Pare che Trump sia ancora indeciso tra lo sferrare un attacco militare o l’aumentare la pressione affinché Maduro molli la presidenza e s’installi a Caracas un governo amico.
Intanto la più massiccia concentrazione di forze navali e di truppe da sbarco mai registrata dai tempi della crisi dei missili russi a Cuba nel 1962 si è schierata nei pressi di Trinidad e Tobago, mentre la USS General Ford – la più grande portaerei statunitense – ha lasciato il Mediterraneo e si sta dirigendo verso il mar dei Caraibi. Si parla di 15 tra incrociatori e cacciatorpedinieri lanciamissili, un sottomarino a propulsione nucleare e bombardieri di varia stazza e natura, pronti alla bisogna nelle loro basi in territorio USA, mentre a Puerto Rico stazionano 15mila marines. Non mancano poi le azioni segrete degli agenti della CIA infiltrati nel territorio.
Intanto si susseguono gli attacchi aerei a pescherecci, piccole imbarcazioni che navigano al largo delle coste venezuelane, accusate – senza prove – di trasportare quantitativi di droga verso la Florida (fino ad oggi sono 16 le barche colpite e 64 i morti ammazzati). Attacchi al di fuori di ogni diritto e di ogni accordo internazionale, anche se questo non dovrebbe stupirci più di tanto, stante la natura stessa del diritto, frutto, sempre e comunque, dei rapporti di forza vigenti.
Il paese nordamericano non è nuovo a queste sortite: già nel dicembre del 1989, 26mila soldati USA invasero il Panama per destituire il presidente Noriega, divenuto ingovernabile dopo anni di servizio nella CIA, per sostenere, con il traffico di droga, i contras impegnati a sconfiggere la rivoluzione sandinista nel vicino Nicaragua. Come Noriega, anche Nicolas Maduro è accusato, senza prove tangibili, di essere un narcotrafficante, a capo di un cartello di narcos: sopra di lui pende una taglia di cinquanta milioni di dollari, stanziati ovviamente dal governo USA. A questo proposito è bene ricordare le affermazioni di Pino Arlacchi, già sottosegretario generale ONU e direttore dell’Ufficio ONU per il controllo delle droghe dal 1997 al 2002, grande esperto di narcotraffici, che recentemente, in un articolo pubblicato su “Il Fatto Quotidiano” del 30 agosto u.s., ha citato il Rapporto mondiale sulle droghe del 2025, in cui si evidenzia come il Venezuela sia interessato unicamente dal passaggio di una frazione marginale della droga colombiana, confermando i contenuti e le analisi dei 30 rapporti annuali precedenti. “Solo il 5% della droga colombiana transita attraverso il Venezuela. Ben 2.370 tonnellate – dieci volte di più – vengono prodotte o commerciate dalla Colombia stessa, e 1.400 tonnellate passano dal Guatemala”: così riporta Arlacchi nel suo articolo. Inoltre il vero problema degli USA è il fentanyl, un potente oppiaceo prodotto nei laboratori, grazie a precursori chimici provenienti dalla Cina e introdotto nel paese da cartelli di narcos messicani.
Viene da chiedersi allora cosa si nasconde dietro questa operazione militare, che sembra sempre più simile a quella ‘speciale’, inaugurata da Putin nel 2022.
Negli ultimi anni, l’America del sud – al pari dell’Africa – è entrata nei piani di sviluppo e d’influenza cinese: in Perù il paese asiatico ha realizzato un porto poco a nord di Lima che riduce la navigazione di una decina di giorni verso l’estremo oriente, attirando il traffico commerciale sia del nord che del sud America. Inoltre aumentano gli investimenti cinesi e, di conseguenza, la crescita delle zone d’influenza.
Come avviene in Brasile, dove Lula non solo firma accordi commerciali con Pechino, ma è anche alla guida dei Brics, l’insieme che raggruppa i Paesi con più della metà del PIL mondiale.
In questo contesto Trump si sta muovendo per riprendere il controllo di quella che, secondo la dottrina Monroe – dal nome del presidente USA che la elaborò nel 1823 – è la primaria area d’influenza degli USA: l’America centro-meridionale. Nata con intenti difensivi dalla volontà colonialista e imperialista delle potenze europee, tale dottrina si è via via evoluta con la trasformazione degli Stati Uniti in una potenza industriale e militare. Come affermò Theodore Roosevelt nel 1904: “Stante la dottrina Monroe, comportamenti cronici sbagliati nel continente americano richiedono l’intervento di polizia internazionale da parte di una nazione civilizzata”. In questa affermazione c’è tutta l’arroganza e la volontà dominatrice del capitalismo nordamericano e del suprematismo bianco che hanno portato gli USA ad assumere il ruolo di poliziotto internazionale nella propria area d’influenza e non solo.
