Il 1969 è un anno particolare. Dopo il 1968 della ribellione giovanile e studentesca scendono in piazza anche gli operai, scavalcando le tradizionali organizzazioni di riferimento, partiti e sindacati. La saldatura che si verifica contiene in sé un potenziale di lotta assolutamente preoccupante per gli assetti di potere allora esistenti, sia interni che esterni, già in allarme dagli inizi degli anni ’60 per la rivolta antifascista e antigovernativa di Genova e i fatti di piazza Statuto a Torino, oltre che per l’entrata nell’area di governo del Partito socialista. È del 1964 il disegno golpista del generale dei carabinieri De Lorenzo in combutta con la presidenza Segni; sono del 1967 i convegni della destra estrema con esponenti militari. La lotta dilaga, assumendo frequentemente caratteristiche di rottura rivoluzionaria. La risposta dello Stato non si fa attendere; se in piazza polizia e carabinieri riorganizzano le proprie forze, nei meandri del potere i servizi segreti affilano le loro armi.
Sul piano internazionale la contrapposizione tra i due blocchi guidati rispettivamente da USA e URSS, dopo la crisi dei missili a Cuba del 1962 e l’incrudelirsi della guerra nel Vietnam, giunge a livelli di tensione tali da imporre, nelle proprie aree di riferimento, la liquidazione di ogni possibile avversario, dimostrando nei fatti un’unitarietà d’azione contro gli sfruttati e gli oppressi di tutti i paesi. Nel 1967 vi è stato il colpo di stato militare in Grecia; i dittatori Franco e Salazar sono sempre al potere in Spagna e Portogallo, fedeli alleati degli USA; in Sudamerica l’interventismo militare contro l’insorgenza popolare è all’ordine del giorno e sfocerà, via via, nelle dittature militari in Cile, Uruguay, Argentina, Bolivia e Paraguay, sotto la regia della CIA che cura la formazione delle gerarchie militari sudamericane (il famoso Piano Condor); nell’area del Patto di Varsavia, nel 1967 i carri armati soffocano la ribellione cecoslovacca, mentre in Polonia si susseguono le proteste e il regime spara sugli operai in sciopero.
Anche da noi progetti di ‘colpo di stato’ (dopo quello del 1964) sono sui tavoli di illustri esponenti dello Stato e del governo, in combutta con l’amministrazione americana: il timore è che l’insorgenza proletaria porti con sé l’aumento elettorale del Partito Comunista, il più forte nell’area di competenza dell’imperialismo USA in Europa, aprendogli le porte del governo.
L’obiettivo è quello di scatenare una reazione del ceto medio – la cosiddetta maggioranza silenziosa – in risposta al crescente protagonismo della classe operaia spalleggiata dalla conflittualità giovanile e studentesca. La violenza insita nel conflitto sociale crescente va esasperata e portata su un piano terroristico, per spingere i ‘moderati’ a invocare l’intervento dei militari o, almeno, un rafforzamento autoritario dello Stato. Spionaggio, infiltrazione, provocazione diventano pratiche quotidiane e ricorrenti.
Le prime bombe sono quelle del 25 aprile 1969 a Milano: una al padiglione della Fiat della Fiera campionaria e l’altra all’Ufficio cambi della Banca nazionale delle comunicazioni della Stazione ferroviaria centrale. I feriti, non gravi, sono alcune decine. Accusati ed arrestati un gruppo di cinque anarchici (Paolo Braschi, Angelo Della Savia, Paolo Faccioli, Giuseppe Norscia e Clara Mazzanti) su indicazione del commissario Luigi Calabresi – sostenitore della ‘pista anarchica’ – e che solo nella primavera 1971 vedranno riconosciuta la loro estraneità ai fatti e rimessi in libertà. Per inciso, la Corte d’Assise di Catanzaro riconobbe il 23 febbraio 1979 la responsabilità dei neofascisti Freda e Ventura per quegli attentati.
Altre bombe, dieci, vengono piazzate il 9 agosto su altrettanti treni in diverse stazioni del lombardo-veneto: otto scoppiano provocando 12 feriti. Cresce la campagna di stampa che accusa, senza alcuna prova, gli anarchici come i responsabili di tali azioni criminali. Anche per queste bombe verrà poi incriminato il gruppo di Ordine Nuovo del Veneto, capeggiato sempre da Freda e Ventura. Da notare che il nostro compagno Giuseppe Pinelli – a causa del suo essere ferroviere – sarà messo sotto accusa anche per questi attentati nella stanza del IV piano della Questura di Milano nella notte del 15 dicembre 1969.
