Retate, arresti e portatori d’acqua a Torino

Lo scorso 2 febbraio in Barriera era in corso una retata, una delle tante, in questa periferia troppo vicina al centro, dove vivono tanti immigrati. Non tutti hanno i documenti. Negli ultimi mesi i rastrellamenti del gruppo misto di polizia e alpini si sono fatti più frequenti. L’ostensione della Sindone, le pressioni dei comitati razzisti e dei fascisti di Fratelli d’Italia hanno reso più stretta la morsa disciplinare.
Quella sera i militari sono incappati in un gruppo di antirazzisti che hanno provato a mettersi di mezzo. Pochi slogan ed è partita una carica, con inseguimento per corso Brescia: forse i servitori dell’ordine statale temevano che i senza carte già caricati sulla camionetta potessero riguadagnare la strada.
All’alba del 20 maggio la Procura torinese presenta il conto. Cinque mandati di arresto e quattro divieti di dimora a Torino sono firmati dal Gip Loretta Bianco che convalida la richiesta del PM Rinaudo.
Quattro anarchici, Erika, Luigi, Toshi e Paolo finiscono alle Vallette, mentre Marco sfugge all’arresto.
Resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e violenza privata: queste le accuse contro i nove antirazzisti.
La Procura torinese gioca ogni carta a propria disposizione per fermare le lotte che attraversano la città. Il giorno successivo era prevista l’udienza per otto attivisti per i quali la Procura aveva chiesto la sorveglianza speciale per quattro anni. Una misura che negli ultimi anni i Pm hanno usato sempre più spesso per ingabbiare chi non si riuscivano ad incastrare in altro modo. Una misura che priva di consistenti pezzi libertà chi è considerato “pericoloso” per l’ordine costituito. Una ambizione peraltro molto diffusa tra gli anarchici, che semmai temono che la loro azione sia inadeguata alla sfida che una società di liberi ed eguali impone. L’arroganza di Rinaudo che presenta un ulteriore faldone di carte a sostegno della richiesta, provoca lo slittamento a ottobre dell’udienza.
Una prima risposta agli arresti è arrivata poche ore dopo: una quarantina di antirazzisti, sotto una pioggia battente, hanno fatto saluto con slogan, battiture e petardi ai reclusi al CIE.
Sabato 23 l’appuntamento era in corso Emilia angolo corso Giulio Cesare, lo stesso incrocio della retata del 2 febbraio. Due ore di interventi, musica, slogan per una sessantina di solidali. In tutte le strade intorno la polizia, guidata dai responsabili del commissariato di Porta Palazzo, è schierata in assetto antisommossa. Un segnale chiaro.
Il presidio si avviava alla conclusione quando qualcuno ha provato a fare una scritta sulla facciata di casa Aurora, la ex fabbrica tessile ricostruita in stile neorazionalista negli anni Ottanta.
Una scritta contro le retate, per la libertà. Troppo per la Questura. Sul muro resta solo “bast” in rosso, perché l’antisommossa avanza da ogni lato e chiude nell’angolo buona parte dei partecipanti al presidio. I poliziotti restano lì per oltre un’ora. Gli antirazzisti gridano “libertà”  e pressano i poliziotti con casco manganello e pistola nonostante siano disarmati.
Sui tre lati dell’incrocio la gente si ferma e guarda. Qualcuno intona slogan anche dalla strada. Gli antirazzisti intrappolati riescono a rivolgersi alla gente assiepata, ricordando la retorica dei media sulla pericolosità di Barriera. Una pericolosità che in un sabato di fine maggio ha la faccia della polizia che blocca cinquanta persone per impedire una scritta di libertà su una casa abbandonata.
Ma libertà è una parola e una pratica pericolosa, quando viene fatta propria dagli sfruttati e dai senza potere. Una pratica da rinchiudere e umiliare per impedire che dilaghi.
Questa volta la Questura ha sbagliato i conti. Un po’ di gente intorno grida forte, facendo voltare i poliziotti, qualcuno si mette per la strada. Un uomo in bicicletta, un immigrato, arriva con una borsa di bottiglie d’acqua da allungare ai compagni. La polizia glielo impedisce e un paio di uomini del commissariato cercano di prenderlo. Lui corre veloce tallonato dai poliziotti, che restano a mani vuote.
Anche l’acqua è sovversiva in quest’angolo di Barriera e ancora più sovversiva è la solidarietà.
La situazione è al limite del ridicolo per la polizia, che tenta ancora ad imporre ai manifestanti l’umiliazione della liberazione uno ad uno, attraverso le forche caudine, ma la manovra non funziona. Alla fine il cordone si apre e gli antirazzisti si allontanano in corteo per corso Brescia.
Quelli dell’antisommossa restano a lungo a fare la guardia al muro.
Il giorno successivo un’ottantina di manifestanti si ritrovano nel pratone alle spalle del carcere delle Vallette, dove, oltre a Erika, Luigi, Paolo, Toshi ci sono anche Francesco, Graziano e Lucio, i tre No Tav in carcere da giugno con l’accusa di aver partecipato al sabotaggio al cantiere di Chiomonte del 13 maggio 2013. Per loro I PM Padalino e Rinaudo hanno chiesto cinque anni e mezzo di reclusione. La sentenza verrà pronunciata il prossimo 27 maggio. Il presidio di domenica 24 convocato in solidarietà con loro si è allargato anche ai quattro nuovi giunti e ai tanti altri che in questo carcere si sono visti rubare parte delle loro vite.
ma.ma.

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