Ancora otto marzo. Ancora una giornata che vede animarsi in tutti i modi possibili le piazze e le strade. Un otto marzo che vede marcare la data anche con azioni di sciopero, come da qualche anno avviene in vari paesi del mondo, a voler segnare, pure tra mille difficoltà, un momento di rottura. Perché una giornata di convergenza attiva sulle questioni di genere serve a marcare la necessità di spezzare una catena di giornate in cui la furia patriarcale e sessista non cessa.
Qualcuno continua ad arricciare il naso e parla di ritualità, dicendo che una giornata non conta niente, che l’otto marzo deve essere tutti i giorni. Magari ci potessimo permettere la ritualità, magari ci potessimo ricordare dell’otto marzo solo per un giorno.
La quotidianità segnata dalla cultura patriarcale e dal sessismo è una costante contro cui ci troviamo a lottare tutti i giorni, ora più che mai, perché l’emergenza sanitaria ha fatto esplodere, semmai ce ne fosse stato bisogno, le contraddizioni sociali esistenti, enfatizzando i problemi e rendendoli ancor più drammatici.
La divisione del lavoro su base sessista vede le donne largamente presenti in molti settori lavorativi cosiddetti di cura, da quello sanitario, alla scuola, ai servizi di assistenza. E ovunque, anche in settori non “femminilizzati”, migliaia di donne sono comunque addette ai lavori più esposti, quelli di pulizia, igienizzazione, sanificazione, nelle fabbriche come nelle banche.
In questi lunghissimi mesi le strutture socio sanitarie, gli ospedali, le case di riposo, i centri di accoglienza, i vari luoghi di lavoro così detti “essenziali”, hanno visto riversare sul personale, composto soprattutto da donne, un’enorme esposizione a rischi e contagi, con misure di sicurezza spesso inadeguate, con imposizione di turni massacranti, con ricorso massiccio al precariato, giustificato una volta di più dall’emergenza. E proprio nelle strutture sanitarie l’emergenza pandemica si è articolata in chiave reazionaria e sessista anche per l’utenza, imponendo, soprattutto alle donne e alle soggettività non conformi, restrizioni nell’accesso alle cure e nella libertà di scelta. Con poche eccezioni, si è assistito ad una diffusa contrazione o chiusura di reparti di maternità e punti nascita, per non parlare dei consultori. Per “praticità di gestione” sono aumentati i parti cesarei; alcuni ospedali hanno sospeso la pratica dell’aborto; sospesi in molti casi anche i servizi di sostegno medico-farmacologico alle persone trans in transizione. Cause di forza maggiore? Forse no, se si mette in relazione quel che succede nelle strutture sanitarie con quel che succede fuori: attacco generalizzato alla libertà di abortire, Regioni che deliberano di non attuare le linee guida sull’aborto farmacologico, farmacie che si rifiutano di vendere la pillola del giorno dopo, mentre le associazioni fasciste degli antiabortisti rinominatisi pro life impazzano e promuovono campagne invasive. Un attacco generalizzato, dalla Polonia, Agli Stati Uniti, al Brasile, ma che arriva preciso anche a casa nostra, nelle Marche, nell’Umbria, oltre che in tutti i luoghi dove l’obiezione di coscienza imperversa. Quello della sanità è uno dei tanti esempi in cui la pandemia è funzionale a ridefinire in senso più marcatamente autoritario, patriarcale e sessista l’impostazione sociale, e la questione spesso si gioca sul corpo delle donne, sulla restrizione della loro autonomia nelle scelte riproduttive e di salute sessuale.
Ma ovviamente i piani sono multipli.
Dai dati ufficiali sulla disoccupazione , aumentata fortemente in questo periodo, emerge che le donne rappresentano il 70% di coloro che hanno perso il lavoro e il prossimo sblocco dei licenziamenti inasprirà sicuramente la situazione. Questo per quanto riguarda il lavoro che emerge, ma sappiamo quanto di sommerso ci sia nel lavoro delle fasce sociali più deboli e precarizzate, quelle che non bucano lo schermo occupato dalla disperazione dei vari padroncini. La ridefinizione del lavoro, che ha visto, soprattutto per le donne, una enorme espansione dello smartworking, ha intensificato lo sfruttamento, dilatando all’inverosimile l’orario di lavoro, rompendo meccanismi aggregativi e sindacali, scaricando costi su chi lavora, ma anche chiamando ad un multitasking inesauribile chi in casa svolge un ruolo imposto dalla divisione sessista del lavoro, cioè le donne.
