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Il nuovo significato dell’esclusione sociale

Il nuovo significato dell’esclusione sociale

Fornire delle definizioni non è mai qualcosa di semplice. Definire dei fenomeni che, pur fondandosi su un principio che si conserva nel tempo, mutano repentinamente nella loro compagine epifenomenica (o sovrastrutturale per dirla alla vecchia maniera) risulta arduo proprio per la difficoltà di buona parte della società di andare oltre l’evidenza e investigare il fenomeno in sé e il processo che lo possibilizza. Definire cosa sia l’esclusione sociale in sé, nel suo dato permanente, non è un’operazione impossibile, il perché avvenga è qualcosa di più complesso. Non avendo in queste poche righe la presunzione di rispondere ad uno degli assiomi sui quali si fonda la società, posso dire che sull’esclusione sociale si incardina il principio di sperequazione economico, ossia il principio che fa di una parte del corpo sociale un gruppo ricattabile, esautorandolo da qualsiasi tipo di potere di “contrattazione”. I pretesti per l’esclusione sono poi parto della fantasia della narrazione totalizzante di turno.

Rivalità economica per affossare un ceto sociale troppo potente o il mantenimento di un esercito di individui perennemente bisognosi e pronti a svendersi per pochi spiccioli. Tra questi due estremi ci sono infinite sfumature del ricatto e della coercizione. Le motivazioni sono innumerevoli, dalla minoranza culturale, alle presunte ragioni etniche (di per sé inesistenti), dalle idee politiche a quelle religiose, fino alle questioni di genere. Se assumiamo quanto detto come la parte permanente della questione, quello che resta da analizzare è tutto ciò che è visibile, la superficie. Tale secondo aspetto è mutevole e cangiante, ed assume nel tempo valori di segno opposto, nel senso che ciò che era motivo di esclusione in un dato tempo non lo è più in un altro. Ma questo di fatto non cambia la natura del principio di esclusione, parafrasando E. Ford, potremmo dire, “includete chi vi pare purché escludiate qualcuno”.

Molto spesso per capire un concetto è buona regola adottare una qualche metafora o un espediente narrativo, dal momento che non sono un grande narratore e le metafore non sono propriamente il mio forte, prendo la realtà nella sua brutale evidenza. Al più tenderò a disarticolare la narrazione nella quale siamo impantanati per cercare di far emergere delle evidenze o qualche contraddizione grossolana. Da qui il motivo che mi conduce ad indagare i mutamenti urbani.[1] È già stato parzialmente affrontato un discorso sul rapporto fra innovazione urbana e tecnologia, attraverso il tormentone delle “smart cities”.[2] Si intende qui espandere il fenomeno dell’ esclusione e segregazione socio-culturale, partendo dal dato tecnologico e dal suo contributo sempre crescente al fenomeno stesso. Stiamo assistendo, per chi si fosse peritato di osservare il mutamento in atto nella sua interezza, ad un processo in piena espansione, che agisce su più livelli in quanto incardinato nelle tecnologie dell’informazione.

Se un tempo l’informazione era il “quarto potere”, nel momento in cui si poneva come narrazione interessata della contemporaneità agendo come “fabbrica del consenso”, oggi non si limita solo a costruire narrazioni, ma l’informazione è qualcosa di assai più complesso.[3] L’informazione si è trasformata da notizia a sistema di gestione di produzione in senso lato, produzione di merci, servizi, in pratica produzione di ricchezza, nella quale chiunque abbia accesso alla rete, rilascia dati che vengono trasformati in informazione utile alla produzione. Il concetto in chiave tecnologica di “smartness” è quindi inscindibilmente legato alle ICT (Information and Communication Technology) che incardinano la nuova frontiera tanto del concetto di produzione, quanto del concetto di relazione sociale. [4] E come è possibile misurare l’esclusione sociale usando il metro delle ICT? Per prima cosa bisognerebbe demolire un luogo comune, ossia che la rete è aperta, libera e accessibile a chiunque. In realtà i dati dicono qualcosa di diverso, Il rapporto, “Fatti e cifre TIC 2016”, evidenzia che i tassi di penetrazione di Internet sono pari all’81% nei paesi sviluppati, del 40% nei paesi in via di sviluppo e del 15% nei Paesi meno sviluppati. Ma nei pasi occidentali il dato si ripete, in quanto l’accesso alla rete non è assolutamente libero e fruibile come si potrebbe pensare.

Vi è una questione generazionale e di istruzione circa la capacità di utilizzare gli strumenti informatici, e l’Italia con una popolazione tra le più anziane d’Europa ha già di suo un limite fisiologico di accessibilità. Questo denota che la difficoltà introdotta dalla digitalizzazione dei processi, non è solo di matrice economica, ma è assai più complessa. La natura dell’esclusione digitale riguarda parecchie categorie di persone, dai disabili ai meno abbienti, dalle persone con basso livello educativo agli stranieri. Ciò potrebbe dare origine a circoli viziosi che possono dischiudere scenari poco rassicuranti. Vista la velocità di implementazione delle connessioni e delle strumentazioni necessarie per rimanere funzionalmente connessi, basta semplicemente che si presenti una delle problematiche qui esposte per essere tagliati fuori dal processo. Il lavoro ad esempio, che diviene sempre più dipendente dalla tecnologia informatica tende ad escludere chi per età o livello culturale non riesce a tenere il passo. A ciò fa eco l’accesso ai servizi alla persona o ai rapporti con l pubblica amministrazione, che stanno sistematicamente dismettendo o scoraggiando il rapporto frontale a vantaggio dell’interfaccia multimediale.

