All’arrembaggio del futuro! Necessità e problemi del superamento del capitalismo.

Il futuro è scomparso nella visione del mondo dominante.

Come scrive David Bidussa, “la dimensione dominante di “presente eterno”, include infatti non solo l’abolizione della capacità di percepire la mutazione, ma anche l’incapacità o il congelamento di una qualsiasi aspirazione di cambiamento”. E più avanti: “Ma senza attesa è possibile pensare a un investimento di miglioramento?”.

La domanda non riguarda solo il movimento anarchico che, come è noto, nel futuro ripone le speranze per un mondo migliore, in cui la solidarietà e la libertà sostituiscano la guerra di tutti contro tutti e l’oppressione e lo sfruttamento che ne derivano. La domanda riguarda la maggior parte delle persone che abitano il pianeta, visto la realtà da incubo che già vivono e che è destinata a peggiorare per le guerre, la fame, le malattie, il mutamento climatico.

L’UNCTAD, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, nel suo rapporto annuale sostiene che gli investimenti diretti esteri sono diminuiti del 10% su scala globale e del 7% nei paesi sottosviluppati. Inoltre, il rapporto rivela una crisi degli investimenti negli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG), con un calo di oltre il 10% nel 2023. Due settori, i sistemi agroalimentari e l’acqua e i servizi igienico-sanitari, hanno registrato un numero inferiore di progetti finanziati a livello internazionale nel 2023 rispetto al 2015, quando sono stati adottati gli SDG.

A questo si affiancano altri dati delle Nazioni Unite che mostrano come la fame, la sete, la mancanza di alloggi e di cure adeguate siano problematiche estremamente urgenti. Nonostante la crescita economica di questi anni, le persone che vivono al di sotto della soglia di povertà, per quanto ridicolmente bassa, sono in crescita. Gli obiettivi dell’Agenda 2030 sono sempre più distanti. L’ambizioso progetto delle Nazioni Unite per sradicare la povertà, diminuendo le disuguaglianze di reddito entro il 2030 non può essere realizzato all’interno del modo di produzione capitalistico.

Lo stesso sistema degli obiettivi di sviluppo sostenibile e degli investimenti diretti esteri non fa altro che asservire i paesi sottosviluppati al cappio del debito: anche ammesso che i soldi vadano effettivamente dove ce n’è bisogno, il paese indebitato sarà costretto ad integrarsi nel mercato mondiale, cioè a produrre quelle materie prime richieste dal mercato, ricavando con le esportazioni i capitali necessari ad onorare le scadenze del debito. In tal modo, sempre più aree saranno sottratte alla produzione di generi alimentari per la produzione, sia perché destinate alla coltivazione per l’industria, sia perché destinate all’estrattivismo.

Nonostante 194 governi facciano parte della Conferenza, nessuno di questi è in grado di impegnarsi per rispettare gli accordi sottoscritti. Anche in questa occasione non vediamo solo l’inutilità, ma anche il danno che fanno i governi. Come diceva Pëtr Kropotkin: “Se si fa regolatore e garante dei diritti e dei doveri di ciascuno, esso perverte il sentimento di giustizia: qualifica reato e punisce ogni atto che offende o minaccia i privilegi dei governanti e dei proprietari, e dichiara giusto, legale, il più atroce sfruttamento dei miserabili, il lento e continuo assassinio morale e materiale, perpetrato da chi possiede a danno di chi non possiede”. Occorre quindi liberarci ad un tempo dei governi e della proprietà privata dei mezzi di produzione.

Le forze produttive liberate dallo sviluppo capitalistico, forze produttive capaci di distruggere il pianeta, sono incapaci a garantire una vita dignitosa per ogni essere umano. Queste forze produttive devono essere sottratte al dominio del profitto individuale, come oggi, devono essere addomesticate, rese mansuete, civilizzate tramite un piano di sviluppo economico. Devono essere sottomesse ad una gestione cosciente delle faccende umane da parte della collettività, cioè a una società socialista.

