Premesse
Precisiamo immediatamente che il virus di cui si parla nel titolo non è tanto, o non solo, il COVID-19. Semmai questa bestiola che tanto ci sta dannando può essere considerato un epifenomeno, la manifestazione di un male ben più grave che è il modo di riproduzione capitalista.
Non mi ripeterò mai abbastanza su questo concetto: è da qui che hanno origine la maggior parte dei problemi socio-economici che affliggono il nostro mondo – con esso anche le differenze culturali assurgono ad espediente per schiacciare un gruppo in favore di un altro che in quel momento è maggiormente funzionale alla riproduzione del capitale. Detto ciò anche l’epifenomeno COVID in quanto virus e in quanto generante una sindemia sta contribuendo al disastro generale nel quale ci troviamo.
Va fatta una riflessione preliminare a tutta la trattazione che seguirà, cioè che il virus ha potuto scatenare questo vero e proprio pandemonio socio-economico in quanto liberatosi all’interno di un sistema come quello nel quale attualmente viviamo. Un sistema che va ricordato essere perennemente in crisi, termine qui inteso nel suo senso più ampio, cioè lo stato di un sistema non stazionario in continua mutazione.
Uno dei problemi principali è che il dinamismo del sistema è tale che i tempi “tecnici” della burocrazia non coincidono coi tempi “tecnologici” dei flussi del capitale: è stato spinto così tanto in avanti il ritmo di riproduzione del capitale che la società appare quasi come un fardello che rallenta la corsa. Così anche gli apparati decisionali, già appesantiti da decenni di clientele e nepotismi di ogni colore politico e sfumatura culturale e falcidiati dalle cure dimagranti dell’austerity, stentano a tenere il passo. Così un sistema fragile come quello italiano, già alle prese con una stagnazione economica da un lato e una diminuita capacità di ridistribuire la ricchezza dall’altro, si è ritrovata la bomba COVID tra le mani e se l’è letteralmente lasciata esplodere addosso.
Ora è risaputo, o almeno spero, che in un apparato complesso quanto può esserlo un Stato di più di sessanta milioni di abitanti, con divari socio-economici non sanati dagli ultimi 150 anni, i problemi che ci portiamo dietro sono divenuti strutturali. Strutturale non significa semplicemente che qualcosa si è cronicizzato ma vuol dire che quella problematica è diventata parte integrante del sistema, nel senso che su quella problematica ci si strutturano meccanismi di riproduzione del sistema. Una questione strutturale su tutte la “questione meridionale” la quale ha portato denari a vagonate nelle tasche di vari soggetti tra i quali partiti di ogni risma, dal PCI alla DC e, senza soluzione di continuità, passando per l’MSI e il PSI, giusto per considerare quelli del dopoguerra fino agli anni ’90 del secolo scorso.
Un’altra questione che ha tenuto banco fin quasi ai giorni nostri, pur se con alterne vicende e diverse motivazioni, è stata quella degli alloggi. Ebbene come da un lato abbiamo letteralmente intasato le strade di veicoli per tenere alta la produzione industriale negli ultimi settant’anni, dall’altra abbiamo costruito vani per circa una volta e mezza la popolazione attualmente calcante il suolo “italico”, compresi turisti e abitanti non censiti (più sgradevolmente etichettati come clandestini).
In Italia in teoria non dovrebbe esistere nemmeno la locuzione “disagio abitativo”, né tantomeno quella di “crisi degli alloggi”: recenti ricerche basate sull’elaborazione dei dati del censimento Istat 2011 e successivi datascape, realizzate sia dal PoliMi che dal DiDA dell’università di Firenze, parlano di “oltre 8 milioni e mezzo di case e appartamenti sottoutilizzati”, circa un quarto dell’intero patrimonio abitativo italiano. Appare evidente che tutto ciò costituisce un enorme spreco economico e ambientale, che accentua i termini del degrado territoriale, dovuto a consumo di suolo, cementificazione irrazionale, dissesti, inquinamenti e abbandono.
In questo quadro appare oltremodo chiaro che non dovrebbe esistere fabbisogno abitativo inevaso: si parla di un’offerta potenziale pari a circa 10 volte la domanda, compresa quella da immigrazione. I dati sono a dir poco agghiaccianti: oggi il numero degli edifici presenti sul territorio nazionale è pari a circa 14,5 milioni. Appare accettabile la stima assai prudenziale di almeno 18 miliardi di metri cubi edificati, di cui 15,5 mld (84,3%) residenziali; laddove il fabbisogno nazionale aggregato è di 6,4 mld di metri cubi. Quindi come di consueto all’interno dei sistemi a “capitalismo avanzato” ci si ritrova con pezzi di società che hanno macchine e alloggi in sovrannumero e altri che non hanno neanche l’indispensabile.
Eppure, a fronte di questi dati, stiamo assistendo ad una delle più gravi crisi di senzatetto dal (cosiddetto) dopoguerra ad oggi. In Italia solo il 4% della popolazione italiana ha accesso ad un alloggio con affitto calmierato, mentre il tasso di deprivazione abitativa si mantiene sull’11%, contro una media UE del 5,6%. Cerchiamo allora di dare senso ai dati e capire cosa succede e cosa si potrebbe fare. Non amo snocciolare dati come un qualunque blogger quindi, per rispetto chi legge, le cose vanno chiarite e, soprattutto, mi preme dare risalto alle concatenazioni di fattori che hanno portato allo sfacelo attuale.
