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Paradigma della “cura” in chiave capitalista

Paradigma della “cura” in chiave capitalista

Anche quest’anno di pandemia è passato con le solite tristi immagini di chi festeggiava eventi o festività comandate con un griglia piantata sul balcone o i “rave” clandestini di anziani che si ritrovavano nei garage a giocare a scopone e “farsi” di bianchi. Siamo stati tutti più meno giustamente bloccati in casa, chi per paura, chi per integerrima osservanza delle norme, chi perché preso da abulia e depressione, chi perché inchiodato alla sedia dall’elasticità infinita dello smart-working. Per quanto noi si sia stati Immobili o scarsamente erranti, nello stesso frangente il capitale circolava in maniera vertiginosa e si apprestava a concludere nuovi affari, con la sua capacità di sussumere ogni circostanza volgendo il tutto sempre e comunque a proprio vantaggio. Abbiamo, forse e finalmente ma sicuramente non definitivamente, capito che l’attuale crisi del sistema sanitario pubblico nell’affrontare l’immane lotta con la pandemia è dovuta ai tagli subiti dal settore negli ultimi due decenni. Di contro troviamo le copiose risorse incanalate verso il “privato” – il grande assente da questa guerra. Quindi da un lato il tam tam sui tagli e gli ospedali cenerentola, dall’altro si tace sui continui appalti privati degli ospedali di comunità e la delega al privato di quota parte della diagnostica.

Oggi gli stessi privati hanno visto uno spiraglio per poter continuare ad incamerare moneta anche (o soprattutto) sfruttando il momento complicato e le sofferenze sociali. Tutto è in grado di far aumentare il PIL. Non fanno più notizia, come nei primissimi giorni dell’emergenza, le aziende che si riposizionano sul mercato. Tutti hanno imparato a cucire le mascherine, dai piccoli sarti alle maison dell’alta moda. Paradigmatica la mascherina FENDI venduta a 190 € e pensata per il mercato asiatico, terminata in un lampo. Non si contano le industrie che si sono nel frattempo riconvertite per la produzione di presidi sanitari, strumentazione e affini: siamo partiti dai ventilatori polmonari, riconversioni di massa per dare una “mano” all’unica azienda fino a poco tempo fa presente in Italia. Quello che però fa accapponare la pelle sono le varie mega industrie del farmaco, che in tutto il mondo hanno dato vita ad una corsa alla ricerca del vaccino solo ed esclusivamente per brevettarlo e fare milioni sulla sua commercializzazione, ovviamente lautamente supportate dai vari fondi pubblici.

Il lancio della sperimentazione è stato un passaggio obbligato per dare conto agli investitori che il prototipo era pronto: infatti, annunciata la sperimentazione, i motori finanziari hanno cominciato a rombare e i titoli a guadagnare credibilità. Le cifre da capogiro che sono già state incamerate con la prima ondata di vaccini dai big del farmaco sono nulla rispetto a quanto si prevede per il futuro prossimo. In un sistema razionale ed umano si coopererebbe per arrivare prima e tutti insieme, nel trovare terapie e rimedi efficaci e solo ed esclusivamente per salvare delle vite. Invece no, anche in questo frangente si compete e non si risparmiano i colpi bassi, tanto alla concorrenza quanto alle popolazioni.

Un caso su tutti l’India: uno dei maggiori produttori di vaccini al mondo non ne ha per la sua popolazione che viene falcidiata ad un ritmo di circa 5.000 morti al giorno. Intanto però l’azionariato esulta, l’indotto produttivo ha trovato nuova linfa, il mercato ha rastrellato nuova liquidità da incanalare sempre nel solito buco senza fondo. Nel mezzo c’è chi è rimasto al palo o peggio col cerino in mano. Si assiste all’evidenza che da queste pagine andiamo denunciando da tempo, in altre parole che da un lato il concetto di mercato libero è una favola che nasconde una tragedia, dall’altro che senza l’indebitamento pubblico il cosiddetto libero mercato sarebbe già morto da tempo immemore. Queste crisi così ampie e profonde dovrebbero di volta in volta rimettere in discussione l’assetto socio-economico del mondo impropriamente detto civilizzato; in realtà avviene sempre il processo opposto, si affinano gli strumenti di sudditanza monetaria e finanziaria, si sbaraglia la concorrenza, si ridà ossigeno a comparti vetusti o bolliti.

