Salvatore Laneri, La parola in azione. Poesia e prassi antagonista negli scrittori antigruppo (1968-1975), collana Letteratura libertaria, n. 25, Sicilia Punto L, pagg. 288, euro 20.
L’Antigruppo è stato un fenomeno culturale nato in Sicilia nel 1968. La parola in azione: poesia e prassi antagonista negli scrittori antigruppo (1968-1975) vuole delineare una storia di questo movimento attraverso i filtri della parola antagonista e dell’azione letteraria, accostati in ragione di un’iniziativa che ha voluto fare della letteratura uno strumento di lotta all’autorità culturale, sociale e politica di quegli anni. Procedendo in un’analisi che si sofferma tanto sui testi quanto sulle pratiche contestatarie, lo studio vuole fare emergere i caratteri peculiari di questa pagina sbiadita della cultura antagonista italiana, sicuramente per comprendere le ragioni della sua presunta scomparsa, ma anche per ribadire che è proprio a partire dalla libera diffusione delle idee che è possibile immaginare una comunità umana fondata sulla giustizia sociale e la libertà degli individui; adoperandosi affinché essa si realizzi il prima possibile. Di seguito rielaboro alcune considerazioni più ampiamente illustrate nel capitolo Dentro e fuori il caos: a proposito di poiesis e praxis antigruppo.
La sistematicità della polemica antigruppo appare talmente pervasiva da contemplare il categorico rifiuto di tutte le possibili forme di dominio culturale e politico. Eppure, persino la stesse definizioni di “movimento” o “avanguardia” sembrano non corrispondere esattamente ai caratteri autodisintegranti di un fenomeno sociale e letterario che per principio (e sin dal nome) rinnega il concetto di “gruppo” chiuso.
In tal senso sembra esprimersi Elvezio Petix, quando afferma che «l’ANTIGRUPPO non è una corrente letteraria-socio-politica in senso stretto, ma l’insegnamento di un modo di essere letterari nel mondo di oggi».[1] Essere antigruppo, sviluppando le considerazioni di Petix, non vuol dire dunque far parte di una struttura che si batte per specifici traguardi letterari o politici, ma piuttosto assumere un modus operandi di permanente contestazione antiautoritaria.
Il difficile equilibrio tra il rifiuto del gruppo (in nome di una libertà individuale definita imprescindibile per l’attività culturale) e la realizzazione di progetti politico-letterari puntuali (a salvaguardia delle peculiarità ideologiche ed estetiche di ciascuno scrittore) potrebbe pertanto risolversi nella definizione di un “antigruppo di affinità” tra intellettuali, artisti e scrittori impegnati in una polemica che si realizza nel complesso rapporto tra poesia e prassi, parola antagonista e azione letteraria.
L’operazione artistica è intesa dagli scrittori antigruppo in quanto «l’unico modo di impegnarci nella lotta di classe, come unico mezzo di guerriglia nostro per un mondo nuovo»[2] ed in ragione di ciò la stessa attività letteraria assume un valore militante la cui legittimità risiede nel conseguimento di una pratica ad essa adeguata. È nell’incontro tra prassi e poesia che si possono pertanto rilevare i connotati antagonisti del fenomeno anti, introdotti in quelle urgenze locali che stimolano «la nostra forma di lotta».
Gli scrittori anti in Sicilia credono nel valore creativo della polemica e della provocazione rivoluzionaria, nonché nella necessità di un continuo dialogo con le masse popolari, «ed ecco perché essi amano i recitals in piazza al contatto diretto del popolo più umile».[3] Per questo motivo i ricorsi programmatici a una pratica culturale sotterranea (recital, poesie murali, azioni teatrali) e a elaborazioni eso/anti/altereditoriali (ciclostili, riviste a stampa, antologie cooperativistiche) costituiscono la soluzione più idonea a una poiesis libertaria che, senza una praxis coerente, rimarrebbe carta stampata da introdurre nel mercato editoriale.