Le case sono divenute per molte, oltre che il luogo dell’accudimento non retribuito, a costo zero per il capitale, anche il luogo del lavoro salariato, sfruttato più che mai.
Per molte altre ancora, le case sono state il luogo della tortura, della violenza, dei maltrattamenti, inferni dove le dinamiche di quelle famiglie tanto decantate dai difensori della vita e del tradizionalismo generano comunemente oltre l’80% dei femminicidi e la quasi totalità delle violenze di genere. Perchè questo è la famiglia patriarcale, luogo gerarchico di divisione sessista del lavoro basato sul dominio dei corpi. La perdita di autonomia economica dovuta alla disoccupazione e alla ulteriore precarizzazione ha murato dentro le case e blindato dentro le famiglie, così come il lockdown aveva fatto, una moltitudine di donne, di soggettività non conformi, di giovani, di persone a cui è stata negata l’autonomia e, in molti casi, anche la possibilità di uscire da situazioni di violenza.
Le cronache sono ingombre di sangue, lacerante la sequenza dei femminicidi che stanno intensificandosi in modo incredibile, crudelmente trasmessi dalla narrazione tossica dei media. Mentre ci si indigna per le frasi sessiste rivolte alla Meloni, ritenendo che non sia elegante violare il bon ton quando in ballo ci sono personaggi che rivestono ruoli apicali, come una politicante e un baronetto universitario, si inondano le cronache con le consuete frasi sessiste quando si tratta di persone comuni, di donne e di soggettività che magari cercano di uscire da quell’inferno chiamato famiglia che la medesima Meloni decanta tanto, sostenuta dai vari Pillon di turno, dai vescovi e da inesauribili bande di mostri. Ma si sa, l’emancipazione è un lusso per poche…
Di fronte a quello che succede sono sempre più insopportabili le crociate familiste della destra, così come le uscite in pinkwashing di Bergoglio, ma al tempo stesso vanno denunciate e smascherate anche le scelte politiche condivise praticamente da tutto l’arco istituzionale.
La parità di genere diventa la miserabile foglia di fico con cui il governo vara misure a sostegno unicamente delle imprese, come gli sgravi fiscali per gli imprenditori che assumono donne o il sostegno alla autoimprenditorialità femminile previsti nel Recovery Plan. Di analogo tenore anche quanto disposto dal Family Act, che si regge su un rigido impianto familistico e sessista nelle finalità di conciliazione dei tempi delle donne (una riaffermazione del multitasking!) e nel sostegno economico che, per quanto esiguo, è pensato su base familiare, escludendo le soggettività così come vengono esclus* coloro che sono priv* di un contratto di lavoro di almeno due anni, oltre che di un permesso di soggiorno di lungo periodo se migranti.
E’ questa la gabbia in cui siamo costrett* a vivere, fatta di relazioni di dominio, a livello personale come lavorativo, relazioni santificate dalla religione e incatenate dalla reazione. Qualcosa da cui sembrerebbe impossibile uscire, ma che nonostante tutto non riesce a schiacciare la voglia di libertà, di autonomia, di autodeterminazione. In questi mesi le lotte non sono cessate; dalla sanità, alla scuola, alla logistica tante lavoratrici hanno fatto sentire la loro voce, hanno intrapreso azioni, hanno scioperato. Così come non sono cessate le denunce e le proteste costanti contro le politiche reazionarie, come non è cessata l’attività, l’impegno, la costruzione di reti di solidarietà e di mutuo appoggio, la presenza continua di tante. Una presenza che, siamo sicure, popolerà ancora una volta le piazze dell’otto marzo.
Patrizia Nesti