L’idea dell’amore nella quale veniamo cresciute è quella delle favole: più saremo principesse e più troveremo il principe azzurro. Veniamo incoraggiate a credere nella bontà ineluttabile di questo avvenimento che tutto comprenderà dando un senso alla nostra vita nella creazione di un focolare domestico.
Una principessa è completa solo con il suo principe, o solo nel ruolo di madre e custode della casa, ruolo che le viene assegnato dal suo genere e dalla storia per i secoli dei secoli…amen.
In epoca di pinkwashing in cui tutto viene rivisitato, rivisto, reinventato senza però di fatto mettere in discussione l’assetto fondamentale della struttura di dominio e l’organizzazione sociale, da brave principesse sconfiggiamo il drago pulendo i fornelli. Come ci insegna la pubblicità, seppur il nostro destino rimarrà quello della colf di famiglia, possiamo trovare il riscatto diventando le eroine dell’igenizzazione, le cavalliere (1) della brillantezza degli acciai della cucina.
Quello che ci viene detto è che possiamo lavorare al pari degli uomini, possiamo avere carriere brillanti e pretendere stipendi adeguati in nome di una presunta “parità” purché non dimentichiamo mai cosa siamo prima di tutto, cioè donne e che come tali, in quanto tali, queste cose come la carriera, ecc…. per avere valore sociale e non reprimende, dobbiamo essere in grado di farle in contemporanea con l’essere madri e/o brave padrone di casa!
I caratteri di questo amore
Cerchiamo ora di capire quali sono i caratteri dell’amore a cui possiamo/dobbiamo aspirare.
L’amore che viene incoraggiato è unico, totalizzante ed etero.
Un amore Disney come lo definisce Brigitte Vasallo.
Qualcosa di diverso dalle “semplici” romanticherie che in genere personalmente non disprezzo affatto. Si tratta invece di un amore perfetto, un amore in cui il partner soddisferà ogni nostro bisogno, solleticando in modo complementare ogni nostro desiderio.
Senza ombra di dubbio è un amore basato sul possesso ~ «è il mio uomo», «è la mia compagna, moglie, amante…», «non posso vivere senza di lui/lei», «è un pezzo del mio cuore, del mio corpo…» ~, e quindi sulla gelosia; un tipo di amore proprietarista in cui deve essere garantita l’esclusività e la priorità gerarchica della relazione ~ «tu sei più di tutti», «la mia vita è nelle tue mani», «sei l’unico/a che salverei dalla torre»… ~
È un tipo di relazione in cui siamo immerse fin dal nostro primo vagito. In fondo una delle prime cose che si imparano è a riconoscere i nostri confini corporei e ad estenderli in un continuo gesto di conquista verso ciò che ci circonda, sia esso la tetta materna o il giocattolo o il babbo o tutto ciò che ci insegnano a definire come «nostro» e di nessun altro, secondo uno schema che genera in noi e ci fa riprodurre il concetto di proprietà.
Da dove viene questo modello
Il modello dell’amore a cui si ispira questo immaginario è quello ereditato dalla borghesia del XIX secolo il cui fondamento è l’individualismo più spinto del «si salvi chi può». In una situazione di crisi e fallimento delle più svariate ideologie, da quelle religiose a quelle politiche, la spinta borghese orienta le nostre vite nella direzione nucleare della coppia che diviene il fondamento primigenio della società del modello etero patriarcale.
L’idea è quella che «l’importante è salvarsi noi», noi e la nostra metà sconfiggeremo le avversità della vita.
Lo scopo: il collante dell’unità familiare.
La coppia uomo-donna è l’elemento unitario, la cellula, come è stata chiamata in un certo programma elettorale (sigh!) della società e la relazione che tiene insieme la famiglia, la quale è forse prima di tutto un’unità produttiva, riproduttiva e consumista, che viene infiocchettata nell’idea di un amore eterno, monogamico e privilegiato.
Nella famiglia, che secondo il modello dominante è ovviamente etero, trovano posto i protagonisti dell’unità base: madre, padre e figlio/a, ciascuno/a canonizzato/a secondo precisi schemi, ciascuno/a aderente a ruoli storicizzati e a compiti che variano a seconda della situazione con cui ci si confronta, a seconda che, ad esempio, si parli di una dimensione intima, casalinga o pubblica, rivolta verso l’esterno.
È il modello individualista borghese della famiglia~monogama concepita come una unità; mattoncino di base della struttura sociale composto-unito attraverso l’affettività è una unità facilmente controllabile e manipolabile.
