Algoritmi di potere, algoritmi di liberazione

Da sempre l’utilizzo, il monopolio e gli indirizzi della tecnica sono uno dei punti nodali delle strategie del potere e della resistenza ad esso: nulla di strano dunque che queste dinamiche si siano perpetuate anche relativamente alle tecnologie informatiche, particolarmente per ciò che concerne gli indirizzi d’uso e la proprietà esclusiva di determinati algoritmi.

Un algoritmo è un procedimento volto alla risoluzione di un problema attraverso un numero finito e preciso, non ambiguo, di passi elementari, in un tempo accettabile dati gli scopi che ci si prefigge.[1] Si tratta di un concetto fondamentale dell’informatica per due ordini di motivi. Il primo, di ordine teorico, è che su di esso si fonda la nozione di calcolabilità (un problema è calcolabile quando è risolvibile tramite un algoritmo). Il secondo, di ordine tecnico, è che, preso un problema da affrontare tramite un software, la programmazione di quest’ultimo consiste proprio nella codifica di un algoritmo per la sua risoluzione in un programma, scritto in un determinato linguaggio, il quale può essere effettivamente eseguito da un calcolatore.

Ovviamente, è raro che un problema abbia un unico processo di soluzione e quella che un tempo si definiva appunto come la “questione sociale”, nelle sue varie sfaccettature, non fa eccezione; altrettanto ovviamente, le soluzioni a tali dinamiche di potere politico, economico, sociale e culturale possono classificarsi in due grandi categorie: quelle intese a mantenere e/o rafforzare il potere dei dominanti sui dominati e quelle intese a diminuire e/o eliminare questo stesso potere. Nel mondo della terza ed avanzatissima fase della Rivoluzione Industriale le procedure algoritmiche alla base dei software, quando esse hanno a che fare con le dinamiche sociali, sono basate assai spesso sul primo genere di soluzioni – quelle del potere dell’uomo sull’uomo.

In Italia, il caso che ha portato all’attenzione il problema, visto il numero di persone direttamente ed indirettamente coinvolte, si è situato all’inizio dell’attuazione della famigerata “Buona Scuola” relativamente ai meccanismi di mobilità e di prima assunzione a tempo indeterminato dei docenti. Come molti ricorderanno, decine di migliaia di lavoratori si ritrovarono da un giorno all’altro sbattuti ai quattro angoli del bel paese senza una logica apparente e riconoscibile – né di anzianità di servizio, né di titoli, né territoriali – dall’altrettanto famigerato “algoritmo” ministeriale. Un algoritmo che il ministero, invocando il principio del segreto legato alla proprietà privata delle opere dell’intelletto, rifiutò di rivelare. Nel marzo del 2017 il TAR del Lazio diede ragione agli insegnanti, affermando che un ente pubblico che adotta un sistema algoritmico ha il dovere di renderlo palese pubblicandone il codice sorgente, ma oramai il danno era stato fatto.

Se pensate che il problema sia legato solo al rapporto dell’individuo con le grandi istituzioni pubbliche siete fuori strada: per restare nel campo della Pubblica Istruzione, citiamo allora il caso dell’algoritmo che regola i finanziamenti statali alle diverse istituzioni universitarie, algoritmo che comporta differenziazioni tra le varie università, l’adozione o meno del numero chiuso in base ad un calcolo legato alla “sostenibilità” del servizio, ecc. In questo caso, l’arbitrarietà e la discriminatorietà dell’algoritmo sono venute chiaramente alla luce in numerosi interventi parlamentari.[2]
Il fatto che queste procedure discriminatorie, non neutrali ma interessate, siano divenute di pubblico dominio, in Italia come altrove, è legato al fatto che esse erano legate alle attività di un governo operante in una cornice legislativa che garantisce un minimo di trasparenza nella gestione degli atti pubblici. Una trasparenza che viene meno, anche in questi paesi, di fronte a settori dove si invocano questioni di “sicurezza nazionale” e che è del tutto assente in moltissimi paesi del mondo, anzi nella maggioranza.

Lo sviluppo della rete ha fatto poi sì che numerosissime aziende private, in testa il cosiddetto gruppo GAFAM (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), offrano di fatto, in regime di pressoché monopolio, servizi divenuti indispensabili alla vita sociale. Servizi che, per la loro divenuta utilità universale dovrebbero essere pubblici o comunque regolati in maniera non privatistica, partendo dalla pubblicità dei loro algoritmi che, invece, restano coperti dal diritto di autore in maniera ferrea.

