Sul finire di questo gennaio arido, Finmeccanica ha presentato al popolo, per mezzo dei suoi massimi dirigenti, il piano industriale per gli anni 2015-2019. Ricordiamo che presidente del gruppo Finmeccanica è Gianni De Gennaro, ex capo della polizia ed ex capo dei servizi segreti, mentre amministratore delegato è Mauro Moretti, il miracoloso ex sindacalista cigiellino diventato poi il super capo delle Ferrovie italiche sconquassate dai tagli. Ricordiamo inoltre le dimensioni notevoli di Finmeccanica: ha oltre sessantamila dipendenti in vari luoghi del mondo e continua ad essere, nonostante difficoltà finanziarie, uno dei dieci principali gruppi al mondo del suo settore, l’ADS (aerospazio, difesa, sicurezza).
Qualcuno si chiederà chi è il proprietario di questa multinazionale produttrice di armi e affini. Bisogna dire che non è chiarissimo. Di certo c’è che il ministero dell’economia e delle finanze controlla il 30,2 per cento del suo capitale; ma poi c’è un 23,8 per cento in mano a indefiniti soggetti individuali e un 46 per cento controllato da soggetti istituzionali. Nel sito del gruppo si fanno solo i nomi di chi possiede le quote più grandi, per esempio la Deutsche Bank Trust Company Americas e il fondo di investimento istituzionale libico (a proposito, di quale stato libico?) (v. http://www.finmeccanica.com/investors/titolo-borsa-share-price/capitale-azionariato-1).
Per quanto concerne la notizia del giorno, cioè il nuovo piano industriale, chi ha pazienza e nozioni sufficientemente approfondite di economia aziendale, di traffici e intrallazzi, e magari è stato anche alle fonti del Nilo ad abbeverarsi di un sapere iniziatico prodotto nella notte dei tempi da sapienti stregoni nubiani, può leggersi direttamente la presentazione che si trova qui: http://www.finmeccanica.com/documents/10437/23041353/body_Finmeccanica_Industrial_Plan_28012015ok.pdf.
A noi, in questa sede, spetta fare qualche considerazione generale, utile alla comprensione dell’essenziale. Il piano prevede una sorta di ristrutturazione organizzativa che porta alla centralizzazione romana di gran parte del potere decisionale. In secondo luogo si pone l’obiettivo di ridurre l’indebitamento netto, entro il 2017, al di sotto dei 3,5 miliardi di euro (la cifra attuale supera i 4 miliardi). In terzo luogo si afferma la necessità di concentrarsi nel core business, cioè nelle attività principali e potenzialmente più redditizie: l’elicotteristica (con AgustaWestland), l’aeronautica (con Alenia Aermacchi), l’elettronica per la difesa e la sicurezza (Selex ES e DRS), i sistemi di difesa (OTO Melara, WASS, MBDA), con qualche considerazione ancora per il settore spazio. Come si può notare, si tratta di attività facenti parte della produzione di strumenti e di armi per la guerra moderna ad alta intensità tecnologica. Si cita come importante obiettivo anche lo sviluppo della produzione UCAV: sigla esoterica che sta ad indicare droni e affini, cioè quegli aeroplanini senza pilota che servono ad uccidere il nemico senza il rischio di essere dal nemico uccisi (è la guerra cavalleresca dei nostri tempi). Si prevede invece la dismissione di settori più difficilmente militarizzabili: Ansaldo STS e Ansaldo Breda, che si occupano di trasporti e di materiale ferroviario.
La scelta è chiara: visto che il mercato tira bene in una determinata direzione (quella della guerra), visto che i principali clienti sono di genere istituzionale (gli Stati che si preparano a fare la guerra e che poi la fanno davvero), bisogna dedicarsi intensamente allo sviluppo dei prodotti che si ritiene possano offrire un profitto più elevato (gli strumenti che servono a fare la guerra).
Nessun ripensamento romantico per il ferroviere Moretti: a lui i trenini non interessano più. Nessun dubbio per l’amico degli americani De Gennaro, che, a sua volta, ha tanto a cuore i suoi amici d’un tempo, da assumere come consulente del gruppo niente di meno che il dirigente di polizia Caldarozzi, condannato in via definitiva a 3 anni e 8 mesi per i fatti della Diaz durante il G8 genovese. L’amicizia è di sicuro una bella cosa: bisogna coltivarla e trarne profitto materiale e spirituale ogni volta che sia possibile.
