armi e bagagli dalla Cina: almeno 300 di queste aziende stanno attivamente perseguendo piani di produzione in settori come cellulari, elettronica, dispositivi medici, tessili e tessuti sintetici. Questo la dice lunga su quanto realmente ci sia di genuino nelle affermazioni circa il diritto a divenire paesi cosiddetti “sviluppati”.
Rinviamo alla copiosissima bibliografia esistente sul significato di sviluppo e le contraddizioni della crescita economica, che chi legge queste pagine ha già da tempo assunto come problematica di fondo del conflitto capitale-natura. Questi pochi dati sono invece molto utili per capire cosa realmente stia bollendo in pentola e, per non proferire affermazioni lapidarie, mi sia consentito prendere la questione da un altro punto di vista: chi ha l’interesse, (tutto l’interesse) affinché si possa continuare a produrre senza badare troppo alle emissioni.
Introdurrò la questione citando ciò che disse un docente del dipartimento di economia della Northeastern University di Boston durante una conferenza sulla cleen-tech energy che mi colpì non poco per la schiettezza e la nonchalance. Questi all’interno di una discussione su green e non green (premesso: era il 2016) disse senza scomporsi: «Interesting, but we are great hypocrites! We all know all too well that to be green here we have to be brown elsewhere» [«Interessante, ma siamo dei grandissimi ipocriti! Sappiamo tutti fin troppo bene che per essere green a casa nostra dobbiamo inquinare altrove»). Ed è proprio questo il punto.
L’occidente che si fa green e che investe una cifra mai neanche immaginata nella cosiddetta conversione verde lo fa in quanto ha la certezza che può continuare indisturbato a produrre col “metodo classico” altrove. Non è però solo lo Zio Sam ad avere crescenti interessi sull’India e non è solo l’India la meta preferita per la manifattura e tutte quelle operazioni energivore e ad alto impatto ambientale: va rammentato che non è solo la CO2 a far danni, l’India rappresenta però il maggior attrattore sia per il basso costo di produzione sia per la disponibilità di siti da industrializzare e con un sistema socio-politico che ben si presta a questo scopo.
In aggiunta alla collocazione geografica, ci sono una serie di altre brillanti trovate delle società occidentali, specialmente quelle del Nord America (non si nomina spesso il Canada ma i canadesi non sono santi neanche loro) che, attraverso un serie di magheggi riescono a ripulirsi la coscienza ecologica presentandosi come verdi e pulite. Basta ad esempio che siano basso emissive in patria per avere sovvenzioni, sgravi fiscali, finanziamenti, premi e tutto il carrozzone dell’ecologismo liberista che ben conosciamo.
In questo senso appare ancor più significativo il meccanismo del cosiddetto “trade in Tasks” che sorregge tutto il vantaggio competitivo reso disponibile dall’infrastruttura della global economy.[3] Il meccanismo è abbastanza complesso e per chi ha voglia di approfondire ci sono gli studi di Grossman e Rossi-Hansberg ma, semplificando, possiamo dire che, oggi come oggi, più che sul cosa si produce si guadagna sul dove lo si produce. Riducendo i costi e aumentando i profitti, in pratica si ottimizza il vantaggio competitivo incentrato sull’aumento di guadagno per unità di prodotto. Molte aziende delocalizzano le fasi produttive più onerose (spesso in termini di lavorazioni pericolose, ad alto rischio e ad elevato impatto ambientale), esattamente lì dove nessuno si lamenta e nessuno protesta per morti, sfruttamento e inquinamento o, se lo fanno, si risolve la vertenza a fucilate ad alzo zero sui manifestanti.
Quindi dietro il presunto diritto alla crescita e allo sviluppo c’è sempre la lunga mano assolutamente visibile e ben nota del mercato occidentale che deve spremere ogni oncia di guadagno lì dove si può far finta di non vedere.
J. R.
NOTE
- Cfr. https://www.corporate-cases.com/2021/07/number-of-foreign-companies-in-india.html
- Cfr. JR “Nuovi equilibri europei” per una disamina sulle ZES e il loro significato geopolitico, in UN, 2021, url: https://umanitanova.org/nuovi-equilibri-europei/
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Cfr. JR, “Logi(sti)camente Capitale”, in UN, 2019, https://umanitanova.org/logisticamente-capitale/