Quella libertaria è una componente sostanziale del fenomeno anti, promuovendo uno spazio d’intervento unitario per le diversità estetiche e ideologiche dei singoli scrittori. Si tratta di un progetto ambizioso, che cerca di rispondere alle esigenze personali in conflitto con le dinamiche del gruppo: “antigruppo” come campo d’azione, atteggiamento di distacco critico, attitudine alla polemica in quanto complesso di quelle dialettiche finalizzate alla comprensione della realtà e alla risoluzione provvisoria o definitiva delle ingiustizie. Polemica come spazio politico fondato sulle possibilità dell’espressione artistico-letteraria, ma al tempo stesso come prassi politica di adesione alle masse, il cui elemento fondante è l’individuo in contestazione contro ogni sovrastruttura o potere costituito: l’artista, cosciente della propria responsabilità politica, che fa parte del popolo e il popolo stesso raccolto nelle conseguimento delle rivendicazioni collettive, entrambi posti in uno spazio di libertà.
In una lettera del 6 luglio 1417, Francesco Barbaro elogia l’amico Poggio Bracciolini per le sue ricerche erudite, riconoscendolo tra coloro «che più volte hanno fornito lustro e sostegno alla Repubblica delle lettere».[4] Si tratta della prima menzione conosciuta dell’espressione “Repubblica delle lettere”, intesa nel senso di comunità dei dotti e insieme complesso del sapere universale quale loro interesse comune.
Pur ponendo la libertà individuale a fondamento politico di questa presunta struttura transnazionale, sin dal Cinquecento il progetto di uno Stato delle scienze e delle lettere appare debole e non privo di contraddizioni; è proprio in tal senso che Christian Loeber, nella Dissertatio politica de forma regiminis Reipublicae litterariae (1708), tenta di giudicare l’ipotetico carattere politico di tale società letteraria, cercando di valutare al contempo la forma di governo che più si adegua alle prerogative della comunità intellettuale universale.
La sua prima constatazione contempla prospettive politiche spiazzanti: la società letteraria non ammette alcun potere supremo e pertanto non ha alcuna forma di governo, ma fruisce di una libertà totale (…) perché nessun uomo può opprimere l’intelletto né con la legge né con la forza; poco dopo, a conclusione di queste riflessioni, Loeber può infine affermare che questa società letteraria «non presenta in sé una gerarchia fra padroni e sudditi; pertanto non si può dirla propriamente né repubblicana né democratica e ancora meno aristocratica (…). È una società libera (…) da ogni forma di potere e di regime umano, non soggetta all’ordine dei magistrati né a quello dei professori».
Più avanti, l’autore tiene a sottolineare l’estraneità dei magistrati-censori al corpo intellettuale costituente la presunta Repubblica delle lettere e a partire da ciò può ribadire la distanza che separa un progetto di comunità culturale transnazionale da una forma statuale di tipo repubblicano: «Visto che la repubblica implica sovranità e che la società dei letterati non presenta in sé alcun potere supremo, anzi, (…) ignora qualunque forma di potere, essa non è una repubblica».
Ottant’anni prima della rivoluzione francese, ci troviamo al cospetto di un’idea di comunità transnazionale il cui autogoverno non contempla la presenza del potere costituito (neanche attraverso la delega) e di un conseguente organo di controllo interno. Giustificati da un sentimento di libertà fondata sulla ragione e la comunanza d’intenti, i caratteri ideali di questa società intellettuale universale superano in anticipo le moderne applicazioni parlamentari e costituzionali del concetto di democrazia. Alla luce dei progressi del pensiero politico moderno, il concetto di respublica litteraria assume sin dal Settecento i requisiti di un modello antiautoritario ancora privo di riconoscimento politico: in anticipo su un’elaborazione autenticamente ideologica, agli occhi di Loeber la repubblica delle lettere costituisce di fatto l’espressione di un autogoverno libertario e intellettuale che superando il concetto di repubblica potrebbe assumere il nome di “anarchia delle lettere”.