Il primo passo per far questo è di riconquistare il futuro, la capacità di immaginare una società nuova al di là dell’incubo capitalista. Per sottrarre le forze produttive alla logica del profitto individuale e sottometterle alla libera associazione delle persone è necessario innanzi tutto un atto di immaginazione e un atto di volontà. È necessario ma non è sufficiente: alla volontà va accompagnato un programma preciso per la trasformazione sociale, per il passaggio dal modo di produzione attuale a quello superiore.

Come ha scritto Errico Malatesta: “di ritorno dall’America del Sud e di passaggio per Barcellona, scrivendo sul “Productor” di quella città, richiamai l’attenzione sull’assurdità della credenza nell’abbondanza e cercai di dimostrare che il danno prodotto dal sistema capitalistico non è tanto la creazione di un nugolo di parassiti, quanto quello di impedire l’abbondanza possibile, arrestando la produzione al punto dove cessa il profitto del capitalista. Insistetti sulla questione un po’ dappertutto. (…) quel periodo di illusioni [è] definitivamente superato. Oggi l’esperienza delle carestie ricorrenti e l’esperienza della grande guerra [la prima guerra mondiale, ndr] hanno convinto tutti che, se la potenzialità di produzione del mondo moderno è davvero immensa, la produzione effettiva è insufficiente anche a garantire quel basso livello di benessere a cui il capitalismo costringe i lavoratori. Oggi tutti sono convinti che per avere l’abbondanza bisogna lavorare e molto, e che quindi i problemi del lavoro e della produzione sono i più importanti, in vista di ogni trasformazione sociale”.

A questo proposito riporto le considerazioni di un economista marxista, Ernest Mandel, che all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso tratteggia le problematiche di un’organizzazione della produzione orientata al soddisfacimento dei bisogni sociali anziché al raggiungimento del profitto individuale.

Secondo Mandel le forze produttive di cui oggi (1960) l’umanità dispone permettono di soddisfare i bisogni elementari senza nessuna fase transitoria di accumulazione e di sviluppo ulteriore dell’industria: “Beninteso, bisognerebbe ridistribuire le forze produttive esistenti su scala colossale, convertire l’industria automobilistica in un’industria di trattori e di macchine agricole, orientare l’industria chimica esclusivamente verso la produzione di concimi, materie plastiche per costruzioni e di prodotti farmaceutici, concentrare la ricerca scientifica sui problemi dell’alimentazione, dell’abbigliamento dell’alloggio e della sanità, e consacrare la maggior parte della produzione mondiale ai paesi sottosviluppati.”

L’autore poi individua due ostacoli insuperabili al soddisfacimento di bisogni sulla base produttiva esistente.

Innanzitutto, per una parte non trascurabile dell’umanità, i bisogni attualmente soddisfatti superano assai largamente questi bisogni elementari. La maggioranza degli abitanti dei paesi industrialmente avanzati non si accontenta affatto di mangiare, di bere, di vestirsi sobriamente, di essere alloggiata alla meglio, di permettere ai propri figli di imparare a leggere e scrivere e di curare la propria salute in modo sommario. L’espansione universale della produzione e della circolazione di merci da molti secoli a questa parte ha allargato il suo orizzonte al di là dei confini ristretti della sua regione o del suo paese natale. Ha determinato una universalizzazione dei bisogni, che, in fondo, corrisponde a una prima presa di coscienza delle possibilità illimitate di un libero sviluppo umano. Gli abitanti dei paesi industrialmente avanzati desiderano abbellire le loro abitazioni, variare i loro indumenti, liberarsi dal pesante lavoro domestico (riscaldamento, lavatura della biancheria pesante ecc.) divertirsi, viaggiare, leggere, imparare, premunirsi sempre di più contro le malattie, prolungare sempre di più la loro esistenza, istruire in modo sempre più adeguato i loro figli.