Il problema è che qui non si tratta di un libro o di una canzone, ma di algoritmi che sempre più regolano ed indirizzano la nostra vita sociale, l’accesso alle informazioni, il tipo di persone e di idee con cui veniamo in contatto in maniera invasiva, tendendo ad influenzare in maniera crescente la nostra stessa personalità e le nostre scelte.
Molti di noi sono venuti a contatto con la comunicazione che Facebook, la rete social per eccellenza, ci ha fatto di aver cambiato il suo algoritmo. In effetti, nel dettaglio, non conoscevamo quello di prima e non conosciamo quello di adesso: ma, per quello che ha deciso di dirci, è chiara la direzione di marcia che privilegia ora le “echo chambers” (di conseguenza le fake news) e l’istupidimento similtelevisivo.[3]

Ancora più plateale è il caso di Spotify e di Youtube Music. Servizi di streaming musicale direte. Invece no o, meglio, non solo. Dell’algoritmo di Spotify conosciamo anche il nome – Release Radar – e sappiamo che influisce direttamente sull’“ecosistema” della nostra personalità, costruendo l’ascolto presente di ciascuno di noi, adeguatamente classificato, in direzione della previsione/costruzione dei nostri gusti futuri in campo musicale.[4] Gusti che, come tutte le tracce che lasciamo nei servizi GAFAM, saranno venduti a chi ne faccia richiesta e li voglia utilizzare – in questo caso, si comprerà proprio il risultato dell’azione dell’algoritmo nel futuro, il suo indirizzamento in una direzione o nell’altra dei gusti musicali.

Spotify ed Youtube Music però sono le ultime arrivate in questo genere di algoritmi e, data la situazione, certo le meno pericolose: infatti, sono oramai molti anni che la rete è invasa da gruppi di che, utilizzando ampiamente anche agenti software e vendendosi al miglior offerente, tendono a costruire la nostra personalità politica – gli esempi eclatanti si moltiplicano in tutto il mondo ed anche dalle nostre parti.

Prendiamo gli attuali partiti di governo: se è noto l’utilizzo spregiudicato della rete da parte del Movimento Pentastellato, da un lato con la diffusione organizzata e massiva in ogni ambito possibile della rete di notizie (talvolta anche plateali bufale) volte ad indirizzare la personalità politica del maggior numero di persone, dall’altro con la funzione dirigista ed autoritaria della piattaforma “di democrazia diretta” Rousseau che svolge un ruolo di controllo e di indirizzo dei militanti, meno nota ma altrettanto efficace è la “bestia” (sic) di Salvini che svolge sostanzialmente lo stesso ruolo.
L’aspetto libertario della rete è perciò defunto? Niente affatto: gli spazi di libertà, di autoorganizzazione e di diffusione informativa della effettiva realtà delle cose ci sono ancora tutti ed il potere li teme. Occorre però parametrare le nostre azioni tenendo presente che l’avversario è anch’esso presente in questi stessi spazi, ha queste modalità di intervento e si rivolge ai nostri stessi interlocutori.

Enrico Voccia

NOTE
[1] Il concetto di “tempo accettabile”, “ragionevole”, ecc. è, da un lato, difficilmente definibile in maniera precisa, dall’altro, per fortuna, intuitivamente evidente: se finisco in codice rosso al Pronto Soccorso un algoritmo – svolto in uno strumento informatico o nella mente del medico poco importa – volto a decidere quale sia la terapia migliore cui sottopormi deve essere nell’ordine dei secondi; se devo decidere quale persona invitare a cena per un corteggiamento allo scopo di ottimizzare, da un lato, le mie possibilità di riuscita, dall’altro, il benessere della relazione sul medio/lungo termine, il tempo accettabile è nell’ordine delle ore, massimo pochi giorni; se occorre decidere la strategia migliore per contrastare il riscaldamento globale – forse – il tempo accettabile sale a qualche mese.
[2] Vedi ad esempio http://waltertocci.blogspot.it/2017/07/rete-castello-porte-chiuse-ateneo.html.
[3] https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/01/15/sei-motivi-per-cui-il-nuovo-algoritmo-di-facebook-ci-danneggera-tutti/4091744/.
[4] https://www.artwave.it/musica/critica/la-democrazia-diretta-di-spotify/.

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