In questi giorni si assiste a un paradosso amaro: mentre le televisioni e i media mainstream annunciano in pompa magna la “pace” raggiunta tra i nazi-sionisti di Israele e gli aguzzini di Hamas, grazie al fascista americano di turno, bisogna guardare oltre le apparenze per comprendere la reale natura di questa cosiddetta “soluzione”. La pace di Gaza, voluta dall’amministrazione Trump e conclusa sotto il cappello di un “piano di pace” in 20 punti, altro non è che un inganno di proporzioni epiche, un copione scritto a tavolino e mascherato da progresso, senza precedenti. È un elaborato di compromessi imposti ai palestinesi, di interessi economici e geopolitici che rafforzano l’occupazione israeliana e dei ricchi capitalisti del mondo, criminalizzano qualunque resistenza palestinese a cui adesso rimane un foglio in mano con mille clausole che sanno di inganno.
Il piano di pace americano, comunicato l’8 ottobre da quella parrucca parlante di Trump, è in realtà un vero e proprio business plan internazionale voluto fortemente dagli amici trumpiani, palazzinari internazionali come Webuild SPA, ditte di sicurezza privata, big tech come Tesla; ma anche da paesi arabi come Egitto, Qatar, Arabia Saudita, ed Emirati Arabi, che cominciavano a sentirsi minacciati dallo stato sionista ormai senza alcun controllo dopo gli attacchi anche in Qatar, l’ottava nazione colpita da Israele dall’inizio del genocidio a Gaza. Pure la Giordania impaurita si è inchinata e offerta di fare la sua parte nel formare la nuova polizia palestinese, per assicurarsi ulteriore benevolenza sionista. La preoccupazione è sempre la stessa, far obbedire, sottomettere e controllare. La giustizia sociale non fa soldi.
Ma anche compagnie del gas senza scrupoli come Eni e i nuovi fascisti italiani in camicetta nera di lino hanno fatto la loro parte nel tentativo di spartirsi coi grandi assassini un pezzo della torta palestinese che fa gola a tutti. Un progetto che serve esclusivamente alle logiche colonialiste, agli interessi delle multinazionali e alle élite geopolitiche, che vedono in questa regione un campo di battaglia per il controllo delle risorse e delle rotte strategiche. Questo “accordo di pace” rappresenta un attacco brutale alla libertà e all’autonomia del popolo palestinese, un tentativo di consolidare ulteriormente l’oppressione e lo sfruttamento di un popolo che da oltre 70 anni subisce la violenza sistemica e l’occupazione militare. Non si tratta di una questione di sovranità statale o di confini, ma di liberazione dall’autorità e dallo sfruttamento. La vera soluzione risiede nella distruzione del sistema capitalista e statale che perpetua l’oppressione e lo sfruttamento, e nella costruzione di una società basata sulla libertà, l’uguaglianza e la solidarietà tra i popoli.
In questa operazione di smantellamento dei diritti, dove i “Capi di Stato” posano, perfettamente a loro agio, per farsi fotografare con il criminale Netanyahu, condannato dal tribunale penale internazionale, figure come Tony Blair, il famoso “Macellaio di Baghdad”, svolgono un ruolo di primo piano. Non si è mai fermato, Blair, nel suo cammino di guerra e destabilizzazione, contribuendo a creare le condizioni di caos e di distruzione che ora vengono usate come pretesto per ulteriori interventi militari e politiche di repressione. La sua presenza, nei processi di “ricostruzione” dei territori occupati o di mediazione diplomatica, è un esempio di come il sistema imperiale utilizzi senza vergogna i volti e le parole di chi ha già dimostrato di essere un emblema di violenza e di ingiustizia.
E cosa dire del palazzinaro internazionale Jared Kushner, genero di Trump, che, con il suo ruolo di consigliere speciale e tramite il cosiddetto “Accordo del Secolo”, ha cercato di dare una cornice diplomatica a un progetto di spartizione, colonizzazione e pulizia etnica? La sua presenza e le sue mosse sono la prova di come gli interessi economici e geopolitici siano all’origine di ogni tentativo di “pace”. Si tratta di un piano che non mira alla giustizia, ma alla perpetuazione di uno status quo che permetta il saccheggio delle risorse, la repressione dei diritti e l’accettazione del genocidio di Gaza come un passaggio normale verso la pace imposta, a condizione di uno sterminio totale. Le sue mosse sono in perfetta sintonia con le strategie di dominio globale, in cui il controllo delle risorse e la repressione dei movimenti di resistenza sono strumenti indispensabili per mantenere lo status quo. Questo accordo su Gaza ci ricorda tanto il Gattopardo… tutto cambia per non cambiare!