Nel contesto novecentesco, l’operazione antigruppo costituisce un ulteriore tentativo di organizzazione culturale fondata sulla libertà dei singoli operatori. D’altra parte, se il germe di un ordinamento libertario e antagonista della cultura nasce in un periodo di favorevole dispersione del potere – l’Umanesimo delle corti e della Riforma protestante – esso diventa urgenza sociale nel secolo che vede l’affermazione del primato capitalistico sulle dinamiche politiche e sugli orientamenti della stessa produzione culturale.
Di fronte a un potere sempre più tentacolare, anche una nuova organizzazione degli scrittori potrebbe fondarsi sull’affermazione della dispersione culturale quale alternativa alla struttura piramidale imposta dal mercato letterario di stampo neocapitalistico. Una dispersione positiva, nel cui smarrimento è possibile individuare i termini di un ordine antiautoritario.
Una nuova anarchia letteraria può emergere dunque dalla raccolta di tutte quelle voci escluse dalla mercificazione culturale ed il rifiuto del “gruppo” – o l’affermazione del negativo che sta a fondamento del movimento antigruppo – ripropone il tentativo di un’organizzazione internazionale degli scrittori in chiave libertaria, in una soluzione di continuità che si palesa in apertura al numero unico della rivista palermitana «Anti», in cui si afferma che «in letteratura (…) la repubblica è cosparsa di anti isolati l’uno dall’altro: di narratori, saggisti, poeti, traduttori, critici, autori cinematografici e teatrali, non collegati a centri di potere editoriale»; altrove si afferma che sostenere la libertà espressiva in contrapposizione all’applicazione delle leggi di mercato sui prodotti culturali vuol dire promuovere l’«anarchia della parola».[6]
Un’anarchia delle lettere può essere il riflesso di una condizione di massima libertà creativa, il campo d’azione più adeguato a un’idea di letteratura per la quale «è nella sostanzialità del costrutto cogitativo, nella partecipazione vitale della parola, che si edifica una poesia di volontarietà innovatrice». Essa risponde al bisogno di trovare uno spazio di agibilità per «un atteggiamento anarchico invece di una posizione letteraria stabilizzata e autoritaria»,[7] promuovendo una formula all’interno della quale anche «i peggiori scrittori, i balbuzienti suonino pure la loro campana imparando da quel suono il linguaggio».
Sia in termini pratici sia poetici, l’operazione antigruppo promuove un’alternativa concreta ai modelli di produzione culturale neocapitalistica, costituendo un atto di resistenza nei confronti dell’intelligencija nazionale e delle sue espressioni di dominio editoriale e accademico. L’anarchia delle lettere, rifiutando tanto il primato della delega culturale (incarnata dall’intellettuale-vate e dai professionisti della cultura) quanto la complicità nei confronti dell’élite intellettuale (i movimenti neoavanguardistici fagocitati dalla mercificazione editoriale) propone una prassi letteraria che sia autentica espressione delle differenze costituenti la complessa varietà umana: una letteratura che si nutra di rapporti egualitari e raccolga le voci della strada, accettando le possibilità espressive di ognuno e, nello specifico della poesia, facendosi strumento di svelamento delle ingiustizie e punto di partenza per una prassi propriamente rivoluzionaria.
Salvatore Laneri
NOTE
[1] E. Petix, Tematica e linguaggio, in «Trapani nuova», XVII (1975), n. 4, p. 3.
[2] C. Cane, La nostra forma di lotta, in Cane C., La sfida cit., p. 1.
[3] P. Billeci, Un discorsetto «Anti» mai pronunciato, in «Trapani nuova», XIX (1979), n. 9, p. 3.
[4] «Qui huic litterariae Reipublicae plurima adjumenta atque ornamenta contulerunt»; Waquet F., Che cos’è la Repubblica delle lettere?, in Id., Bots H., La Repubblica delle lettere, il Mulino, Bologna 2005, p. 12.
[5] AA.VV., Perché ANTI è noto a tutti, in «Anti», I (30 marzo 1971), n. 1, p. 1.
[6] V. Di Maria, Habemus virgam suculatam in interiore civellone, in AA.VV., Antigruppo 73 cit., vol. I, p. XV.
[7] N. Scammacca, I ventun punti, in AA.VV., Antigruppo: una possibile poetica cit., p. 26.