Il 12 dicembre 1969 avviene poi l’attentato più grave: in piazza Fontana, nel centro di Milano, all’interno della Banca dell’Agricoltura, una bomba esplode dilaniando 14 persone e ferendone 91 (di questi tre poi moriranno in seguito alle ferite riportate e altri porteranno nel tempo lesioni permanenti). Un’altra bomba viene ritrovata alla Banca Commerciale di Milano ed altre ancora esplodono all’Altare della patria, a piazza Venezia, all’entrata del museo del Risorgimento e al passaggio sotterraneo che collegava la Banca Nazionale del Lavoro da via San Basilio a via Veneto, a Roma, provocando 16 feriti. Tutto accade nel giro di 53 minuti.
Immediatamente le indagini si dirigono contro gli anarchici. La grande stampa borghese scatena una campagna d’ordine, mentre gli organi di stampa della sinistra (l’Unità, L’Avanti!) mantengono un atteggiamento guardingo quando non accusatorio nei confronti di “schegge impazzite”. Pesa nel giudizio il ricordo dell’attentato del 23 marzo 1921, quando un attentato di matrice anarchica al teatro Diana di Milano – che aveva come obiettivo il questore Gasti, colpevole della detenzione di Malatesta, Borghi e Quaglino – provocò involontariamente la morte di 21 spettatori e il ferimento di 80.
Avvengono centinaia di fermi, di perquisizioni e di interrogatori soprattutto di militanti anarchici, della sinistra rivoluzionaria e alcuni dell’estrema destra giusto per dare l’impressione che le indagini vanno in tutte le direzioni.
Si tratta in realtà di una provocazione ordita ad arte sulla pelle dei componenti del circolo anarchico romano 22 marzo, costituitosi da poco, il cui esponente di spicco è l’anarchico milanese Pietro Valpreda, che in quel giorno si trovava nella sua città natale, ospite della zia, convocato per un processo per un volantino anticlericale. Insieme a lui vengono arrestati a Roma Emilio Borghese, Roberto Gargamelli, Ivo della Salvia, Roberto Mander mentre Enrico Di Cola riesce a sottrarsi; a Milano Giuseppe Pinelli viene invitato, sempre dal commissario Calabresi, a seguirlo in motorino per essere unito alle altre decine di fermati, già presenti in Questura.
La provocazione, che doveva innescare – nel giorno dei funerali delle vittime, il 15 dicembre – una reazione fascista di piazza comprendente l’assalto alla sede del PCI a Botteghe Oscure, era di proporzioni tali da giustificare il ricorso a misure eccezionali quali la sospensione delle libertà costituzionali e l’intervento dell’esercito. L’ostacolo principale viene però dal muro di popolo accorso da tutta Milano – dalle fabbriche dell’hinterland, dai metalmeccanici e dai siderurgici di Sesto – in piazza Duomo per presenziare alla cerimonia funebre, accompagnato dalla messa in allerta di tutte le strutture difensive delle organizzazioni e dei gruppi extraparlamentari. Il risultato di questa imponente mobilitazione – come emerso dalle risultanze della commissione d’inchiesta – fu il diniego dell’allora capo del governo Rumor di dare vita ad un esecutivo di salute pubblica che avrebbe sospeso le libertà costituzionali, nonostante le pressioni esercitate da settori industriali, apparati politici e militari.
Ma non tutte le carte sono giocate. In quei giorni, come ha rivelato un importante lavoro condotto dall’avvocato Gabriele Fuga e da Enrico Maltini (pubblicato prima da Zero in Condotta e poi da Colibrì in una edizione ampliata), le indagini e gli interrogatori dei fermati sono di competenza degli uomini dell’Ufficio Affari Riservati diretto da Federico Umberto D’Amato, giunti da Roma con lo scopo evidente di portare fino in fondo la pista anarchica e condurre a compimento la provocazione. Non è un caso che proprio quel 15 dicembre, dopo la mobilitazione operaia ai funerali, questi sgherri decidono di forzare la mano e di costringere i fermati a dichiarazioni tali da incastrare definitivamente Pietro Valpreda – il mostro designato – nel ruolo di esecutore materiale dell’attentato. Giuseppe Pinelli, compagno ben noto e da sempre attivo nel milanese, e non solo, nelle iniziative di propaganda, di lotta sindacale, di controinformazione e di assistenza alle vittime politiche (come quelle del 25 aprile) – figura ideale di collegamento tra i gruppi di Roma e Milano – è quello che deve dire ciò che l’Ufficio, e quindi il ministero degli Interni dal quale dipende, vuole.
