L’articolo sulla crisi della grande distribuzione pubblicato quest’anno sul n. 3 di UN era un testo dedicato a una questione specifica e non certo un trattato sulla crisi generale del capitalismo. La crisi della GDO è un fatto ormai accertato e di cui ampiamente si parla da diverso tempo anche sui media di regime e, pertanto, non necessita di prove ulteriori. L’articolo in questione cercava di porre questo fatto concreto e particolare in relazione a una interpretazione più generale della crisi. È del tutto evidente che gli strumenti di analisi utilizzati si rifanno alla marxiana critica dell’economia politica e anche questo è un dato di fatto.
Dunque, dopo aver scartato alcune motivazioni basate sulla “normale” concorrenza intercapitalistica, nell’articolo si individua la causa principale nella crisi di sovrapproduzione, definita come manifestazione della crisi generale del sistema capitalistico nel settore della circolazione delle merci, un processo di circolazione del capitale, necessario comunque per la realizzazione del plusvalore. La sovrapproduzione si riferisce ovviamente alle merci che rientrano nel consumo per la riproduzione della forza lavoro e non ai prodotti di lusso o alla produzione di armi, tutte merci per le quali il mercato si espande nelle situazioni di crisi. Per le merci in sovrapproduzione la domanda solvente è costituita sostanzialmente dai salari dei lavoratori, salario diretto o differito (pensioni) o sociale (tasse e contributi gestiti dallo stato) e da altri redditi da lavoro, tutti in forte calo da qualche decennio e, di conseguenza, la sproporzione fra domanda e offerta tende costantemente ad aumentare.
Conviene sottolineare a questo punto che la sovrapproduzione, in altre parole lo squilibrio fra domanda e offerta, non è la causa della crisi generale del capitalismo, ma un effetto di altre cause che vanno ricercate nel settore della produzione, cioè nella formazione e accumulazione del capitale, come poi vedremo. A titolo di esempio, ne “Il capitale monopolistico” Baran e Sweezy ipotizzano uno squilibrio permanente tra l’aumento della capacità produttiva e quindi dell’offerta e l’aumento della domanda, in altre parole una situazione cronica di sovrapproduzione. Ora in realtà nelle fasi di sviluppo capitalistico, di riproduzione allargata del capitale, la produzione di merci viene facilmente assorbita, sia dai nuovi investimenti in capitale fisso (mezzi di produzione), sia dagli aumenti salariali dovuti alla quasi piena occupazione e agli aumenti di produttività (mezzi di consumo). È quanto effettivamente avvenuto nella golden age capitalistica nel trentennio 1945/1975. Non è certamente questa la situazione odierna in cui siamo più vicini alla riproduzione semplice, quando cioè, pur in presenza di un aumento della massa dei profitti, non si verifica un corrispondente e proporzionale aumento degli investimenti produttivi, mentre una parte sempre più consistente dei profitti prende la via della speculazione finanziaria ed i salari dei lavoratori sono in calo da alcuni decenni.
Le varie teorie sottoconsumiste, contrariamente a quanto affermato sopra, ritengono invece che la sovrapproduzione sia effettivamente la causa della crisi capitalistica, per cui la soluzione della crisi deve essere ricercata nell’aumento della “domanda aggregata” sia pubblica sia privata. Il che si può ottenere con politiche monetarie “espansive”, come quelle messe in atto dalla FED e dalla BCE dal 2008 a oggi, con l’allargamento del credito al consumo e con una spesa pubblica più o meno in deficit. Ovvero con un aumento del debito sia privato sia pubblico. Naturalmente tutte queste misure non sono assolutamente necessarie in una fase di sviluppo capitalistico, come detto prima, mentre divengono di attualità nelle fasi di crisi. E infatti queste politiche keynesiane furono messe in atto negli anni ’30 (con il new deal rooseveltiano e l’intervento dello stato nell’economia, con le politiche sociali dei regimi fascisti europei, salvo poi sfociare in una guerra mondiale) negli anni ’70, (chi non ricorda l’inflazione a due cifre e i BOT, anche essi con interessi a due cifre) e dopo la crisi del 2008 (con il dollaro a tasso zero e il quantitative easing di Draghi che però ha contribuito più che altro al salvataggio delle banche, assorbendo i loro debiti e i titoli spazzatura).
Nel mio articolo ho espresso l’opinione, o meglio la convinzione, che queste politiche non sono arrivate ad una risoluzione definitiva della crisi, sfociando negli anni ’30, nella seconda guerra mondiale, in una specie di “keynesismo di guerra” in cui quasi tutta la produzione veniva comprata dallo stato, negli anni ’70 portando ad un aumento stratosferico del debito pubblico ed all’esplosione del capitale finanziario. Comunque su queste tematiche si dovrà fare una discussione più approfondita, supportata anche da dati empirici probanti. Detto in maniera molto schematica qualche capitalista certamente aumenta i suoi profitti attraverso la domanda sostenuta dallo Stato, ma, come è stato esaurientemente dimostrato da Paul Mattick nel suo famoso lavoro sui limiti dell’economia mista, la domanda aggiuntiva statale non crea profitti aggiuntivi per il capitale nel suo complesso. Sia nel caso che la domanda venga sostenuta dal prelievo fiscale, sia nel caso che venga incrementata attraverso il debito pubblico, la domanda aggiuntiva creata oggi dovrà essere ripagata con i profitti di domani. Se la ripresa dei profitti non avviene si avrà un indefinito periodo di stagnazione economica. Per quanto riguarda la crisi fiscale dello stato rimando, per brevità, alla voce del “glossario minimo” e al testo di James O’ Connor, citato in nota, che solo in maniera molto superficiale può essere definito una fake news.