Cercare la pace senza uguaglianza è un’illusione. Gli israeliani oggi godono di sicurezza, libertà e di una delle economie più forti al mondo, più ricca pro capite di Francia, Giappone, Emirati Arabi Uniti o Regno Unito. I palestinesi vivono sotto il controllo militare e sono 20 volte più poveri. Questo immenso squilibrio in un territorio minuscolo delle dimensioni delle città di Enna o Caltagirone è la ricetta per conflitti ricorrenti. Gaza era impoverita ben prima del 2023, non per destino ma per l’assenza di libertà di movimento impostale, principalmente, da Israele con l’aiuto dell’Egitto e altri attori internazionali che guardavano dall’altra parte. Se il popolo palestinese riuscirà a raggiungere la libertà di base di viaggiare, gestire la propria economia e costruire una società dal basso senza politici nè partiti, potrà prosperare. Ma il piano di pace dell’amministrazione Trump adotta una strategia diversa: da una parte invita Israele a rinnegare qualsiasi intenzione di annettere Gaza, garantendo ai cittadini di Gaza il diritto al ritorno, e dall’altra prevede che Gaza, alla fine, sia governata, insieme alla Cisgiordania, da un’Autorità Nazionale Palestinese “riformata”, ovvero ancora più corrotta e ancora più sotto il controllo israeliano.
In tutta questa farsa rimane il dato che, ad oggi, gli aiuti umanitari destinati a Gaza sono ancora in gran parte bloccati o pesantemente controllati da Israele, che limita l’accesso di cibo, acqua, medicine e risorse fondamentali per la sopravvivenza della popolazione. I famosi 600 camion al giorno che sarebbero dovuti entrare dal momento della tregua sono appena 300/350. Le persone continuano a morire di fame, mentre le riserve di acqua potabile sono ormai quasi esaurite, lasciando milioni di civili in condizioni di estrema emergenza. Questa strategia di assedio e blocco sistematico aggrava la crisi umanitaria, confermando che la repressione e il controllo totale sono strumenti di oppressione che uccidono lentamente un intero popolo, senza alcuna pietà.
Insieme a tutto ciò, bisogna considerare la pesantissima escalation di violenza dei coloni in Cisgiordania, con paesini come Masafer Yatta quasi del tutto distrutti dai sionisti negli ultimi due anni. In più, in questi giorni il territorio (pattugliato dai famosi caschi blu) del sud del Libano ha subito tra i più intensi e indiscriminati attacchi contro le aree civili da parte di Israele, che si è dimostrato, ancora una volta, essere un occupante senza scrupoli, disposto a seminare morte e distruzione per mantenere il suo dominio. Questi attacchi non sono casuali, fanno parte di una strategia più ampia di Israele che mira a destabilizzare l’intera regione, a mantenere sotto violenta pressione i popoli oppressi e a rafforzare il suo progetto di creare un Grande Israele. Un piano di colonizzazione e annessione che non si ferma davanti a nulla, che si alimenta di guerra e di repressione, e che vuole espandersi senza limiti, cancellando ogni possibilità di autodeterminazione dei popoli della regione. Questi atti di aggressione nel Libano sono un avvertimento per tutti coloro che si oppongono a questa visione di conquista e di dominio, e devono essere rigettati con fermezza come parte di un disegno di sopraffazione globale.