In definitiva: Finmeccanica si riorganizza, taglia un po’ di spese, rimodella la sua struttura, si dedica a quello che riesce a far meglio, cioè a fabbricare strumenti di morte.
E i lavoratori? Che dicono i dipendenti del gruppo che operano soprattutto in Italia, Inghilterra, USA e Polonia? Vediamo un po’ il parere degli italiani; non il parere dei singoli lavoratori, ma dei loro rappresentanti, per esempio di FIM CISL, che in un recente documento afferma che “Ci sono oltre 250 aerei caccia con specificità aria/aria, aria/terra e navali (utilizzo in portaerei) che hanno tra i 30 e i 40 anni di vita e che non saranno più “refittabili” né aggiornabili ai nuovi sistemi elettronici con cui operano e si devono interfacciare. I costi di manutenzione ed aggiornamento sono comunque alti per avere mezzi vecchi, che non garantiscono superiorità aerea né per la difesa del Paese che per le missioni a cui l’Italia partecipa in ambito NATO o per altre missioni internazionali. Inoltre rischiamo di avere del naviglio specifico (Portaerei) di cui vanno sostenute costantemente le spese, per essere inefficacemente utilizzabili visti i velivoli vetusti, producendo così la moltiplicazione dei costi.” Che dire? È interessante vedere come i lavoratori “responsabili” si preoccupino dell’efficienza dei nostri mezzi militari e della potenza bellica del loro paese. E pensare che c’è stato un periodo in cui almeno si era provato a fare un ragionamento sulla riconversione industriale dal militare al civile. Ora non più: è cosa anacronistica per i dirigenti dei sindacati di Stato (anche per quelli di FIOM CGIL).
Continuando a leggere il documento cislino ci imbattiamo nel seguente brano: “Il forte dibattito politico che da tempo investe il programma e ha visto la decisione di “tagliare” oltre un terzo dei velivoli sui quali come Paese ci eravamo impegnati inizialmente, portando il numero a 90 ma la discussione non è ancora conclusa. Non è chiaro infatti alla fine quanti ne saranno acquistati ma resta il problema di come il nostro Paese pensa di sostituire i caccia obsoleti. Il rischio è di continuare a “sprecare” soldi per manutenere mezzi impropri e poco utilizzabili (comprese le portaerei) mettendo a rischio, in caso di missioni delicate, anche gli equipaggi. Le ricadute industriali per l’F35 sono solo relative all’assemblaggio, con scarse opportunità occupazionali (90 velivoli acquisiti creeranno a regime poco più di 500 posti di lavoro) con costi di gestione che aumentano al diminuire del numero dei velivoli acquisiti e il valore aggiunto italiano per lo sviluppo o la proprietà tecnologica è vicino allo zero.” (http://www.fim-cisl.it/wp-content/uploads/2015/01/DOCUMENTO-FIM-FINMECCANICA-19012015-definitivo.pdf)
Ecco che cosa deve fare un vero sindacato “moderno e responsabile”: preoccuparsi addirittura dell’efficacia delle nostre missioni di guerra…. Poi comunque riconosce la scarsa ricaduta occupazionale; ma da tale evidenza non trae le dovute conseguenze e fa quasi intendere che sarebbe stato meglio acquistare i 131 F-35 originariamente prefissati e che la riduzione a 90 pezzi sia una mezza iattura. Figuriamoci dunque quale potrebbe essere la posizione dei sindacati di Stato di fronte all’ipotesi di una riduzione drastica delle spese per nuovi sistemi d’arma… Insomma: secondo loro, il bene dei lavoratori starebbe nell’aumento senza limiti delle produzioni belliche. E poi magari si lamentano quando vengono definiti “sindacati di Stato” e collaborazionisti.
Si può ragionare di azione antimilitarista con lavoratori che esprimono una rappresentanza sindacale che sostiene posizioni del genere di quelle appena sopra riferite? “È difficile portare un uomo a comprendere una certa cosa quando il suo salario dipende dal non comprenderla!”: così scriveva Upton Sinclair, in riferimento a tutt’altra vicenda, in un testo citato da Naomi Klein nel suo ultimo libro.
Dom Argiropulo di Zab