Trattenuto illegalmente ben oltre i limiti prescritti dalla legge, dopo tre giorni di fermo nelle condizioni che possiamo immaginare, Pino viene torchiato secondo i sistemi ben conosciuti dai compagni che prima di lui avevano dovuto assaggiare i metodi del commissario Calabresi e della sua squadra, ora rinforzata da quelli venuti da Roma.
La conclusione la sappiamo. Nella notte tra il 15 e 16 dicembre Pino fu fatto precipitare dalla finestra del quarto piano della questura, alla presenza di numerosi funzionari e poliziotti. Morì in ospedale, poco dopo la caduta, di nascosto da occhi indiscreti, lontano dai suoi familiari, tenuti a distanza. Il questore disse che si era lanciato nel vuoto gridando “è la fine dell’anarchia!”, un poliziotto disse che aveva cercato di fermarlo per un piede e che gli era rimasta una scarpa in mano (peccato per lui che Pinelli le aveva entrambe le scarpe nel cortile dove era precipitato), Calabresi disse che lui nella stanza manco c’era (e le dichiarazioni di Pasquale Valitutti presente in questura quella notte, che affermò di non aver mai visto uscire il commissario da quella stanza non furono mai prese in considerazione, anzi il giudice D’Ambrosio ebbe il coraggio d’affermare – dando Valitutti per morto – che quest’ultimo aveva dichiarato il contrario).
Ma le contraddittorie versioni date dalla polizia e dal potere politico sulla morte di Pinelli, contribuirono a mettere in crisi il velo di menzogne che stava alla base dell’intera operazione, costringendo l’opinione pubblica a misurarsi con la realtà delle cose aldilà delle manipolazioni del potere. La versione del ‘suicidio’ di Pino non resse alla prova dei fatti ed il suo assassinio divenne successivamente un dato acquisito nella maggior parte dell’opinione pubblica.
Il 17 dicembre in una conferenza stampa gli anarchici milanesi che si ritrovavano nel ‘Circolo Ponte della Ghisolfa’ di piazzale Lugano 31 denunciarono la strage come ‘Strage di Stato’ – un’espressione che successivamente divenne patrimonio pubblico – rivendicarono la libertà per Valpreda e compagni e accusarono la polizia della morte di Pinelli, un vero e proprio assassinio.
Smascherare le menzogne di Stato divenne una necessità assoluta, non tanto e non solo riguardo il fatto specifico, ma per conquistarsi un’agibilità sociale che veniva ridotta e negata dall’ azione manipolatoria e repressiva. Presidi, manifestazioni, volantinaggi, comizi si susseguirono ovunque ci fosse un gruppo anarchico: la libertà dei compagni incarcerati e la verità sull’assassinio divennero gli elementi centrali dell’attività del movimento.
Gli anarchici, dapprima soli, trovarono al loro fianco intellettuali progressisti, esponenti onesti della società civile, giornalisti, e, progressivamente, le forze della sinistra rivoluzionaria e persino settori di quella riformista ed istituzionale.
La strage di piazza Fontana sarà oggetto di indagini varie, di inchieste giornalistiche, di speculazioni di vario tipo e di manovre politiche, originando processi interrotti, ripetuti, spostati da Milano a Roma, Catanzaro, Bari, caratterizzati dall’occultamento deliberato della verità attraverso protezioni, silenzi, menzogne, in un contesto di bombe e stragi, come quelle neofasciste del 22 luglio 1970 sul direttissimo Palermo-Torino nei pressi di Gioia Tauro e del 4 agosto 1974 sull’Italicus tra Firenze e Bologna (complessivamente 18 morti e 187 feriti), del 31 maggio 1972 (Peteano, autobomba contro i carabinieri, della quale si autoaccuserà il militante di Ordine Nuovo, Vincenzo Vinciguerra), del 7 maggio 1973 alla Questura di Milano (4 morti e 45 feriti) ad opera di Gianfranco Bertoli, del 28 maggio 1974 (Brescia, bomba contro una manifestazione sindacale, 8 morti ed un centinaio di feriti), del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna (85 morti e 200 feriti).
