Si è aperta una discussione, negli ultimi giorni, sull’eventuale partecipazione dell’Italia alla fase della guerra mondiale, per lo più condotta per interposte persone, che si sta giocando nell’antica mezzaluna fertile. In Siria, in Iraq, ma anche nei territori meridionali e orientali della Turchia, le grandi e piccole potenze sono entrate nei contrasti tra le élite mediorientali e nelle sofferenze dei popoli oppressi: dove c’è dolore e sangue, ecco che troviamo l’ambiente naturale nel quale Stati, apparati militari e burocratici, imprenditori di morte e investitori senza scrupoli possono allignare come sanguisughe attaccate a un bue grasso.
Poteva mancare l’Italia alla festa delle stragi felici? Certo che no. Però se ne discute. Come se la discussione potesse portare ad altro di diverso da decisioni già prese e che attendono solo il formale via libera di un parlamento sempre più svuotato dei suoi residui poteri di assemblea rappresentativa di un popolo allo sbando.
Si resta perplessi a constatare che la discussione verte sulla opportunità o meno di partecipare ai bombardamenti contro ISIS (o Daesh) con i quattro Tornado italiani che stanno in Kuwait da quasi un anno. Certo: il problema è se questi gioiellini (vecchi apparati da guerra che dovrebbero essere sostituiti al più presto dagli F-35, dicono i mercanti e i venduti a Lockheed Martin, ma evidentemente ancora tanto ben funzionanti da essere utilizzati in luoghi certo non tranquilli) debbano iniziare a partecipare ai bombardamenti sui territori occupati dai fascisti islamici di ISIS o chissà dove altro.
Singolare diatriba. Infatti c’è da chiedersi che cosa stessero a fare in Kuwait, fino ad oggi, i Tornado italici, accompagnati da circa 150 eroici militi e affiancati da droni di ultimo modello. Già: evidentemente fare voli di ricognizione per scovare dati utili sul terreno per facilitare i bombardamenti degli alleati, secondo molti intelligentissimi politici e osservatori italiani, non sarebbe un atto di guerra. Già: semplici ricognizioni innocenti, come se si andasse a far voli turistici per osservare dall’alto i ghiacciai delle Alpi prima che si sciolgano del tutto. Evidentemente gli strateghi politici italici, i pupi fiorentini in mano a poteri forti stranieri, i seriosissimi esperti di relazioni internazionali che ammorbano i nostri mezzi di informazione con analisi geopolitiche di altissimo livello, possiedono tutti molte qualità tra le quali non c’è però il senso del ridicolo.
Non è già un atto di guerra, infatti, raccogliere informazioni per chi va a bombardare? Non è evidente? Che cosa cambierebbe, nella sostanza vera, se anche i quattro Tornado italiani iniziassero a tirar giù qualche bomba, in modo più o meno preciso, addosso a Daesh o alla popolazione civile (semplice effetto collaterale)? Cambierebbe solo l’atteggiarsi in situazione della mosca cocchiera Italia: farsi vedere dai propri alleati come più risoluti e partecipi potrebbe portare qualche vantaggio (economico e politico) sulla scena mediorientale e internazionale in rapido mutamento.
Però le cose non sono molto semplici; per l’Italia ci sono comunque problemi da non sottovalutare: perciò la mosca cocchiera si trova in equilibrio precario sulla sua cavalcatura.
Le decisioni che si prenderanno in Italia, in questa occasione, dipenderanno anche da ragionamenti che si devono condurre su piani strategici e tattici differenti.
Primo livello: la relazione con gli alleati della NATO, in primis gli USA. Non si può pensare che un Paese che fa parte organicamente dell’Alleanza e che ospita basi di primaria importanza possa ignorare le esigenze di dominio territoriale che si pongono di volta in volta. In questa occasione, come in altre, bisogna porsi il problema di quanto e come seguire le indicazioni degli alleati.
