Il 12 aprile è morto a Filadelfia Loren Goldner, per chi scrive un interlocutore dal punto di vista intellettuale e un amico che nonostante si vivesse in paesi diversi ha avuto modo di frequentare in diverse occasioni.
Mi è capitato sovente di pensare che a volte chi, scrivendo in ricordo di un compagno che è mancato, fa cenno alla sua relazione col compagno di cui tratta e ad eventi che ha vissuto assieme a lui, corre il rischio di trattare più di se stesso che di colui di cui si propone di parlare.
Pure, in questo caso, credo che un paio di aneddoti possano dare un’idea di alcune caratteristiche peculiari di Loren Goldner che contribuiscono a spiegare il suo percorso politico e teorico.
Diversi anni addietro quando venne in visita a Torino, come è abbastanza normale in casi del genere io e la mia compagna lo accompagnammo a visitare la città. Lui, in luogo di chiedere di vedere i monumenti e i quartieri più belli della città volle andare nei quartieri proletari, Le Vallette, Mirafiori, Barriera di Milano con una serena indifferenza all’estetica o, se vogliamo, manifestando preferenze estetiche che mi stupirono alquanto.
Anni dopo, quando mi recai negli Stati Uniti, ci capitò di andare in un ristorante in una località che non ricordo. Era un locale, a mio avviso, assolutamente normale; ciò che mi colpì non favorevolmente fu il fatto, non si era ancora almeno in Italia nell’attuale fase salutista, che non si poteva fumare e che non servissero alcolici.
Loren si lamentò vivacemente del fatto, che a me era assolutamente indifferente, che i clienti erano tutti bianchi e che non vi fossero afroamericani, asiatici, ispanici.
Vi era insomma in lui un’attenzione prioritaria alla presenza o assenza di proletari negli ambienti che frequentava, un segnale di una centralità per lui della questione di classe che assumeva una rilevanza esistenziale almeno a mio avviso, e certo io non sono indifferente a quest’ordine di problemi, decisamente particolare se non unica.
La formazione politica radicale di Loren risale ai primi anni ’60 del secolo scorso quando partecipa a numerose dimostrazioni per l’integrazione razziale sui posti di lavoro.
Sono anni di rapida evoluzione per la nuova sinistra sia negli USA che a livello internazionale.
Negli USA in particolare la questione “di razza” ha uno straordinario rilievo e vede come protagonisti, ovviamente, i neri ma, anche, la sinistra bianca, i liberal, che in quel momento si riconosce in larga parte nel Partito Democratico e nel presidente degli USA Lyndon Johnson, espressione di un Partito Democratico rooseveltiano erede del New Deal che nel 1964 ha firmato l’atto per i diritti civili.
Quando, nel 1965, lo stesso Lyndon Johnson decide di bombardare il Vietnam del Nord e di invadere la Repubblica Dominicana, si dà una rottura nell’area liberal e la nascita di una nuova sinistra che non si riconosce più nel Partito Democratico che, d’altro canto, subisce un radicale declino, non torna al governo per un ventennio e, quando lo farà, avrà poco a che fare con la tradizione rooseveltiana.
L’opposizione alla guerra determinò una straordinaria radicalizzazione, basta pensare al fatto che, fra il il 1966 e il 1973, il numero dei renitenti alla leva fra i giovani statunitensi fu di circa mezzo milione. Un movimento o, meglio, una rivolta di massa che ebbe un impatto senza precedenti e che è relativamente poco noto in Europa. In altri termini, negli USA si diede, a mio avviso un movimento del ’68 prima del maggio francese.
Loren Goldner conosce le Pantere Nere e, nel 1967, aderisce agli Indipendent Socialist Clubs che nel 1970 sono diventati il gruppo International Socialists che allora rappresentavano una critica di sinistra a stalinismo, maoismo, terzomondismo allora predominanti nella nuova sinistra statunitense. In senso molto lato in quel momento Loren Goldner, allora non ancora ventenne, può essere considerato trotskista.
È però insoddisfatto di questa esperienza, legge testi di Socialisme ou Barbarie e dell’Internazionale Situazionista e trova, in particolare, stimolanti le posizioni dell’IS che pure non condivide sulla base della propria opzione classista.
È in questo periodo che conosce testi di Amadeo Bordiga, Jacques Camatte e del milieu, in senso lato, bordighista.
Credo che derivi da queste frequentazioni decisamente varie, il fatto che diversi compagni abbiano definito Loren Goldner come luxemburghiano – bordighista.
A parte il fatto che una simile definizione mi pare un ossimoro teorico e che credo che un “bordighista” ortodosso troverebbe assurdo attribuirgli l’adesione alla loro corrente, credo che quello di Loren Goldner sia un utilizzo degli scritti di Bordiga assolutamente non “bordighiano” visto che lo considera un pensatore originale e non leninista del quale utilizza singoli scritti a prescindere dal sistema in cui l’autore li colloca, cosa che per un bordighiano è un anatema.
Negli anni seguenti conoscerà il lavoro di compagni come Maximilien Rubel che è un marxista libertario e critico del “marxismo” di grande interesse, Henrì Simon che è un critico radicale del comunismo di partito ed altri e manifesta grande apprezzamento per la loro opera.