La coppia lavorerà strozzata dai mutui per produrre il nido e non metterà più di tanto in discussione il sistema, anche quando risulterà un po’ anomala. Pur rendendomi conto delle lotte compiute in nome di un riconoscimento ed una accettazione che solo chi ha subito e subisce sulla propria pelle può capire fino in fondo, secondo questa prospettiva familista e visione dell’organizzazione sociale, nemmeno le famiglie «arcobaleno» rappresentano un grande pericolo purchè rispecchino quella visione monogamica dell’unità di coppia consumista, privilegiata ed esclusiva, che di fatto non fa altro che confermare un modello di struttura e quindi di dominio e controllo, del sistema sui singoli e sulle masse.
Le frustrazioni che genera
È in nome e per conto del raggiungimento di quella felicità che tutta la nostra vita è orientata, incentrata, come un cardine su cui ruota il portone che sigillerà l’ingresso nella vita adulta.
Film, romanzi e racconti edulcorati di storie passate ci spingono a sviluppare questa aspirazione, questa ricerca: la ricerca della «nostra» metà della mela.
Molte delle nostre energie fisiche, economiche ed emotive saranno quindi investite in questa missione. Il nostro successo sarà atteso e festeggiato con sollievo dalle persone intorno a noi, con la benevolenza di chi considera questo passaggio come fondamentale per la crescita e la conseguente assunzione di responsabilità.
In questa idea dell’amore molto si giustifica, l’amore diviene qualcosa di travolgente e imprescindibile, la relazione con l’altro è l’ossigeno che ci fa vivere e senza il quale la vita perde di senso. La narrazione mainstream che ne segue dovrebbe terrorizzarci tutte e tutti ed invece molto spesso questo sentimento diviene una specie di filtro magico che ci impedisce di raccontarci e raccontare le relazioni per quello che sono.
Ma come possiamo davvero farci convincere del fatto che una persona sola debba avere il compito di esaudire tutti i nostri desideri? Come possiamo davvero pensare che l’unico amore a cui aspirare debba essere quello all’interno dell’unica possibile situazione sociale accettata: la coppia del modello etero?
Quante frustrazioni, quanti desideri censurati in nome di questo ideale siamo condannate ad avere ed a produrre a nostra volta.
Quante relazioni siamo costrette a mettere in classifica stabilendo delle priorità accettate… quante giustificazioni in nome di quel così detto sentimento. Il modello di un amore che a ben vedere mostra i tratti della prigione, dell’incubo, un amore del quale «si muore», e a morire sono spesso donne, in Italia come altrove.
Relazioni rizomatiche
Quello che penso è che se guardassimo con sincerità e coraggio alle nostre vite scopriremmo modelli ben diversi da quelli nei quali siamo costrette a crescere e a credere.
Il più delle volte i nostri legami sono complessi e vanno oltre la relazione di sangue generata dalla discendenza. Sono le persone che scegliamo e con cui stabiliamo rapporti solidali e complici che caratterizzano la rete degli affetti, la rete «delle/dei nostri/e cari/e».
Per questo mi piace pensare che saremo sempre più in grado di generare e di riconoscere questi legami che hanno una forma rizomatica: sono come quei tuberi, le patate, o come la gramigna, infestante, che strisciano ad un livello forse più superficiale, se si confrontano con la radice che si tuffa in profondità degli alberi genealogici, ma non per questo sono meno nutrienti. Agglomerati collegati tra loro anche a grande distanza in rapporto comunicativo e vitale senza che ci sia quella competizione, quella guerra che ci costringe a scegliere, e a sgomitare per prevalere.
Forse le nostre sono tante famiglie in un processo inclusivo di affinità e affetto, tanti amori non escludenti e non competitivi.
«Lavoriamo per costruire amori liberati dal possesso, dalla gelosia, dal controllo, dall’omofobia e dalla transfobia. Liberiamoci dall’Amore romantico, dall’Amore tossico, recuperiamo l’amore senza maiuscole. E forse pure gli amori al plurale.»(2)
Argenide
(1) Uso questo termine come plurale del termine cavalliera, il femminile inventato di cavalliere che in italiano indica chi sta a cavallo e storicamente i guerrieri che potevano permettersi di combattere a cavallo. Lo uso volutamente per evidenziare una presunta neutralità/uguaglianza che nella lingua italica non esiste se non nelle declinazioni maschili. C’è una pubblicità di un prodotto per gli acciai ben noto con una regina che sconfigge il drago dello sporco…sob!… vestita da cavaliere…
(2)https://it-it.facebook.com/nonunadimenotrieste/posts/410256519446987
Per approfondire:
https://www.diagonalperiodico.net/cuerpo/21548-occupylove-por-revolucion-afectos.html
https://malapecora.noblogs.org/post/2013/09/21/che-ogni-pecora-venga-accoppiata/