Risposta all’Articolo Uscito su Umanità Nova del 20 novembre.
Dall’articolo si evince che tutto sommato questo protagonismo di soggetti vicini al nostro movimento nei film e nelle serie televisive potrebbe essere un qualcosa di positivo per noi o, almeno, sarebbe indice di interesse da parte degli spettatori al nostro mondo. Non credo che questo sia totalmente infondato, anzi, penso che per certi aspetti è possibile, però vorrei sottolineare un elemento emerso dalla riflessione che riesaminato sotto altri aspetti ci può riportare a guardare il bicchiere mezzo vuoto piuttosto che il contrario.
Il fatto che le grandi case cinematografiche stiano producendo film ed altro di questo tipo senza porsi particolari problemi potrebbe anche significare che, forse, questo immaginario collettivo sul sovversivo libertario buono non genera movimenti sociali tali da non poter essere domati.
Mi spiego meglio: se da una parte i personaggi vengono plasmati in un certo modo, bisogna anche dire che spesso le situazioni in cui vengono immersi, i comportamenti e le azioni che essi compiono, sono molto spesso lontani dal nostro modo di fare e dalla realtà che ci circonda. Non dimentichiamoci che è l’individualismo che impera quasi sempre nei racconti dell’industria televisiva, quindi alla sfera di classe si sostituisce la sfera individuale o al massimo di piccolo gruppo/cellula rivoluzionaria che, da sola, riesce a tenere testa ai poteri forti.
In pratica vengono suggeriti degli strumenti virtuali, semplificati e soprattutto resi all’apparenza semplici ed immediati, basti pensare all’apologia dell’hacktivismo vista in tutte le salse sul piccolo schermo e sul grande. Se questo può smuovere le coscienze, di sicuro riesce anche a renderle innocue: infatti la repressione e lo sfaldamento di movimenti come Anonymous è stato probabilmente molto più semplice che nel caso dei movimenti operai dell’otto-novecento…
In conclusione, se è vero che il pubblico vuole l’eroe libertario, è anche vero che quelli sono strumenti in mano allo Stato e al Capitale, ed essi possono farne ciò che vogliono, e lo fanno, indebolendo i nostri strumenti, la nostra solidarietà, conformando tutto a banale dialettica smontabile quando poi c’è bisogno di ordine.
Andres
Trovo assai interessante la riflessione di Andres sul mio articolo, in quanto esso si limitava a far notare come il movimento Occupy Wall Street, percepito come intrinsecamente libertario dagli statunitensi, avesse creato un meccanismo di simpatia nei nostri confronti che l’industria dello spettacolo aveva colto al volo, mentre la sua riflessione allarga la visuale ponendosi il problema dei meccanismi di recupero e di controllo che la suddetta industria mantiene all’interno delle trame di tali prodotti. In particolare, sottolinea il carattere individualistico dell’hacktivismo e la facilità con cui si possono controllare dei processi di opposizione che vengono incanalati in queste direzioni.
Posso anche essere d’accordo in linea di principio, però non ho citato a caso proprio “American Odissey” e “Mr. Robot”: l’ho fatto perché fuoriescono dallo schema individuato da Andres (presente in effetti in altri prodotti dell’industria dello spettacolo con tematiche simili). Nel primo la figura dell’hacktivista è marginale e la dimensione del movimento è rappresentata nella sua coralità (ed è questo dato che lo rende vincente); nel secondo il piccolo gruppo libertario si pone chiaramente l’obiettivo di diventare un movimento di massa, pena il fallimento del suo obiettivo di “salvare il mondo”. Anche questi aspetti – che avevo sottaciuto per evitare “spoiler” che sono sempre un po’ antipatici – mi avevano dato l’impressione di una discreta profondità dell’influenza nell’immaginario collettivo della figura del libertario e della presenza di un target “accorto”, che non si sarebbe accontentato della prospettiva del libertario come eroe solitario.
Enrico Voccia