Ciò che, in ogni caso, trovo particolarmente interessante è proprio la capacità di porsi in relazione con un arco di ambienti, posizioni, esperienze che di regola sono considerati incompatibili.
Questa attitudine si intreccia con due caratteristiche dell’esperienza di Loren Goldner:
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la conoscenza di un buon numero di lingue. Conosceva, vado a memoria, sin da giovane il francese, il tedesco, l’italiano e, poi, almeno l’arabo e il coreano e ha lavorato come traduttore dal francese e dal tedesco;
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il suo aver fatto molti viaggi in diversi paesi, frequentato ambienti e compagni di questi paesi, vissuto spesso per lavoro fuori dagli USA. Ha visitato, oltre a Italia, Francia e Germania, anche la Spagna e il Portogallo e, più tardi ha vissuto, vado ancora a memoria, nel mondo arabo e in Corea.
E’ proprio la ricchezza e la varietà delle sue conoscenze e la sua inesausta curiosità che, insomma, lo caratterizza.
Mi riferisco ai suoi scritti e soprattutto alle conversazioni che ho avuto con lui sulla questione “classe – razza” in particolare, ma non solo, negli USA, sulla realtà della Corea del Sud e su vari altri argomenti.
Chiuderei questo testo con una lunga citazione che trovo contemporaneamente stimolante e problematica in cui tratta del ciclo di lotte degli anni ’70 e sulle prospettive dell’oggi11 in un libro che è una sorta di sua autobiografia.
“Tutto il potere ai consigli dei lavoratori poteva sembrare la migliore parola d’ordine internazionalista di quella fase, e ci furono momenti in cui la sua realizzazione non apparve poi così lontana. Ma la controffensiva capitalistica ha messo in atto un attacco politico frontale alla dimensione “visibile” del movimento generale per l’autogestione, con il decentramento produttivo che ha frantumato la grande fabbrica spezzettandola in piccole unità e impianti greenfield in zone rurali isolate, con la de-urbanizzazione dei lavoratori costretti a disperdersi nei suburbi della città diffusa, con la precarizzazione del lavoro, le delocalizzazioni nel Terzo Mondo e l’intensificazione della produzione per mezzo dell’high tech.
La risultante de-socializzazione dei lavoratori, che avevano appena tentato l’assalto al cielo, è stata profonda e generalizzata. Esempio da manuale di come la tecnologia – in questo caso, soprattutto, le ITC e la logistica integrata – è inseparabile dal suo uso capitalistico: era dalla fase della produzione di massa dell’automobile che l’innovazione tecnologica non aveva più avuto un tale impatto nell’isolare e disperdere quella classe universale che il proletariato è. Se queste nuove tecnologie un domani potranno essere rovesciate di segno e contribuire alla ricomposizione che noi auspichiamo, resta da vedere.
Ovviamente la proposta programmatica non può essere oggi quella di rilanciare il modello della vecchia produzione di massa in quanto tale. Nessuno rimpiange il modello incentrato su catena di montaggio e consumo di massa basati sull’automobile che hanno già devastato il tessuto sociale. È stato giustamente detto che, nonostante la creatività espressa dagli scioperi a gatto selvaggio nelle fabbriche dagli anni Cinquanta agli anni Settanta, la maggior parte della sinistra radicale – me incluso – teorizzava allora la centralità operaia in quanto tale e non invece come forza trainante del tentativo di rompere la logica del lavoro di fabbrica e aprire la strada a quell’attività onnilaterale nella produzione e nel consumo che, come è scritto nei marxiani Grundrisse, è il comunismo.
Nondimeno, pur riconoscendo che la produzione di massa sembrava porre molto più che in ogni precedente periodo le basi materiali della coscienza e dell’azione di classe, possiamo anche dire che la rottura del patto sociale keynesiano del secondo dopoguerra ha incrinato quel conservatorismo sociale insito nell’attaccamento al lavoro long term che si portava dietro mutuo per la casa e via discorrendo, tutti elementi che ostacolavano forme di solidarietà generali oltre il singolo stabilimento o categoria. È quanto ha prodotto, in alcuni paesi come Francia e Italia, movimenti giovanili proletari che non avendo la prospettiva di stabilità dei loro genitori, hanno usato questa precarietà per costruire mobilitazioni fuori dal perimetro delle fabbriche, sull’intero tessuto urbano, per esempio con picchetti volanti”.
Vi è, insomma, in lui la continua ed inesausta ricerca di un possibile punto di rottura dell’ordine produttivo e sociale attuale praticata con lo studio e con la ricerca sul campo, con l’incontro con militanti e lavoratori in lotta. Una ricerca, nelle forme diverse in cui si manifesta, non solo sua.
Una vicenda umana, politica e intellettuale che possiamo definire come quella di un rivoluzionario “irregolare”, in una fase storica controrivoluzionaria.
Cosimo Scarinzi
1 Revolution in our Lifetime – Intervista a Loren Goldner sul lungo Sessantotto di Loren Goldner (Autore) Emiliana Armano (Curatore) Raffaele Sciortino (Curatore) Colibrì Edizioni, 2018