Svolta socialdemocratica a NYC? L’elezione di Zohran Mamdani

L’elezione di Mamdani a sindaco di New York City ha ridato un certo entusiasmo a una sinistra riformista che vive in uno stato di prostrazione e confusione dal momento della vittoria di Trump alle presidenziali. Mamdani ha prima vinto le primarie democratiche e poi ha vinto sia contro il candidato repubblicano che contro l’ex democratico Cuomo. Fin dall’inizio è stato attaccato da Trump che l’ha tacciato di essere un comunista che avrebbe distrutto NYC. L’essere stato attaccato

dall’inquilino della Casa Bianca, l’avere costretto il partito dell’asinello a spostarsi notevolmente a sinistra in una delle principali metropoli statunitensi, nonché una delle metropoli per eccellenza a livello globale, così come le prese di posizione nettamente critiche verso l’operato del governo israeliano, hanno costruito un notevole credito presso l’opinione pubblica di sinistra, anche quella radicale, a livello globale.

La vittoria di Mamdani è stata possibile perché a lui e al suo programma hanno dato fiducia milioni di cittadini appartenenti sia ai ceti popolari le cui condizioni di vita sono state massacrate da decenni di inflazione rampante – parliamo di uno dei luoghi più costosi al mondo – sia alla borghesia intellettuale e delle professioni liberali di fede politica liberaldemocratica. Le proposte di espansione della spesa sociale sono state il cavallo vincente di Mamdani così come la sua capacità di parlare a un elettorato demograficamente assai composito, attirando voti anche di elettori MAGA.

Ma potranno questi figliocci della borghesia intellettuale, perchè questo è Mamdani e questo è il suo entourage, rappresentare una via d’uscita dalla traiettoria autoritaria che il neoliberismo sta compiendo da anni? Le proposte politiche socialdemocratiche – ma sarebbe più corretto chiamarle demo-socialiste in quanto neanche a livello teorico viene posto l’obiettivo di superamento della società mercantile, come invece faceva la socialdemocrazia storica – nel corso del novecento hanno svolto il ruolo di puntello sinistro del capitale, garantendo, con un’apertura a fisarmonica data dai rapporti di forza tra classi, la ridistribuzione di una quota parte dei profitti. Ma questo era possibile con un’economia basata su di una produzione industriale, spesso ad alto valore aggiunto, e con l’apporto del valore estratto dalla periferia del sistema mondo mediante la spoliazione coloniale. Con la fine delle grandi concentrazioni industriali in Occidente, il ridisegnarsi post-coloniale

dei rapporti con i territori della periferia, e con nuove dinamiche nei rapporti tra le classi grandemente favorevoli alla classe dominante il meccanismo di ridistribuzione è entrato in una crisi da cui non si è mai ripreso.

L’era della spesa pubblica statunitense ha coinciso con un’economia industriale statunitense che produceva surplus e lo vendeva all’estero, una bilancia commerciale a proprio favore che permetteva di distribuire parte dei profitti. Ricordiamo che la classe operaia statunitense è stata per lunghi decenni la più prospera a livello globale insieme a quella delle socialdemocrazie nordiche, ma a partire dagli anni ’70 questa fase è cessata con lo stravolgimento della fine degli accordi di Bretton Woods, la concomitante crisi petrolifera e la trasformazione dell’economia statunitense in un economia in deficit, che è però sostenuta dalla finanziarizzazione e dalla possibilità di esercitare una straordinaria forza militare. Questa tendenza si è rafforzata grandemente nel decennio reaganiano ed è proseguita per tutti gli anni novanta e duemila fino alla crisi finanziaria del 2008.

Per tutto il corso degli anni dieci del ventunesimo secolo, nonostante gli interventi dell’amministrazione Obama, si è nei fatti rafforzato un meccanismo che ha messo sempre più in crisi il ceto medio statunitense e quel minimo di ammortizzatori sociali; pensiamo all'”Obamacare” in ambito sanitario o ai ristori nel periodo del lockdown, che non hanno comunque potuto invertire la tendenza. L’impennata dei prezzi negli ultimi due anni ha duramente colpito i ceti popolari e ha ulteriormente eroso il reddito di un ceto medio sempre più impoverito. A New York vi è stato anche un contemporaneo aumento del valore immobiliare che ha portato a un aumento del costo delle locazioni rendendo inaccessibili sempre più quartieri a chi prima vi abitava.