La resistenza di Gaza e del Libano, così come le mobilitazioni di solidarietà, sono un punto di rottura con questo progetto di oppressione e colonizzazione. Dalle piazze di tutto il mondo è ormai chiaro che è il momento di unire le nostre voci e le nostre lotte contro questa minaccia, per difendere la libertà e la dignità di tutti i popoli oppressi. In tutto il mondo, le proteste si moltiplicano, e il sostegno alla “Freedom Flotilla”, e alle mobilitazioni contro il genocidio a Gaza rappresentano una risposta concreta, anche se ancora insufficiente, a un sistema che si nutre di sofferenza e oppressione. Le mobilitazioni in Italia, come “Blocchiamo tutto”, sono l’espressione di una volontà collettiva di alzare la voce contro l’indifferenza e il silenzio complice dei governi e delle istituzioni internazionali e di collegare tutte le oppressioni e tutti i popoli. Le proteste di piazza si sono diffuse rapidamente in molte nazioni, dalla Spagna alla Francia, dal Regno Unito agli Stati Uniti, dalla Grecia al Brasile. Questa solidarietà internazionale si sta consolidando come un’arma potente contro il sistema di oppressione globale, che forse ha spinto questa pace farsa. Non si tratta di semplici manifestazioni di protesta, ma di un vero e proprio grido di rivolta contro un sistema che permette, e anzi favorisce, il massacro di un popolo inerme. La solidarietà si sta facendo internazionalista, antifascista e anticapitalista, riconnettendosi con le lotte di tutte le oppressioni nel mondo: contro il razzismo, il colonialismo, la repressione statale, l’estrattivismo, lo sfruttamento, il patriarcato.
In questo quadro, la Global Sumud Flotilla emerge come un esempio di mobilitazione civica che ha permesso a energie civili assopite da tempo di manifestarsi. Pur con tutte le critiche che si possono rivolgere a una ONG – a partire dalla sua possibile dipendenza da finanziamenti internazionali, alle strategie di comunicazione, alle ambiguità di alcuni attori coinvolti – questa iniziativa ha avuto il merito di riaccendere il fuoco della solidarietà e di offrire un simbolo di resistenza. La flottiglia ha permesso di portare all’attenzione mondiale la realtà di Gaza, di rompere il muro di silenzio e di far sentire forte il grido “Palestina libera” e “Stop al genocidio”.
Non si può sottovalutare l’effetto di queste mobilitazioni: hanno risvegliato energie dimenticate, hanno riunito persone di diversa provenienza e ideologia intorno a un obiettivo comune di giustizia. In un’epoca dominata dal cinismo e dalla disfatta delle ideologie queste iniziative di solidarietà sono diventate un atto rivoluzionario, un atto di ribellione contro l’ingiustizia, contro il sistema di dominazione che ci vuole divisi e passivi.
Questa mobilitazione di massa, che si esprime attraverso proteste, cortei, azioni di boicottaggio e iniziative dirette, si configura come l’antidoto più potente contro le menzogne di chi vuol farci credere che la pace possa essere imposta con le bombe, con le sanzioni o con i trattati firmati dai burattini dei potenti. La vera pace nasce dalla giustizia, dalla fine dell’occupazione, dalla libertà di autodeterminazione del popolo palestinese.
In un’epoca in cui le grandi multinazionali e i governi globalizzati cercano di monopolizzare ogni spazio di resistenza, le mobilitazioni civili e le manifestazioni di massa sono l’unica risposta possibile. Sono l’espressione di un desiderio di libertà, di autodeterminazione e di giustizia che si fa strada tra le macerie di un sistema marcio. La lotta di Gaza, così come le proteste in Italia, in Spagna, in Francia, Nepal, Indonesia, Perù, Filippine o negli Stati Uniti, sono parte di un processo di ricostruzione di un mondo diverso, più giusto e meno oppressivo. Sono un esempio di come la solidarietà possa diventare un’arma di rivoluzione mondiale, capace di mettere in discussione tutto ciò che ci divide e di costruire un fronte comune contro le oppressioni. Otto miliardi contro quel pugno di imbecilli che vuole controllarci.
Non dimentichiamo che questa battaglia non riguarda solo Gaza o Palestina. Riguarda tutti noi, riguarda la nostra capacità di resistere, di organizzare e di lottare contro le ingiustizie globali. La solidarietà con Gaza, con la sua popolazione è un gesto di ribellione contro il sistema di oppressione che ci vuole divisi e passivi. È un invito a tutte le energie civili assopite, a tutte le coscienze che si illudono di poter cambiare le cose senza un vero sforzo collettivo.
Solo la lotta di un popolo che ha preso coscienza di sé stesso e solo la lotta di classe può portare alla vera libertà di tutte e tutti.
Gabriele Cammarata