Con il sostegno al golpista Jair Bolsonaro in Brasile, al presidente argentino Javier Milei, al quale sono stati garantiti 25 miliardi di dollari per assicurargli la vittoria nelle recenti elezioni di medio termine, con le pressioni economiche e politiche per aumentare i voti contrari (Argentina e Paraguay) e gli astenuti (Ecuador e Costarica) nelle votazioni ONU contro il blocco di Cuba, con le sanzioni economiche e politiche al presidente della Colombia Gustavo Petro e alla sua famiglia, e ora con la minaccia militare contro il Venezuela, gli USA vogliono riprendere il controllo del ‘cortile di casa’. Il Venezuela poi è particolarmente ricco di una delle risorse più ambite da Donald Trump: il petrolio. Quel petrolio che lo ha spinto a minacciare un altro intervento militare, questa volta in Nigeria, altro grande produttore di petrolio, per ‘proteggere i cristiani’ – a suo dire – dagli attacchi delle milizie islamiste.
Nel caso di Maduro la crescente pressione militare potrebbe limitarsi ad avere l’ambizione di provocare, di per se stessa, l’implosione del regime, con la caduta del leader maximo e il trasferimento di potere a qualcuno di più gradito, come ad esempio il premio Nobel per la pace, Maria Corina Machado, a capo dell’opposizione, iperliberista, esponente di una potente famiglia proprietaria, fedelissima di Trump, al quale ha promesso pezzi dell’industria petrolifera venezuelana.
La cerchia intorno a Maduro è un insieme ben lontano dagli esordi della cosiddetta rivoluzione bolivariana di Hugo Chavez nel 1999. L’impostazione socialdemocratica dei primi governi chavisti, sostenuta economicamente dagli enormi introiti della rendita petrolifera, si è ben presto vanificata a fronte dell’andamento altalenante del suo prezzo sul mercato mondiale, con il conseguente taglio di servizi e sussidi, la chiusura di reparti produttivi nel settore industriale, accompagnati dalle politiche sanzionatorie e paragolpiste degli USA. Risultato: crescita della disoccupazione e dell’inflazione, perdita del potere d’acquisto dei salari, impoverimento della popolazione, ma anche arroccamento del settore militare, dei funzionari statali, degli appartenenti al Partito Socialista Unificato del Venezuela, a difesa dei propri privilegi e dei propri traffici riguardanti petrolio, oro e prodotti minerari. Nonostante questo, tutti i tentativi portati avanti dagli Stati Uniti nel sostenere i vari oppositori di destra, candidatisi nelle diverse campagne elettorali non hanno raggiunto il loro obiettivo. Ora ci si è messo anche il Comitato Norvegese per il Nobel nel promuovere Machado a capofila dell’opposizione contro Maduro, un’operazione non casuale atta a ridare fiato e forza ai nemici interni al regime e qualche giustificativo alle minacce esterne.
Molti analisti sostengono che l’opzione militare è difficile da attuarsi, sia per la dimensione del paese, sia per l’armamento diffuso in Venezuela e la presenza di diversi corpi armati, statali e parastatali, e di milizie facenti capo a diverse fazioni legate oggi al regime ma pronte ad una resa di conti interna per la spartizione del bottino. Un’invasione armata da parte degli USA potrebbe rivelarsi un boomerang per Trump e creargli dei contraccolpi all’interno del mondo MAGA, già poco propenso a sostenerlo nel suo attivismo internazionale a scapito delle questioni interne. Detto questo, mentre si deve denunciare con forza l’operazione imperialista USA nei confronti del Venezuela – e ovviamente non solo di questo – è opportuno interrogarsi sullo stato delle opposizioni di marca socialista al regime, allo scopo di capire quale spazio di manovra potrebbero avere nella crisi del paese per non consegnarlo nelle mani dell’imperialismo yankee e dei suoi sostenitori venezuelani. Un’opposizione formata da attivisti ex-chavisti, militanti di base dei quartieri popolari e delle strutture industriali, alle prese con una repressione crescente, coerente con la definizione che lo stesso Maduro ha dato del suo sistema basato sull’alleanza ‘civil-militare-poliziesca’. Un’opposizione comunque debole, priva di quelle risorse finanziarie necessarie a far fronte alla potenza dello Stato, tanto più che il regime odierno in Venezuela si configura come un regime oligarchico militarizzato e corrotto, trasformazione sempre più autoritaria dello Stato populista configurato inizialmente da Hugo Chavez, con un’economia liberale basata sul dollaro (mentre i salari sono nell’inflazionata moneta locale), l’apertura al capitale transnazionale, le privatizzazioni, le promozioni di zone economiche speciali e di zone riservate esclusivamente agli stranieri, agli affaristi e alle figure di alto profilo del regime. Il Venezuela di Maduro è sempre più estraneo a logiche e pratiche di progresso sociale, sempre più lontano dai bisogni della popolazione che si era illusa di trovare in Chavez e nello chavismo la chiave di volta per la proprie condizioni di vita.
Massimo Varengo