Tra dati e realtà del fenomeno
Il dato così com’è, ossia il solo costruito, dà sicuramente la cifra della sovrabbondanza di cubatura abitabile rispetto al reale fabbisogno ma non restituisce per intero la casistica e le eventuali responsabilità. Da un lato il privato costruisce per vendere oppure per sé stesso e il concetto di diritto all’alloggio o dignità dell’abitare con la pecunia non è mai andato d’accordo. Dall’altro c’è il pubblico che tra gli anni ’50 e ’80 non ha fatto altro che costruire alloggi pubblici, con alterne fortune e disastri sociali ancora ineguagliati. Se il privato fino a ieri al più costruiva in concessione, il pubblico negli anni avrebbe dovuto risolvere la questione alloggi. Chiunque non abbia un muro di mattoni davanti agli occhi sa che la questione alloggi tiene ancora banco, creando non poche occasioni di corruttela.
Tornando ai dati, cerchiamo di isolare dalla massa indistinta quanto pesano gli alloggi derivanti dall’edilizia popolare. Su circa 31.000.000 gli alloggi disponibili, poco più di 24. 000.000 sono quelli occupati. Mancano all’appello circa 7.000.000 di alloggi, i quali non sono assegnati per varie ragioni. Le casistiche sono le più svariate, talvolta sono semplicemente chiusi e mai assegnati, sono fatiscenti o sono occupati abusivamente.
È chiaro che per occupazione abusiva non intendo chi non ha dove andare e sfonda una porta per avere un tetto sulla testa, di abusivo c’è poco quando si è spinti dal bisogno. Gli abusivi sono piuttosto chi non avendo più i requisiti per l’assegnazione di un alloggio popolare continua ad averlo e magari lo affitta pure, togliendolo di fatto nella disponibilità dell’ente ma, cosa più importante, non consentendo l’assegnazione a chi ne ha realmente bisogno.
C’è una distinzione lieve e sottile quanto un transatlantico tra occupare per necessità e continuare ad avere un bene pur avendo altre case. In quanto anarchico non posso che propendere per chi non ha nulla. Come se le amicizie con gli incaricati degli enti non bastassero a ridurre le disponibilità di alloggi, a tutto questo negli anni si è aggiunta la pratica della dismissione del patrimonio immobiliare ed il riscatto abitativo. Pratica cominciata in tempi non sospetti e ampliatasi negli ultimi 20 anni.
Altro dato da non sottovalutare è quello che negli anni ha visto quartieri popolari divenire punti di interesse speculativo. Quartieri costruiti tra gli anni ’50 e ’60, la stagione dei vari Piacentino, Quaroni, Ridolfi, Quistelli e dei piani IACP, col tempo sono stati inglobati nella trama urbana, perdendo il carattere di “periferico” e “degradato”, venendo circondati da supermarket, fermate di metro e tramvie e servizi di vario genere. In quegli anni si costruiva anche abbastanza decentemente con qualità progettuali mai più ripetute nei “casermoni” degli anni d’oro dei palazzinari. Il mercato che per sua natura è sostanzialmente indifferente, valorizza o deprezza in funzione della domanda.
Qui veniamo ad uno dei punti critici del discorso. Se da un lato vi è stata una sovrabbondanza di alloggi, come numero, dall’altra si deve considerare la localizzazione degli immobili e come le dinamiche sono cambiate nei decenni. C’è il paradosso che in alcune zone le case sono sovrabbondanti ma nessuno le richiede in quanto aree depresse e senza prospettive occupazionali, mentre altre che potrebbero garantire un minimo di redditualità non presentano possibilità di alloggi. Zone prima malfamate sono diventate oggetto di interesse per le pratiche di risanamento urbano, riqualificazione ecc.; allora la domanda in zona cresce, il costo della vita sale e, pur potendosi permettere il bassissimo canone dell’alloggio popolare, si devono però fare i conti con il caro vita.
Cosa succede dalla parte di chi gestisce gli alloggi? Tra Comuni ed enti regionali, la gestione di questi immobili è sempre stata onerosa e, viste le purghe dettate dall’austerity, la (s)vendita del patrimonio immobiliare, anche quando non inondava le casse degli enti di moneta sonante, serviva a risparmiare e avere i bilanci in ordine per poter chiedere due lire in più di trasferimenti. Miracoli del patto di stabilità.
Oggi nel 2022 cosa succede? Grazie alla pandemia si sono sovrapposti al disastro già in atto anche gli effetti economici dovuti alla chiusura di molte attività già in bilico. Morale della favola, nuovi disoccupati, nuovi sfrattati e nessuna soluzione immediatamente adottabile per risolvere la situazione.
Anche la stagione delle occupazioni di case come preciso progetto politico è oramai al capolinea. Dal 2007 in poi è cominciato il declino della classe media, sempre più compressa fra precarizzazione del lavoro ed erosione reddituale dovuta allo smantellamento del welfare. L’alloggio è nuovamente tornato ad essere un problema quantitativamente rilevante e le recenti iniezioni vitaminose del governo con i bonus hanno acuito il problema. Il mercato immobiliare ha subito due tracolli uno a seguito della recessione e un altro contraccolpo dovuto al COVID. Gli eco-bonus hanno rimesso in funzione la giostra con un’impennata dei prezzi che non si registrava da parecchio: sommo gaudio per gli operatori ma dolori per chi in questi anni è stato letteralmente sparato fuori dal ciclo produttivo o marginalizzato come soggetto atto a riprodurre il capitale.
Cosa si può fare davanti a questa situazione? Il piano istituzionale lo lascio stare senza neanche prenderlo in considerazione, credo invece che potrebbe servire rispolverare un minimo di pratiche organizzative. Magari il problema non si risolve ma almeno si avvia un percorso di lavoro collettivo con chi subisce le privazioni materiali prima ancora che l’ostracismo sociale dell’impoverito. Come ci sono i nuovi abitanti ci sono i nuovi poveri, una parte del corpo sociale con il quale è necessario entrare in comunicazione. Memento: siamo anarchici!
J. R.