Un cumulo di morti innocenti, 135 vittime e 550 feriti, caduti in quella che viene definita ‘Strategia della tensione’, che troverà poi negli agguati e nelle morti nelle manifestazioni di piazza un’altra forma di tragica espressione. Dal 1970 al 1976 vengono uccisi per opera della polizia: Bruno Labate e Antonio Campanella a Reggio Calabria, l’internazionalista Saverio Saltarelli a Milano nel corso della manifestazione duramente repressa in occasione del primo anniversario della strage di piazza Fontana, Massimiliano Ferretti di sette mesi, soffocato dai lacrimogeni durante lo sgombero delle case occupate di viale Tibaldi a Milano, il pensionato Giuseppe Tavecchio colpito da un lacrimogeno sparato ad altezza d’uomo a Milano durante gli scontri dell’11 marzo 1972, il compagno anarchico Franco Serantini a Pisa lasciato a morire in carcere dopo essere stato massacrato di botte, lo studente del Movimento Studentesco Roberto Franceschi a Milano, Vincenzo Caporale del PcdI a Napoli nel corso dello sciopero nazionale della scuola, Fabrizio Ceruso del Comitato proletario di Tivoli, l’invalido Zunno Minotti di Roma, Giannino Zibecchi dei Comitati antifascisti di Milano durante l’assalto alla sede del MSI del 1975, Rodolfo Boschi a Firenze, il pensionato Gennaro Costantino a Napoli, Pietro Bruno di Lotta Continua a Roma, l’ingegnere Mario Marotta a Roma, Mario Salvi a Roma nel 1976 durante la manifestazione di protesta per la condanna di Giovanni Marini. Inoltre il 26 settembre del ’70 cinque anarchici: Angelo Casile, Gianni Aricò, Franco Scordo, Luigi Lo Celso e Annalise Borth, muoiono in un misterioso incidente stradale mentre si recavano in auto dalla Calabria a Roma per portare alla redazione di ‘Umanità Nova’ elementi di controinformazione sulla strage del treno a Gioia Tauro.
Non mancano in questo contesto atti controversi come quello dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi (17 maggio 1972) per il quale verranno accusati strumentalmente nel 1988 tre militanti del gruppo dell’estrema sinistra Lotta Continua.
Valpreda e compagni verranno scarcerati il 30 dicembre 1972 dopo tre anni di carcere ed una legge approvata in Parlamento dietro l’impulso dell’indignazione popolare: verrà poi riconosciuta nel 1981 dalla Corte d’appello di Catanzaro la loro totale estraneità alla strage (vennero però condannati per associazione a delinquere, così, tanto per giustificare gli anni trascorsi nelle celle). I neofascisti Franco Freda e Giovanni Ventura, insieme ad agenti e dirigenti del servizio segreto, verranno prima condannati e poi definitivamente assolti fra il 1972 e il 1991.
Intanto una nuova inchiesta verrà aperta a Milano nel 1989 e si concluderà con il rinvio a giudizio di un gruppo di neofascisti facenti capo ad Ordine Nuovo del Veneto in combutta con servizi segreti americani e italiani. Condannati all’ergastolo in prima istanza, verranno successivamente e definitivamente prosciolti da una sentenza della Corte di Cassazione, che pur riconoscendo la matrice neofascista della strage e le responsabilità di Freda e Ventura (non più condannabili a causa della precedente assoluzione, confermata dalla Cassazione) non ne individuò gli esecutori materiali. Per concludere, i familiari delle vittime della strage avrebbero dovuto anche pagare le ingenti spese processuali! Lo Stato non condanna se stesso. È il 3 maggio 2005.
Per quanto riguarda la vicenda di Giuseppe Pinelli, registriamo fin da subito l’archiviazione della sua morte come ‘fatto accidentale’ da parte del giudice istruttore e la riapertura del caso grazie soprattutto alla martellante campagna di stampa del settimanale ‘Lotta Continua’, che indicando nel commissario Calabresi il principale responsabile dell’assassinio di Pinelli lo costringe di fatto a querelare il direttore responsabile del periodico, Pio Baldelli. Nel processo che seguirà, si evidenzieranno le palesi contraddizioni dei poliziotti presenti nella stanza, a tal punto da far sospendere il processo con scuse risibili. Sarà la vedova di Pinelli, Licia Rognini, a riportare in tribunale il commissario ed i suoi sottoposti nell’ottobre del 1971, accusandoli dell’assassinio del nostro compagno, ma il processo verrà interrotto con l’omicidio del commissario nel maggio del 1972, un’interruzione che giunge più che opportuna, in considerazione delle verità che stavano emergendo nel dibattimento e che getterà molti dubbi e favorirà molte letture sull’omicidio del commissario.
