Rieccoci, i registi della Casa Bianca ci presentano di nuovo lo stesso film della serie “l’impero colpisce ancora”, sempre con la stessa trama, ma questa volta ambientato sulle coste del Venezuela in salsa trumpiana. Si fanno noiosi, hanno davvero poca fantasia questi vampiri del potere assetati di sangue e controllo. A questo giro di giostra dell’orrore la grande potenza USA brandisce la bandiera della guerra al narcotraffico per giustificare la sua proiezione militare. L’ennesimo pretesto impacchettato – come suole – da salvatore, per giustificare un’altra guerra, ma sempre per accaparrarsi petrolio, risorse e potere e anche per scongiurare la bancarotta degli USA ormai alle porte.
L’amministrazione Trump ha intensificato in modo inquietante la retorica su Maduro, accusandolo di guidare un “Cartello de los Soles”, di essere un narcotrafficante, un “narco-terrorista”. Secondo Trump e i suoi sostenitori, una parte significativa del flusso di droga – specialmente cocaina – proviene dal Venezuela o passa attraverso il Paese, quindi il progetto geniale questa volta è: andiamo a devastare il cattivo narcostato del Venezuela, ci mettiamo un fantoccio/a filoamericano/a a capo, e salviamo i nostri giovani poco produttivi resi zombie dal fentanyl (oppioide sintetico che ha causato un’ondata di morti per overdose) sulle strade di Los Angeles, anche se di questi a Trump non gliene è mai sbattuto nulla, ma sono pur sempre ottimi pretesti.
Tuttavia, osservatori indipendenti e analisti hanno messo fortemente in dubbio queste accuse. Come già menzionato nell’ottimo articolo di Massimo Varengo (Umanità Nova del 12 novembre), secondo Pino Arlacchi, ex direttore dell’UNODC, il Venezuela non è un narcostato: le accuse non sarebbero supportate da report concreti delle agenzie internazionali antidroga. In più, come denuncia il sito Contropiano, rapporti delle Nazioni Unite menzionano marginalmente il Venezuela, indicando che solo una piccola frazione della droga colombiana transita per il Paese.
Insomma, la demonizzazione su base narcotraffico sembra in molti casi un espediente propagandistico, utile a legittimare un’ulteriore pressione militare immediatamente successiva all’investimento, negli ultimi 2 anni, in armi di distruzione di massa fornite allo stato amico di Israele per compiere il genocidio a Gaza e mantenere la politica di apartheid.
Secondo gli ultimi articoli di stampa, gli USA hanno dispiegato una flotta navale importante nei Caraibi come parte di operazioni “anti-narco” che, agli occhi di molti, suonano come un riavvio della classica “gunboat diplomacy”.
Ma qual è il vero bottino? Dietro a queste accuse non è certo da ignorare che il Venezuela è ricco di riserve petrolifere enormi e che la sua storia energetica è profondamente intrecciata con gli interessi statunitensi. Per decenni gli USA hanno mantenuto un interesse strategico per il petrolio venezuelano: basti pensare alle nazionalizzazioni petrolifere in Venezuela, al potere sempre oscillante di PDVSA, la compagnia statale e al modo in cui Washington ha reagito con sanzioni e pressioni politiche. In più, non è certo la prima volta che gli Stati Uniti si giustificano con pretesti morali (“combattiamo il male della droga”) per intervenire in un paese strategico, anche economicamente.
Per comprendere la situazione attuale occorre guardare anche alla storia dell’imperialismo statunitense, alle sue strategie e a come il controllo delle risorse (soprattutto petrolio) ha spesso guidato le sue azioni. Ecco di seguito alcuni esempi.
– Plan Colombia: è uno degli esempi più lampanti di come la retorica della “guerra al narcotraffico” venga usata per motivi geopolitici ed economici. Il Piano Colombia, sostenuto dagli Stati Uniti, non era solo una campagna antidroga, ma anche un’operazione di sostegno alla sicurezza che mirava a stabilizzare la zona per proteggere interessi strategici, tra cui il petrolio.
– Interventi per risorse energetiche in America Latina: gli USA hanno una lunga storia – spesso nascosta – di coinvolgimento nei Paesi latinoamericani quando vi sono in ballo risorse naturali. Ad esempio, l’operazione FUBELT in Cile (1970–1973) è uno dei casi più noti. la CIA intervenne per destabilizzare il governo Allende, con il timore che la sua politica potesse minacciare interessi economici americani.
– Operazione Condor: negli anni ’70 e ’80, gli Stati Uniti hanno supportato reti di repressione transnazionali in Sud America (Argentina, Cile, Paraguay, Uruguay, Bolivia…), ufficialmente contro la “subversione”, ma con conseguenze concrete di controllo politico e repressione, spesso con la collaborazione di regimi di destra autoritari.
