Nel momento in cui scriviamo queste note, il caso del giovane ricercatore italiano sta apparentemente portando ad una crisi diplomatica dell’Italia con un paese estero senza precedenti: il governo italiano non solo ha ritirato, con la formula diplomatica della “necessità di consultazione urgente”, il suo ambasciatore in Egitto, ma minaccia sanzioni economiche di una certa entità, verso un paese che vive di turismo e che vede negli italiani una fetta consistente di esso. La particolarità della situazione, però, non pare consistere in quanto detto prima, ma nell’atteggiamento del governo egiziano che, va detto per onestà intellettuale, in tutti questi mesi sembrerebbe aver fatto di tutto per sfidare il governo italiano: in altri tempi, per molto meno si sarebbe arrivati ad una vera e propria dichiarazione di guerra.
Ricapitoliamo gli eventi. Il 25 gennaio di quest’anno, Giulio Regeni scompare mentre si recava ad osservare una manifestazione dell’opposizione all’attuale regime egiziano, con il quale, nonostante le notorie brutalità repressive, l’aspetto dittatoriale e liberticida, il governo italiano ed i grandi mezzi di comunicazione di massa mantenevano un rapporto positivo, fatto di accordi commerciali di ogni tipo e di una visione sostanzialmente positiva del regime militare. La stessa Repubblica, oggi capofila della cattiva stampa rivolta al regime di Al Sisi, si era distinta all’epoca del suo insediamento nel sottolineare come, tutto sommato, si trattava di un regime laico, da preferire al governo dei “fratelli musulmani” anche se democraticamente eletto. Perciò, anche se sin dal primo momento si era capito che il rapimento era molto probabilmente opera di elementi legati, in maniera più o meno formale, al governo egiziano, tutto lasciava presagire una composizione veloce della faccenda.
Il comportamento del governo egiziano, come dicevamo, è stato sicuramente irritante. Da un lato, invece di trincerarsi dietro la classica formula “le indagini vanno avanti a 360 gradi, non escludiamo alcuna direzione d’indagine, ecc.” – un modo per non dire nulla e lasciarsi aperta ogni eventualità di scelta – il governo de Il Cairo si è sbizzarrito nell’inventare giorno per giorno le ipotesi più inverosimili: è stato investito da un pirata della strada, no, si è trattato di un omicidio a sfondo omoerotico, no, sono stati i fratelli musulmani per far ricadere la colpa sul governo, no, sono stati i sindacati sempre per lo stesso motivo, no, si è trattato di un rapimento finito male… assai spesso, giusto per peggiorare la situazione, ipotesi accompagnate dalla produzione di “prove”, puntualmente dimostratesi costruite ad arte.
Ancor più irricevibile il comportamento nei confronti delle autorità giudiziarie, investigative e diplomatiche italiane: tra un’autopsia locale effettuata, probabilmente, più per nascondere la realtà che per svelarla, una messa sotto controllo stretta ed asfissiante delle forze di polizia italiane in trasferta che, a loro dire, veniva esibita sfacciatamente, le minacce verso chiunque provasse a collaborare con la polizia italiana, il rifiuto secco della magistratura egiziana di fornire qualunque informazione utile alle indagini, dichiarazioni poco “diplomatiche” del governo egiziano nei confronti del ministro degli esteri della penisola, l’Italia, nelle sue varie articolazioni istituzionali, veniva letteralmente presa a pesci in faccia.
Che senso può avere quest’atteggiamento del governo egiziano nei confronti di un paese “amico”? Perché letteralmente costringere un governo tutt’altro che bellicoso nei confronti dei paesi con cui sussiste un minimo d’interessi reciproci a decisioni relativamente drastiche?
Apparentemente si tratta di un comportamento senza senso: far diventare un evento banale – nella logica del potere – facilmente risolvibile a livello diplomatico, un casus belli con conseguenze potenzialmente negative a tutti i livelli. In effetti, se la situazione in se è relativamente chiara – un omicidio deciso ai più alti livelli del potere egiziano – il quesito in merito al quale si possono solo proporre ipotesi è proprio questo: chi glielo ha fatto fare?
Forse l’ipotesi più inquietante è la seguente: imbecillità pura.
Un decennio fa, durante l’ultimo grande scontro di camorra (quello del clan contro i cosiddetti “scissionisti”), girava questa voce: il clan era stato fondato da Paolo Di Lauro, il quale aveva creato una rete di relazioni “particolari” che gli permetteva di agire relativamente indisturbato e governare una organizzazione criminale di notevole ampiezza e ricchezza patrimoniale. Alla sua messa fuori gioco, dopo un momento di sbandamento, l’impero criminale passò in mano ai figli, i quali, secondo questa versione, erano dotati, a differenza del padre, di un’ignoranza spaventosa e di scarsa intelligenza – una combinazione micidiale che gli impediva di capire la necessità di mantenere determinate relazioni “diplomatiche” con il potere politico, le forze dell’ordine, ecc. I nuovi capi capivano solo il linguaggio dell’arroganza e della forza bruta, ma questo, a lungo andare, danneggiò i loro affari, avendo essi rovinato con il loro agire sconsiderato la rete di rapporti “privilegiati” costruita faticosamente nel tempo dal clan – di qui la “scissione” da parte di chi contestava quest’approccio controproducente e la successiva faida.
Non posso sapere se la storia in questione – che qui ho raccontato in maniera molto sommaria – sia vera o meno: diciamo che mi appare per molti versi verosimile. Ora, Agostino da Ippona sosteneva che lo Stato – il potere politico – è nient’altro che la banda di predoni vincente, per cui non è cattiva regola applicare i meccanismi di questi ultimi per capire quelli dell’altro. In Egitto, con l’ultimo colpo di Stato, potrebbe essere accaduto qualcosa del genere: appoggiatadall’Occidente, in funzione anti fratelli musulmani, ha preso il potere una frazione dell’esercito e della polizia simile a quelle delle giovani leve del clan di Secondigliano, con tutte le conseguenze che ne sono derivate e, verosimilmente, ne devono ancora derivare.
Enrico Voccia