Innanzitutto ringrazio Visconti che, con il suo articolo iniziale e questa sua risposta alle mie critiche, permette un dibattito ed una chiarificazione dei problemi effettivi e della validità degli strumenti concettuali con cui li affrontiamo. Giustamente Visconti dice che il suo testo di partenza non era “certo un trattato sulla crisi generale del capitalismo” ma dedicato ad un tema specifico, comunque affrontato “con strumenti di analisi (…) [che] si rifanno alla marxiana critica dell’economia politica”. Infatti, di là dell’aspetto di descrizione empirica del fenomeno oggettivo della crisi della Grande Distribuzione Organizzata, la mia attenzione critica si era rivolta proprio alla validità di tali strumenti di analisi.
Rispetto al testo precedente, questa volta Visconti sottolinea maggiormente che “la sovrapproduzione, in altre parole lo squilibrio fra domanda e offerta, non è la causa della crisi generale del capitalismo, ma un effetto di altre cause che vanno ricercate nel settore della produzione, cioè nella formazione e accumulazione del capitale” e si rifà in modo ancora più esplicito alle tesi di Baran e Sweezy che “ipotizzano uno squilibrio permanente tra l’aumento della capacità produttiva e quindi dell’offerta e l’aumento della domanda, in altre parole una situazione cronica di sovrapprodu zione”. Le tesi sottoconsumiste che “ritengono invece che la sovrapproduzione sia effettivamente la causa della crisi capitalistica” vengono perciò criticate da questo punto di vista.
Cerchiamo ora di spiegare quali sono i limiti di quest’approccio. Marx nella seconda metà del XIX secolo scrive “Il Capitale”, testo che ha come sottotitolo “Critica dell’economia politica”. Oggi in italiano il termine “critica” ha avuto una modificazione semantica che lo ha appiattito verso il significato di “giudizio negativo”, perdendosi molto il significato originario di “studio, analisi”. Nel suo testo, Marx compiva infatti un’operazione molto interessante e valida: studiare la nascente scienza economica per dotarsi di strumenti utili a comprendere le dinamiche in cui si trovavano immerse le lotte operaie ed, in genere, le società che andavano industrializzandosi sotto il controllo dei possessori/controllori di grandi masse di capitali.
L’economia politica che egli studiava er a, forzatamente, quella che si era sviluppata fino ai suoi tempi, grosso modo da Smith a Ricardo, la cosiddetta “economia classica”. Il problema è che egli muore nel 1883: dopo di lui l’oggetto del suo studio ha avuto un’evoluzione notevole rispetto all’economia classica di cui era stato probabilmente anche il maggior esponente. Giusto per citare solo quattro grandi momenti, c’è stato il marginalismo, la macroeconomia keynesiana, Sraffa, la recente antropologia economica (di cui David Graeber è forse l’esponente maggiore). Ora il problema è che per molti compagni pare che il 1883 sia una sorta di data tabù e che qualunque cosa sia venuta dopo sia indegna di essere analizzata criticamente ed ancor meno utilizzata per comprendere le dinamiche del presente, cosa che, in mancanza di adeguati strumenti concettuali, li porta a plateali incomprensioni di determinate situazioni.
Prendiamo ad esempio la seguente frase di Visconti, che vorrebbe descrivere le teorie e le prassi più o meno keynesiane: “[Per] le varie teorie sottoconsumiste (…) la soluzione della crisi deve essere ricercata nell’aumento della ‘domanda aggregata’ sia pubblica sia privata. Il che si può ottenere con politiche monetarie ‘espansive’, come quelle messe in atto dalla FED e dalla BCE dal 2008 a oggi, con l’allargamento del credito al consumo e con una spesa pubblica più o meno in deficit. Ovvero con un aumento del debito sia privato sia pubblico. (…) queste politiche keynesiane furono messe in atto negli anni ’30 (con il new deal rooseveltiano e l’intervento dello stato nell’economia, con le politiche sociali dei regimi fascisti europei, salvo poi sfociare in una guerra mondiale) negli anni ’70, (chi non ricorda l’inflazione a due cifre e i BOT, anche essi con interessi a due cifre) e dopo la crisi del 2008 (con il dollaro a tasso zero e il quantitative easing di Draghi che però ha contribuito più che altro al salvataggio delle banche, assorbendo i loro debiti e i titoli spazzatura).”