Mamdani potrà provare a ridare fiato a politiche espansive della spesa pubblica orientandola alle spese sociali ma tutto ciò che si muove entro le gabbie di compatibilità capitalista deve sottostare alle regole del gioco. Un gioco in cui le risorse vengono trasferite dalle periferie verso il centro, nel migliore dei casi garantendo ai ceti popolari del centro condizioni di vita migliori in cambio di pace sociale. È possibile questo in una città che vive essenzialmente di terziario avanzato e finanza? La risposta è sfaccettata: è possibile una maggiore distribuzione ma a patto che continui l’opera di drenaggio di risorse dalle periferie al centro. Di conseguenza è possibile un parziale miglioramento delle condizioni di vita dei ceti popolari newyorkesi, sempre che l’amministrazione federale non blocchi fondi e che gli apparati burocratici cittadini non si mettano di traverso, ma a patto del mantenimento di un rapporto di sudditanza del resto del sistema mondo nei confronti del centro dello stesso.

Nonostante alcune pesanti contraddizioni, Mamdani, che non ha mai rinnegato gli ambienti islamisti militanti, omofobi e antisemiti guidati da Siraj Wahhaj, Imam di un’importante moschea di Brooklyn ed ex esponente della Nation of Islam, ma contemporaneamente si presenta come “alleato” della “comunità” LGBTQ ed è riuscito a non alienarsi troppo l’elettorato ebraico newyorkese (con l’esclusione delle componenti chassidiche, sia sioniste che antisioniste, che votano storicamente per i repubblicani), è riuscito a tenere insieme i temi economici con i temi delle libertà civili.

A fronte di questo risulta difficile comprendere l’entusiasmo a queste latitudini se non per l’aspetto simbolico della vittoria. Ma con il simbolico non si mangia, sopratutto quando la spesa pubblica statunitense potrebbe finire per essere finanziata da ancora maggiori cicli di finanziarizzazione dell’economia europea o dall’acquisto di tecnologia bellica statunitense per il riarmo dei paesi NATO.

Appare evidente che è necessario dispiegare una critica a tutto tondo del sistema economico e delle strutture sociali che ne garantiscono la riproduzione e l’espansione, tenendo conto che gli aspetti di regolazione del sistema, che lo stato ha anche all’interno del neoliberismo più marcato, non possono fornire gli strumenti per rompere la gabbia di compatibilità entro cui vengono garantiti lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e l’irrazionale economia capitalista.

Al netto di questo va comunque rilevato come il voto di New York, e l’entusiasmo di riflesso che ha generato nel resto dell’occidente, mostra come i temi delle condizioni di vita siano centrali per qualsiasi proposta politica che miri ad avere un consenso di massa. Le vie riformiste hanno il fiato corto e non possono affrontare il dato globale di un sistema profondamente irrazionale, ma il fatto che intorno ad esse si coaguli il consenso di ampie parti della società dimostra come sempre più persone sentano la necessità di riportare al centro del dibattito politico le questioni che impattano direttamente sulle condizioni materiali della loro vita. Il neoliberismo ha svuotato di senso il dibattito politico riservando allo stato solo il ruolo di mantenimento manu militari dell’ordine e di amministrazione dell’ordinario, presentando un assetto economico del tutto particolare come “fatto naturale”. Ma le questioni fatte uscire dalla finestra tendono a rientrare dal portone.

Se l’elezione di Mamdani e una possibile svolta a sinistra del governo locale non potranno mai affrontare le questioni di base, come abbiamo visto, è comunque l’indice di un sentire comune che va tenuto in considerazione, tenendo comunque conto che New York e le altri grandi metropoli costiere, con l’aggiunta di Chicago, rappresentano se stesse e non l’interezza di un paese di dimensioni quasi continentali. In queste crepe nel consenso verso l’ordine neoliberale, chi si muove sul terreno dell’internazionalismo, della lotta di classe e della libertà da tutte le forme di oppressione, dovrà trovare il modo di incunearsi con forza.

lorcon

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