Il soddisfacimento di questi bisogni fondamentalmente sani – cui, senza dubbio, l’industria mercantile ha aggiunto bisogni artificiali o artificialmente accresciuti – è in parte assicurato nei paesi capitalisti più avanzati. Eliminare radicalmente i settori industriali che permettono di soddisfare questi bisogni non elementari, significherebbe già provocare una caduta del livello di vita di una buona parte degli abitanti dei paesi industrializzati. Si tratterebbe in un certo modo di un “socialismo della miseria”, che sostituirebbe al razionamento tramite il portafoglio un razionamento tramite la tessera o l’assortimento limitato di prodotti. Invece di permettere uno sviluppo universale delle possibilità umane, un “socialismo” di questo genere produrrebbe un uomo ancora più limitato e meno soddisfatto dell’abitante medio dei paesi capitalisti avanzati odierni.

Inoltre, anche gli abitanti dei paesi sottosviluppati hanno preso coscienza delle enormi possibilità della tecnica contemporanea, grazie all’”effetto dell’imitazione e della dimostrazione”. Desiderano ardentemente raggiungere lo stesso livello di civiltà e di comodità degli abitanti dei paesi avanzati. Come questi ultimi, non sono affatto disposti ad accettare un socialismo ascetico, in cui il razionamento prenda il posto dell’abbondanza.

Ora, le forze produttive attuali sono assolutamente insufficienti a dotare tutta l’umanità delle comodità moderne. Una nuova, forte espansione delle forze produttive è dunque indispensabile per assicurare beni industriali in abbondanza a tutti gli abitanti della Terra. Questa espansione esige certo che la produzione industriale mondiale odierna venga raddoppiata o triplicata. Comporta la necessità di una fase di transizione tra il capitalismo e il socialismo, fase di un accumulazione socialista. Durante questa fase, sulla base della socializzazione dei grandi mezzi di produzione di scambio, pianificazione mondiale dell’economia, può essere raggiunto un grado di sviluppo delle forze produttive (meccaniche umane, il che implica in particolare un gigantesco sforzo di educazione) tale da rendere possibile un’economia che distribuisca beni e servizi in modo da soddisfare tutti i bisogni dei suoi associati.”

Oggi sappiamo meglio di quello che sapeva Ernest Mandel sessant’anni fa che il processo produttivo deve essere trasformato per ridurne l’impatto ambientale, e si può raddoppiare o triplicare la produzione di certi beni e servizi, solo riducendo o eliminando quelle produzioni non necessarie o nocive.

Infine, l’attuale livello di civiltà e di agiatezza dei paesi capitalisti avanzati, pur superando il livello miserabile nei paesi sottosviluppati, è lungi dall’essere ideale. Se vi appaiono fenomeni molteplici di sperpero e di inutile lusso e se dal punto di vista alimentare e dell’abbigliamento nei paesi più ricchi ci si avvicina a norme fisiologiche ideali, l’urbanistica, gli alloggi, i trasporti individuali e i trasporti collettivi, l’istruzione media e superiore, le misure sanitarie (innanzitutto la ricerca scientifica, lo sviluppo artistico, l’organizzazione del turismo popolare, la diffusione dei libri in generale) soffrono di un sottosviluppo e di deficienze clamorose”.

La contrapposizione fra il comunismo libertario e quello autoritario non è quindi sul riconoscimento di un’esigenza di una fase di transizione, ma su chi comanda: se il potere deve essere concentrato in un unico punto, il governo operaio, o se deve essere distribuito nell’associazione delle libere comunità di produttori e consumatori. Ancora, se lo sviluppo delle forze produttive è condizione necessaria e sufficiente per il passaggio alla società comunista, o se prima di questo c’è la pratica della libertà e della solidarietà che crea le condizioni, piuttosto che un ammasso più o meno grande di beni e servizi.

A queste domande come movimento anarchico dobbiamo essere capaci di rispondere, per un futuro che potrebbe anche essere prossimo.

Tiziano Antonelli

Related posts