– Nicaragua: negli anni ‘80 durante la guerra civile, i ribelli Contras, sostenuti dalla CIA, sono stati accusati di traffico di cocaina per finanziare la loro lotta contro il governo sandinista. Documenti declassificati mostrano che funzionari del NSC (Consiglio di Sicurezza Nazionale USA) erano consapevoli dei legami tra alcuni comandanti dei Contras e trafficanti di droga. Un’inchiesta del Senato (il “Kerry Committee”) rilevò che alcuni fondi destinati ai Contras derivavano da intermediari connessi al narcotraffico. Alcune fonti sostengono che gli USA abbiano sfruttato la narrazione del “narco-terrorismo” per giustificare il sostegno militare ai Contras.
– Afghanistan: oppio e forti responsabilità americane. Emergono sempre più prove reali e complesse di un coinvolgimento della CIA nei campi di papavero afghani. Durante l’invasione sovietica (anni ’80), gli USA, con l’operazione Cyclone, sostennero i mujaheddin, alcuni dei quali, come Gulbuddin Hekmatyar, usarono l’aiuto della CIA per costruire reti di traffico d’oppio e laboratori di eroina. Più recentemente (2004-2015), la CIA avrebbe avviato un progetto segreto per sabotare la produzione di oppio: aerei sorvolavano i campi di Helmand e Nangarhar per disperdere semi di papavero selezionati, con bassa concentrazione di alcaloidi, così che le piante risultanti contaminassero geneticamente le coltivazioni native, riducendo la purezza dell’oppio. È chiaro il sostegno politico e militare degli USA a gruppi che, a loro volta, sfruttano l’oppio come risorsa economica. Il programma di semina segreta mostra una forma sofisticata di “guerra alternativa”: non colpire direttamente i contadini, ma cercare di degradare la qualità del papavero per ridurre il valore dell’oppio. Ci sono documenti e analisi autorevoli che sostengono l’idea che la CIA e gli USA abbiano tratto un vantaggio strategico (e in parte economico) dal traffico di oppio in Afghanistan, soprattutto durante la guerra sovietica.
È necessario inoltre guardare anche la dimensione internazionale e sanitaria delle dipendenze, per provare a capire la questione del narcotraffico in un’ottica non solo geopolitica.
Secondo l’ultimo Rapporto Mondiale sulle Droghe (World Drug Report) 2025 dell’UNODC, il consumo globale di droghe non alcoliche è aumentato significativamente: nel 2023, circa 316 milioni di persone tra i 15 e i 64 anni hanno fatto uso di almeno una sostanza illegale, rispetto al 5,2% nel 2013. Le sostanze più usate sono la cannabis (circa 244 milioni di utenti), seguita da oppioidi (61 milioni), amfetamine (30,7 milioni), cocaina (25 milioni) ed ecstasy (21 milioni). Inoltre, il mercato della cocaina ha toccato il picco nel 2023: la produzione illegale è stimata in 3.708 tonnellate, un aumento del 34% rispetto all’anno precedente. Questo boom globale, secondo l’UNODC, alimenta un circolo vizioso: maggiore domanda → maggiore produzione → più criminalità, violenza e instabilità. D’altra parte, dal punto di vista della salute, l’ONU segnala che solo una minima parte delle persone con disturbo da uso di sostanze riceve cure adeguate: nel suo report, si evidenzia un forte “gap di trattamento”. In sintesi, la dipendenza è sempre più presente, eppure le risorse investite nei sistemi sanitari non tengono il passo con il problema: spesso prevalgono le politiche punitive rispetto a quelle di salute pubblica e non solo nei “liberali” USA.
Bisogna anche chiedersi, per esempio, cosa potrebbe succedere se gli Stati Uniti smettessero di impiegare risorse per minacciare, intimidire e attaccare, e invece investissero quegli stessi mezzi in un grande piano di sanità pubblica per le loro stesse popolazioni, con un’attenzione vera alle dipendenze. È questa la domanda che dobbiamo porre non soltanto a chi è oggetto della guerra, ma anche a chi la paga, e cercare di capire come si potrebbe fare diversamente. Molti esperti denunciano che la strategia dominante nel contrasto alle droghe – specialmente quella esportata dagli Stati Uniti – privilegia la repressione e la criminalizzazione rispetto a cure, prevenzione e riduzione del danno. L’organizzazione Harm Reduction International, ad esempio, ha pubblicato un rapporto in cui critica l’allocazione delle risorse: gran parte dei soldi viene destinata alla “guerra” piuttosto che a politiche sanitarie basate sull’evidenza (Harm Reduction International). Questo modello non solo fallisce nel ridurre in modo sostenibile il mercato delle droghe, ma spesso causa danni diretti a comunità vulnerabili, criminalizza persone tossicodipendenti, aggrava la disuguaglianza e minaccia i diritti umani. Il vero “narco-stato” è la logica imperialista che usa il pretesto della droga per giustificare interventi violenti e sfruttamento, mentre ignora i bisogni reali delle persone che soffrono.