Secondo livello: sempre a livello internazionale, vi è l’annosa questione della mancanza di una politica militare ed estera univoca da parte dell’UE; nello specifico, l’assenza di una politica per il Mediterraneo e il Vicino Oriente, da cui deriva una sorta di autonomizzazione di medie potenze come la Francia, che opera con spregiudicatezza in Siria, in Mali e in altri luoghi importanti per i suoi interessi nazionali.
Terzo livello: il gioco degli equilibri interni all’apparato statale italiano. Si è visto recentemente come abbiano reagito il ministero della difesa e l’alto comando militare di fronte alla ventilata necessità di un taglio delle spese per le forze armate proposto, come per altri ambiti di intervento statale, dal ministro dell’economia. In questo gioco alla ricerca di risorse economiche pubbliche sempre più scarse, un intervento diretto in bombardamenti in Iraq e Siria e un intervento ancor più diretto nella gestione della crisi libica (come sembra sempre più probabile) renderebbe evidente la necessità di non tagliare le spese militari, né quelle direttamente destinate al funzionamento degli apparati, né quelle destinate alla ricerca tecnologica e all’acquisto di nuovi armamenti (vedi gli F-35, per i quali gli amici americani hanno dichiarato che l’Italia avrebbe già definito con certezza l’acquisto di un lotto di 32 pezzi dei 90 complessivi previsti). Infatti, se si va in guerra, e non solo a fare perlustrazioni e intelligence (che, a dire il vero, sono già atti di guerra), non si può certo lesinare sul centesimo: bisogna andarci alla grande e senza badare a spese.
Quarto livello: il mondo del business e la ricerca di fonti energetiche o comunque di risorse necessarie. Si sa che anche dopo l’embargo alla Russia, più o meno applicato a seguito delle vicende ucraine, gli affari con il piccolo zar ed i suoi uomini non sono cessati. Gas, petrolio e altre materie prime pongono l’Italia in continui rapporti con il “nemico” del momento; e non è tanto strano avere rapporti d’affari con il nemico: si tratta di una costante di tutti i tempi e di tutte e guerre. E poi ci sono gli investimenti in Italia: per esempio quelli operati da RDIF, il fondo sovrano russo, che sembra voglia espandere il suo intervento finanziario in alcuni settori produttivi italiani. È realista, a tale proposito, immaginare che imprenditori sempre alla ricerca di investimenti nelle proprie imprese possano rinunciare a un piccolo fiume di denaro proveniente da Mosca? Quindi il problema per l’Italia sarebbe il seguente: come intervenire nella guerra in corso in Siria e Iraq senza risultare troppo sgraditi ai russi, nemici politici ma partner nel business, che in quelle contrade stanno operando con decisione in concorrenza con le forze dei Paesi della NATO?
Ecco, chi ragiona da statista, o da aspirante tale, si trova di fronte a una serie di problemi di non poco conto. Se poi chi fa queste riflessioni non è dotato di un lume di ragione molto splendente, come, con tutta evidenza, si può dire degli attuali governanti italiani, ecco che arriveranno “esperti” e “consiglieri” esterni ed interessati a ridefinire, ove necessario, la politica internazionale del nostro Paese.
Da parte nostra, come da parte di coloro che pur in campi ideologici distanti cercano sempre di operare per la pace e contro a violenza di Stati e di apparati terroristici parastatali, dovrebbe essere chiaro che il timone deve restare fisso nell’unica direzione per noi desiderabile: la fuoriuscita dalla trappola delle strategie geo-politiche e geo-economiche, l’intolleranza per ogni “alleanza” con questa o quella parte in causa nello scontro imperialistico mondiale, la vicinanza agli oppressi, le iniziative nelle retrovie delle battaglie (cioè nel nostro territorio) volte a impedire che l’economia e la tecnologia di guerra condizionino la nostra vita sociale e comportino il nostro arruolamento forzato, sebbene inconsapevole, per la conduzione di una guerra permanente e senza vie d’uscita.
Dom Argiropulo di Zab.