Per cominciare, il concetto espresso da Visconti di “domanda aggregata sia pubblica sia privata” è pressoché un ossimoro, dal momento che quell’“aggregata” si riferisce alla totalità delle attività economiche in un determinato contesto: consumi ed investimenti privati più consumi e investimenti pubblici più esportazioni nette (esportazioni meno importazioni).[1] In altri termini, una “domanda aggregata pubblica” o una “domanda aggregata privata” sono concetti senza senso. Inoltre Visconti confonde (non me ne voglia, ma tra le tante cose è esattamente questo che fa la destra economica, ma su questa concordanza tra le analisi marxiane e quelle neoliberiste ci ritorneremo ancora) la spesa pubblica “keynesiana” con la spesa pubblica tout court. Mette, infatti, insieme cose del tutto eterogenee, quali il New Deal, le politiche sociali nazifasciste, l’inizio della “politica dei sacrifici” degli anni ’70 ed le politiche della BCE a direzione draghiana sotto l’unico denominatore di “politiche keynesiane”.
In realtà, una delle caratteristiche della macroeconomia fondata da Keynes erano proprio i principi della propensione marginale al risparmio ed al consumo. In base a questi, una spesa pubblica intenzionata ad eliminare una crisi deve agire in modo da effettuare una redistribuzione della ricchezza dalla parte ricca della società alla parte più povera. Il New Deal e buona parte delle politiche economiche dei trent’anni gloriosi hanno fatto questo, mentre il resto che lui cita l’esatto contrario.
Ho detto che sarei tornato sulla concordanza tra determinate analisi marxiane e quelle neoliberiste e Visconti me ne dà la possibilità, ricitando la fake news per cui negli anni ’70 avremmo assistito “ad un aumento stratosferico del debito pubblico”. I numeri sono numeri e li ho già citati in nota nell’articolo precedente, per cui qui mi limito a sintetizzarli icasticamente: 1967 (anno che si può considerare di massima ampiezza delle politiche keynesiane in Italia) 38,1%; 2017 (dopo almeno quarant’anni di politiche “risanatrici”) 131,6%. Aumento stratosferico del debito pubblico sì, ma dopo gli anni settanta e grazie a politiche redistributrici della ricchezza a tutto favore delle classi ricche. Si, lo so, sono un superficiale e continuo a credere che testi come quelli di O’ Connor fossero fake news o, per essere più esatti, giustificazioni ideologiche “da sinistra” dello smantellamento di tutta una serie di conquiste sociali avvenute durante i trent’anni d’oro.
Qualche nota ora sulla questione sovrapproduzione/sovraccumulazione, cui mi invita Visconti, dicendo che l’ho ignorata del tutto nel precedente articolo. In effetti, la questione ha senso se si resta all’interno della “cassetta di strumenti” marxista, molto meno se si adottano altre prospettive. Prendiamo ad esempio quella che citavo come quarta grande rivoluzione nella scienza economica, l’antropologia economica, che immerge i rapporti economici all’interno dei rapporti sociali complessivi di una società, per cui questi sarebbero indistricabili da molte altre cose ed in particolare dalla violenza (in senso ampio) e/o dalla minaccia dell’uso di essa. La stessa trasformazione concettuale dei rapporti economici nelle astrazioni dell’homo oeconomicus dell’economia politica avrebbe la sua origine, in quest’ottica, da processi di uso e/o minaccia della violenza verso la citazione esplicita del ruolo della violenza nei rapporti economici – un po’ come un violentatore che costringa la vittima a dire che ha desiderato l’atto.
Ora, ammesso che sia in atto un processo di sovraccumulazione dei capitali, in che senso questo porterebbe “necessariamente” ad una sovrapproduzione dei beni? “Sovrapproduzione” è, evidentemente, un concetto relativo: “sovra” rispetto alle possibilità di consumo, dipendente dal livello dei redditi, delle classi popolari, non certo rispetto ai loro bisogni. Se la gente affamata, per usare una metafora classica, ha la pancia vuota, è perché il potere politico ha utilizzato contro di lui tutte le sue armi per renderlo debole di fronte a chi lui stesso – la proprietà privata dei mezzi di produzione è una legge politica, non uno stato di natura – ha permesso di essergli padrone. Tutte le volte che nella storia i rapporti di forza sono state momentaneamente favorevoli – forse sarebbe meglio dire meno sfavorevoli – alle classi subalterne, ogni problema di sovrapproduzione è scomparso come per incanto, anche quando si era fino a quel momento accettata l’idea di una esistente sovraccumulazione del capitale.
Enrico Voccia
NOTE
[1] Vedi http://www.treccani.it/enciclopedia/domanda-aggregata_%28Dizionario-di-Economia-e-Finanza%29/