Ma torniamo a noi. Come già accennato in precedenza, nella teoria marxiana la sovrapproduzione non è la causa della crisi generale del capitalismo, la cui origine va invece ricercata nella sovraccumulazione del capitale, ovvero nella difficoltà a valorizzare in maniera adeguata il capitale sovraccumulato con la conseguente caduta tendenziale del saggio di profitto. Ora mi rendo conto che su questo argomento sono stati versati fiumi di inchiostro, che non è possibile riassumere in poche righe. Basti dire che, in una situazione di caduta del saggio di profitto, la massa dello stesso non viene più reinvestita nella riproduzione allargata, che è quello, come sottolineava Mattick, che determina la crisi economica, anche se Mattick dice che è impossibile descrivere statisticamente la caduta stessa.
Tutto questo ragionamento poggia naturalmente su un dato di fatto che sembra andare controcorrente rispetto alla normale percezione delle cose : il saggio di profitto tende a scendere nei periodi di prosperità capitalistica mentre tende ad aumentare nei periodi di crisi. Ma è proprio così e i dati empirici lo dimostrano: ”Dopo un calo tendenziale nel dopoguerra fino al 1983 di circa il 55%, il saggio complessivo del profitto delle corporations americane è tendenzialmente aumentato dal 7% circa del 1983 all’11% circa del 2005”, anche se “di tale incremento la responsabilità va per quasi l’80% all’aumento del saggio del profitto del settore finanziario”. D’altra parte non può che essere così. Proprio l’esperienza insegnava che l’evoluzione stessa della crisi poneva le condizioni per la sua soluzione, per la ripresa dell’accumulazione e dello sviluppo. La distruzione di forze produttive, la concentrazione dei capitali, la ristrutturazione, la conseguente disoccupazione e svalorizzazione della forza lavoro erano la premessa per un nuovo slancio dei profitti e degli investimenti. Ora non più.
Se guardiamo all’analisi empirica dei movimenti del capitale, in maniera diversa da chi considera il capitale in salute guardando all’andamento crescente dei profitti, per lo meno sul breve periodo, riusciamo a cogliere il punto fondamentale dell’analisi del declino storico del capitale sul lungo periodo: la dissociazione fra l’andamento del saggio del profitto e l’andamento del saggio di accumulazione. Il passaggio fondamentale è “che il saggio di accumulazione ha in pratica cessato di rispondere agli incrementi del saggio di profitto, mentre ha cominciato a rispondergli benissimo la quota di profitti (e di reddito nazionale) impiegata speculativamente”.[1]
Secondo questa interpretazione naturalmente “il capitale speculativo può espandersi solo a spese di quello produttivo”. Quindi “è un grossolano errore farsi abbagliare dall’andamento dei profitti tout court e considerare questo come un segno di vitalità del capitale”. Occorre considerare “pure l’altra metà del processo, la riconversione dei profitti in capitale”. Per non parlare poi del fatto che il calcolo dei profitti e della produttività è soggetto a mistificazioni di ogni genere da parte delle istituzioni nazionali e internazionali, che riducono fortemente la sua attendibilità. Ad ogni modo, qualunque ne sia la causa, il dato empirico della dissociazione rimane e risulta essere uno dei tratti distintivi del declino storico del modo di produzione capitalistico.
Di tutto questo ragionamento comunque non c’è traccia nell’articolo “Sovrapproduzione e sottoconsumo” pubblicato sul n. 4 di Umanità Nova a firma di Enrico Voccia. Ritengo quindi che, prima di addentrarsi nei meandri della Macroeconomia, cosa che sicuramente dovrà essere fatta, sia opportuno un chiarimento su queste tesi fondamentali. Si può non essere d’accordo con le teorie marxiane riguardo alla crisi del capitale, niente di male. Però, alla luce di quanto detto prima, ritengo del tutto gratuite le affermazioni contenute nell’articolo secondo cui “spesso e volentieri, le analisi di stampo marxista e quelle di stampo neo liberista giungono a conclusioni simili sulla realtà effettuale del capitale e condividono una medesima mitologia”, oppure ancora che “il pensiero di Marx – ivi compresa la sua teoria economica-“ sia un “meccanismo ideologico del capitale”.
Detto questo comunque ritengo molto utile riprendere la discussione fra compagni, anche su posizioni diverse, ultimamente molto carente.
Visconte Grisi
NOTE
[1] Le frasi fra virgolette sono riprese dall’opuscolo “Le parole sono più forti dei fenomeni? Nel mondo dove vive la sinistra, sicuramente sì” a firma Richard Jones – Milano, Maggio 2007.