Il caso del settore big-pharma è emblematico. Parliamo di aziende che non sono solo leader di un settore tra quelli che maneggiano il più alto valore aggiunto del prodotto – spesso assolutamente immotivato – ma sono al contempo creatori di domanda e monopolisti per quella specifica domanda. Cerco di spiegarmi senza deragliare in tecnicismi economici. Da un lato le aziende farmaceutiche immettono sul mercato medicinali salvavita a prezzi assolutamente proibitivi e devono essere calmierati con l’intervento statale in certi casi, vedi l’Europa, o parzialmente pagati dalle compagnie assicurative, vedi gli Stati Uniti. Dall’altro lato sempre le stesse aziende mettono punto farmaci contro qualcosa che poi si dimostra particolarmente valido per tutt’altro: il viagra è uno di questi ma la lista è assai lunga ed assai meno divertente. Solo a titolo esemplificativo abbiamo l’eroina sintetizzata dalla Bayer come rimedio contro la dipendenza da morfina – poi si sa l’uso che ne è stato fatto. Potrei continuare citando tutta la costellazione dei farmaci dopanti, cioè gli steroidei, anabolizzanti, betabloccanti e stimolanti. Da questa brevissima carrellata mancano quelli più subdoli ma non meno remunerativi, ossia tutta la famiglia degli psicofarmaci ai quali si fa sempre più ricorso, per scelta personale, per induzione clinica o peggio “ope legis”.

Ebbene: il farmaco nel momento in cui interviene su qualcosa che ha una rilevanza sociale o agisce sulla percezione di sé è uno strumento con una leva spaventosa, tanto economica quanto culturale. Non sto qui ad elencare questioni già ampiamente analizzate da persone molto più informate di me come la faccenda del Ritalin o delle anfetamine usate per sedare i bambini “iperattivi” o per agevolare le cure dimagranti. Si può però ben comprendere come il tema del farmaco sia un tema centrale nella società occidentale, che è a sua volta società vorace che tende ad occidentalizzare tutto.

Il processo di occidentalizzazione passa dal concetto di “cura” o, meglio, dalla sua trasvalutazione. Da un concetto di cura intesa al recupero della propria salute si è passati ad un concetto di correzione e riadattamento ad uno standard sociale imposto. In questo ragionamento tanto il doping quando l’ansiolitico ricoprono un ruolo perfettamente in linea con l’idea di normalità. Se questa idea di normalità viene scossa da una crisi profonda, le cui origini debbono cercarsi nel sistema stesso che cerca di risolverla, possiamo adeguatamente capire come essere i primi a trovare un “rimedio” vuol dire accaparrarsi tutti i benefici del ruolo.

Non sto qui a sindacare sulle scelte pro o contro il vaccino ma mi preme di inquadrar la faccenda nella sua cornice sociale politica ed economica. Se il vaccino è una soluzione, questa non può comunque dirsi universale e definitiva, in quanto tampona un problema senza risolverlo. Sono copiose le pubblicazioni che inquadrano la pandemia all’interno del meccanismo di sfruttamento dissennato delle risorse terrestri e dello sconfinamento verso habitat che dovrebbero essere lasciati alla loro evoluzione. Il punto però è che anche quando una parte della popolazione mondiale riconoscesse il problema pandemia come un evento ineluttabile, quindi come conseguenza inevitabile della crescita economica senza freni, questi stessi individui stenterebbero a riconoscere la capacità della governance economico finanziaria nel lucrare sulle tragedie.

Salta alla gogna mediatica chi truffa sulle forniture di mascherine, chi fa vaccinare il parente o chi si fa pagare il posto letto. Questo però non è che un fenomeno culturale che rispecchia ben altre frodi o ben altre dinamiche economiche, le quali si muovono in quel tessuto connettivo che lega a doppio cordone interessi economici con il potere politico. Quest’ultimo poi divenuto esecutore di mandati imperativi, che sono riusciti nel tempo a demonizzare tutte le soluzioni incompatibili col sistema economico dominante, tranne quando poi queste sono state addomesticate e sussunte.

Il mondo del farmaco è quindi uno dei pilastri che non si limitano a sorreggere l’impalcato capitalista ma connettono stabilmente società e capitale attraverso l’imperativo culturale della “cura”. La premialità spettante ai leader del farmaco non risiede nell’aver trovato un vaccino – qualunque istituto di ricerca ne avrebbe trovato uno tant’è vero che ce ne sono tanti di vaccini che girano sul pianeta – risiede nell’aver trovato una toppa che non faccia sfigurare troppo in quanto si mimetizza bene e non da troppo nell’occhio. Fuor di metafora è stata trovata una soluzione compatibile col sistema per poter consentire un ritorno a quella normalità che ha causato il problema. Nel contempo lo switch-on della produzione su forniture mediche ha rimesso in piedi comparti produttivi in caduta libera.

La vera cura è stata trovata per il sistema capitalista il quale senza consumatori non ha vita lunga, almeno nella sua attuale configurazione. Purtroppo la lezione dell’assoluta vulnerabilità ai virus non è servita a nulla. Il capitalismo ha le sue regole competitive che rimangono valide soprattutto in questi momenti di shock. Chi attendeva una “svolta socialista” della vicenda forse dovrà attendere ancora. Si ritornerà ancora una volta alla “normalità”, sfruttando, tagliando foreste, commercializzando molecole, rilasciando fumi in atmosfera… fino alla prossima pandemia!

J.R.

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