Rispondo volentieri alla sollecitazione della redazione di Umanità Nova, che mi chiede alcune considerazioni sul “reddito di cittadinanza”. Premetto che di considerazioni strettamente personali si tratta in quanto, come è noto, il movimento libertario e, più in generale il movimento sindacale, è diviso tra chi lo ritiene opportuno e chi, invece, ritiene si tratti di un istituto da sostituire con una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro (“lavorare meno e lavorare tutti”).
Personalmente è dagli anni ’80 che sostengo l’opportunità di un “reddito minimo garantito” per tutti i residenti in Italia. Alla base di tale proposta sta una considerazione che vado ad esplicitare: nell’attuale società (e, suppongo, anche all’interno di un’ipotetica società libertaria) i singoli individui non possono costruirsi un’abitazione dove desiderano, scaldarsi con la legna prelevata dal bosco più vicino, coltivare i terreni adiacenti, tantomeno cacciare e pescare liberamente ciò che serve loro per alimentarsi. In verità, al giorno d’oggi, “liberamente” non si possono neppure raccogliere i funghi!
Ne deriva che, a mio parere, è opportuno che la comunità “risarcisca”, in qualche modo, il singolo individuo, compensandolo per le possibilità che gli toglie. E il modo migliore di farlo è garantirgli, per mezzo di un “reddito minimo”, quella possibilità di sopravvivenza che, in buona sostanza, gli nega.
«Ma – si può obiettare – se fornissimo a tutti un “reddito minimo” nessuno più lavorerebbe, e non sarebbero più prodotti beni e servizi. Pertanto, con il denaro ricevuto, non si potrebbe acquistare nulla. Insomma: moriremmo tutti di fame».
L’obiezione è seria, ma non è detto che le cose debbano andare in questo modo. Infatti, a pensarci bene, qualcosa di simile al “reddito minimo garantito”, per chi ha più di 67 anni, in Italia esiste già, ed è l’“assegno sociale”. Nella regione in cui vivo, l’Emilia-Romagna, coloro che percepiscono l’assegno sociale (se sono nelle condizioni di farlo) spesso lavorano (per poter disporre di qualcosa in più della mera sopravvivenza) oppure, ed è ancora meglio, si dedicano ad attività di volontariato assai più utili di quelle che svolgevano quando erano inseriti nel mondo del lavoro (o, semplicemente, aiutano le persone che gli sono care).
Venendo al “reddito di cittadinanza”, così come è previsto dalla legge italiana, è chiaro che è ben lontano dall’essere un reddito minimo garantito a tutti i residenti. Si tratta, sostanzialmente, di un’indennità di disoccupazione limitata nel tempo e condizionata a particolari requisiti, primo fra tutti quello di non rifiutare occupazioni ritenute insoddisfacenti.
Tra le misure di contrasto alla povertà, sembra che in questi ultimi anni, caratterizzati dall’epidemia di covid-19 e dalle misure prese dai governi in relazione ad essa, abbia assunto un ruolo chiave. «Nel 2019 – scrive l’Istat – le 970 mila famiglie beneficiarie (3,8% circa) hanno usufruito in media di importi annui poco oltre i 3.980 euro. Nel 2020, l’anno dell’esplosione della emergenza sanitaria, si stima che il reddito di cittadinanza abbia raggiunto oltre 1,3 milioni di famiglie (5,3%), con un beneficio annuo di 5.216 euro pro capite; questa quota sale al 15,2% per le famiglie del quinto più povero e al 6,1% per quelle del secondo quinto.
L’impatto del trasferimento è stato in media pari al 29% del reddito familiare complessivo (46,5% per il quinto di famiglie più povere). Il 10,7% delle famiglie residenti nel Mezzogiorno ha ricevuto almeno una mensilità del reddito di cittadinanza, quota di gran lunga superiore a quella registrata nel Nord-est (1,7%), nel Nord-ovest (2,9%) e nel Centro (3,6%)».
Anche per questo, a mio parere, il “reddito di cittadinanza” è comunque da difendere, e occorre anzi lottare per svincolarlo progressivamente dal possesso di requisiti quali quello di non rifiutare occupazioni ritenute insoddisfacenti. Il che non significa che non si debba lottare anche per la riduzione generalizzata dell’orario di lavoro a parità di salario…
Luciano Nicolini