L’inchiesta giudiziaria proseguirà ed il 27 ottobre 1975 il giudice progressista Gerardo D’Ambrosio, diventato poi famoso per ‘Mani pulite’ e successivamente parlamentare per il Partito Democratico, la chiuderà con una sentenza paradossale: per non incolpare i poliziotti e non riconoscere la loro versione del suicidio si inventerà un ‘malore attivo’, un malore cioè che, causato dallo stato di stress in cui si trovava, avrebbe spinto Pinelli a saltare la balaustra della finestra e cadere nel vuoto. Una sentenza scandalosa che si può capire solo con il clima politico di allora, caratterizzato dal compromesso storico teorizzato dal Partito Comunista Italiano interessato ad un rapporto di collaborazione con il partito dominante, la Democrazia Cristiana, nel cui seno si trovavano gli ispiratori delle stragi. Il caso Pinelli avrebbe potuto disturbare i manovratori.
Ed è forse per il disagio che questa vicenda ha lasciato in molti protagonisti di allora che nel 2009 il presidente della Repubblica, Napolitano, già importante militante del PCI, ha voluto invitare la vedova Pinelli – insieme alla vedova Calabresi – ad una cerimonia pubblica in ricordo delle vittime del terrorismo, annoverando quindi il nostro compagno tra le vittime di quella strategia stragista antipopolare.
Noi continueremo comunque il nostro impegno nel ricordare che ‘la strage fu di Stato’ e per rivendicare la verità sull’assassinio di Pinelli, in sintonia con l’impegno totale del movimento anarchico di allora, teso a spezzare l’isolamento politico in cui la manovra stragista voleva metterlo e a spezzare il tentativo di mettere in riga il movimento operaio e di spegnere la conflittualità sociale.
È a partire dalla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 che si dipana con maggior forza l’operazione politica che, con stragi, minacce di colpi di stato, leggi eccezionali, provocazioni, manipolazioni mediatiche, riesce a garantire, almeno fino ad oggi, gli assetti di potere, ridisegnando il sistema dei partiti, cloroformizzando e recuperando le organizzazioni sindacali maggioritarie, emarginando e criminalizzando i ‘non sottomessi’.
Infatti, dalla stagione delle stragi e delle minacce golpiste, alla dura repressione dei movimenti di questi anni, alla ripresa dell’attività nazifascista, alla sindrome securitaria con la sua legislazione d’emergenza e la criminalizzazione dei migranti, un filo si snoda ininterrottamente: il filo di una politica che, al di là di alcuni aggiustamenti di facciata, mantiene inalterato il suo carattere autoritario e classista.
Due dati emergono chiaramente da questa stagione: da una parte la responsabilità – confermata dalla specificità dei condannati, degli inquisiti, dei sospettati – della manovalanza neofascista e neonazista nel compimento dell’atto stragista; dall’altra il ruolo di manovratore, di burattinaio, da parte di precisi organi dello Stato nel pianificare, organizzare, occultare, gestire questa strategia.
Gli armadi della Repubblica sono pieni di menzogne e di operazioni speciali, ma anche la nostra memoria è piena dei fatti ad essi collegati.
La necessità di riproporre il senso ed il significato di quella storia, almeno in alcuni dei suoi punti salienti, è quindi sempre importante, con l’obiettivo non solo di ricordare alcuni fatti e alcune figure che hanno segnato il nostro tempo, ma di delineare una cornice di riferimento dalla quale far ripartire una critica radicale sempre più condivisa in un contesto dominato dalla sindrome securitaria figlia della guerra infinita e della grande menzogna che le sta a monte, funzionale alla strumentalizzazione dei fatti e all’annichilimento delle coscienze. In sostanza al mantenimento dello sfruttamento capitalista e dell’oppressione statale.
La data del 12 dicembre può mantenere ancora oggi tutta la sua valenza solo se non la si fa affogare nel ‘come eravamo’ e nel ‘reducismo inoffensivo’.
Questa è la volontà delle iniziative che come movimento continuiamo a sviluppare nella denuncia e nella lotta allo Stato della strage e della guerra.
Massimo Varengo