Secondo Peoples Dispatch, il costo operativo navale per le navi USA dispiegate nei Caraibi (in un’ipotetica operazione contro il Venezuela) è stimato in almeno 18 milioni di dollari al giorno. Una guerra USA–Venezuela, se condotta su vasta scala con l’obiettivo di “vincere” e stabilizzare, potrebbe costare decine di miliardi di dollari, una cifra molto alta anche per il Pentagono, e non sostenibile senza impatti seri sul bilancio. Diciamo tra i 20 e i 50 miliardi. Con quegli stessi 20-50 miliardi (o più), gli Stati Uniti potrebbero realizzare un piano molto ambizioso ma realistico di sanità pubblica universale o quasi, potenziando la cura delle dipendenze, la prevenzione, la salute mentale, e riducendo enormemente la sofferenza sociale interna. Vogliamo fare un calcolo molto più conservativo e ridurre per esempio la spesa a 10 miliardi l’anno? Con 10 miliardi di dollari è realistico costruire un piano pubblico ambizioso per trattare un numero significativo (1-2 milioni) di persone con dipendenze negli USA, incluso formazione per il personale, programmi di riduzione del danno, servizi domiciliari e penso si potrebbe pure offrire il caffè venezuelano a gratis, dai.
Se lo Stato investisse nel prendersi cura, non nel punire o intimidire, mostrerebbe la responsabilità verso i propri cittadini (che poi in teoria sarebbe l’unica ragione per cui uno Stato dovrebbe esistere secondo certi discutibili modelli democratici di contratto sociale). Invece di inviare portaerei e flotte navali, potrebbe costruire centri di recupero; in luogo di bombardare basi straniere, potrebbe distribuire naloxone e sostegno psicologico. Un programma così non solo affronterebbe l’epidemia di fentanyl dall’interno, ma spezzerebbe la narrazione secondo cui lo Stato si occupa della droga solo per ragioni di sicurezza. Dimostrerebbe che la vera sicurezza è la vita, non il controllo; che la politica non è dominio, ma servizio e solidarietà.
Dati recenti riportano, per esempio, che i sequestri di fentanyl negli Stati Uniti sono esplosi: tra il 2017 e il 2023, i sequestri sono aumentati del 1.700%, con una parte consistente rappresentata da pillole; un rapporto segnala un calo del 30,6% in un anno dei decessi da fentanyl. Secondo Reuters, il calo complessivo delle morti per overdose è anche attribuibile a misure pubbliche di salute (distribuzione di naloxone, supporto terapeutico), non solo a politiche repressive.
Immaginiamo un piano radicale, un programma nazionale di sanità pubblica gratuita negli USA, che abbia, tra i suoi pilastri, da una parte una prevenzione massiccia nelle scuole, nelle comunità, nelle aree urbane più vulnerabili, con campagne di educazione sulle dipendenze; dall’altra, un piano impostato su trattamento e riabilitazione, con cliniche gratuite o sovvenzionate per il disturbo da uso di sostanze, incluso un forte sviluppo della riduzione del danno (terapie sostitutive e psicoeducazione).
Non possiamo dimenticare che parte dell’epidemia di tossicodipendenze negli Stati Uniti ha radici nelle politiche sociali mancanti: un welfare debole, disuguaglianze crescenti e una sanità pubblica inadeguata che negli ultimi vent’anni hanno lasciato milioni di persone vulnerabili, esposte allo stress, alla solitudine e alla disperazione. Quando lo Stato non garantisce un sostegno materiale – lavoro stabile, cure, solidarietà – molti finiscono per cercare nelle droghe un sollievo, un rifugio. Si crea un terreno fertile su cui prospera il dolore. Questa malattia sociale non è solo colpa di chi la subisce: lo Stato stesso ne è corresponsabile, non solo per omissione, ma anche per azione. E non è solo un fenomeno contemporaneo. Già negli anni ’60 e ’70 l’uso massiccio di LSD, marijuana e altri psichedelici nel movimento hippie non era del tutto estraneo a manovre statali. Documenti storici suggeriscono che la CIA, nell’ambito del progetto MK-ULTRA, abbia finanziato ricerche sull’LSD e sperimentato su giovani aderenti alla controcultura. Se lo Stato è indiretto o addirittura diretto artefice di quegli “esperimenti socioculturali”, chi ci assicura che non possa aver gettato le basi per un’epidemia ben più ampia oggi, alimentata da povertà, disuguaglianza e un sistema sanitario che preferisce criminalizzare la dipendenza piuttosto che curarla?
Non possiamo accettare che la retorica della sicurezza e della moralità nasconda interessi economici profondi, di controllo e rapina delle risorse. Alla fine, la vera soluzione non risiede nella guerra, ma nel sociale, nella sanità, nella prevenzione, nella cura. Investire nella salute pubblica, nella riduzione del danno, nell’educazione, nella riabilitazione significa affrontare la dipendenza per quello che è: una questione umana, non un capro espiatorio geopolitico. Non è con le portaerei o con le sanzioni che si costruisce un mondo libero e giusto, ma con la dignità, la solidarietà e la vera libertà.
Lo Stato ha sempre le mani sporche di sangue, corruzione, e sofferenza. Smettiamo di chiedere alla violenza di farsi solidarietà, smettiamo di chiedere alla guerra di farsi pace, smettiamo di chiedere agli oppressori di fare libertà, smettiamo di chiedere e riprendiamoci tutto!
Gabriele Cammarata