Se pensiamo quindi che la filosofia smart si basa quasi tutta su rapporti mediati dalla tecnologia informatica cominciamo a capire come al di là delle buone intenzioni, vi è una consistente fetta di società che viene ad essere fisiologicamente estromessa dalla versione 4.0 del “paese delle meraviglie”. Abbiamo detto in apertura dell’articolo, che la questione tecnologica è uno degli aspetti sui quali si può evidenziare l’esclusione sociale. L’altro è quello più vecchio e rodato, ossia quello della segregazione sociale da un lato o dell’allontanamento fisico dall’altro, di quelle categorie indesiderate o che conviene tenere nel limbo dell’eterna necessità.

Non serve rievocare solo la categoria dei paria, quella delle “minoranze culturali” o dei poveri tra i poveri, non perché non abbiano un posto di rilievo in questa trattazione, ma proprio perché sono categorie evidenti, forse non riescono ad essere significative del processo e della sua subdola modalità di attursi. Se prendiamo la categoria degli anziani, siano essi più o meno colti o più o meno abbienti, abbiamo individuato una categoria trasversale che si ritrova (salvo rare eccezioni) ad essere incapace di agire nella contemporaneità smart. A meno di non poter contare su un qualche tipo di assistenza, parentale, amicale o a pagamento che sia, in molti non riescono a barcamenarsi nei gorghi digitali delle città sempre più proiettate verso un futuro immateriale.
In un momento di crisi pandemica, nella quale il digitale sta fornendo risposte lì dove i rapporti sociali, usurati o polverizzati, non forniscono più una rete di mutuo aiuto, la trappola della discriminazione digitale si è chiusa su una parte del tessuto sociale. Isolati e dimenticati, ma soprattutto spesso impossibilitati nel muoversi tanto a causa delle restrizioni, tanto a causa della mancanza di mezzi propri di locomozione, si è potuto osservare come la rincorsa della scappatoia tecnologica abbia lasciato indietro parecchie situazioni familiari o individuali. Scolari e studenti tagliati fuori dalla didattica alternativa digitale, lavoratori senza specializzazione alcuna tagliati fuori dal comparto produttivo; lo smart working non si applica a tutto. Da qui l’evidenza che il sogno cibernetico della connettività a tutto tondo e della città a portata di click, forse persisterà nella realtà cinematografica o degli spot televisivi, ma la realtà è altra cosa dalla fiction.
Fin qui si è discusso delle ricadute o degli effetti collaterali dell’accelerazione telematica, ma rispetto a quanti si accennava in apertura circa il senso stesso dell’esclusione, c’è da dire la capacità pervasiva del meccanismo di riproduzione capitalista, lì dove non impone, sussume come domanda implicita. Fuori dal circuito del lavoro specializzato e connesso alla rete o da questa direttamente dipendente restano i bisogni sempre maggiori di assistenza alla persona che a quelli sanitari si aggiungono quelli di interfaccia con la digitalizzazione; prima domanda indotta. A questi si aggiungono tutti i lavori non digitalizzabili e attualmente non eseguibili da robot, che risultano essere i più gravosi e i meno remunerati. Qui si chiude il circuito con il più vecchio principio di esclusione sociale, quello dell’esercito di manodopera di riserva.

La progressione della robotica prima o poi forse creerà meccanismi che sturano cessi, asfaltano strade raccolgono arance o smistano rifiuti, ma fino a quel momento serve ancora la mano abile di qualche povero “sfortunato” che non ha possibilità di fare nient’altro. Un altro luogo comune da smontare è quello della sfortuna, che è forse quello sicuramente più ipocrita se non quello più meschino. In un sistema nel quale l’alta specializzazione è onerosa e diventa un privilegio per pochi, quando non è un debito trentennale per chi vive nella “terra di mezzo” della semi defunta middle class, è chiaro che chi sta sotto una certa fascia di reddito ben definita ha la sua vita segnata da una linea da seguire e dalla quale non ci si può allontanare. La tecnologia mirabolante che promette il paese del bengodi è e rimane un mezzo di produzione saldamene nelle mani di pochi soggetti.

Quando in apertura si accennava che l’esclusione sociale ha un suo dato di permanenza e un suo epifenomeno si intendeva esattamente questo, da un lato vi è la storica e atavica concentrazione dei mezzi di produzione nella disponibilità dei soliti noti, solo che ora invece di indossare palandrana, tuba e monocolo usano flip flop, camicette hawaiane e si fanno le lampade. Dall’altra chi questi mezzi non li ha, ma con una differenza sostanziale rispetto ai tempi andati, oggi si ha l’impressione di possederli, perché chiunque può accroccare qualcosa per produrre la qualunque, ma poi è immediatamente risucchiato da una nicchia di mercato e per vendere il suo prodotto (merce o servizio che sia) produce dati o si serve della rete che tutto è fuorché libera, permeabile e democratica. Tutto il resto della società non ha neanche questa illusione.

Allora forse la vera furbata, o il vero concetto di smart visto in chiave meno cialtrona e più orientato alle istanze sociali, non è quello di connettere la gente da remoto o farfugliare neologismi dal sapore vecchio e rancido della ben nota zuppa capitalista, ma forse sta nell’incontro reale col prossimo. Con questo non voglio aprire spiragli di sorta a quell’inutile e melensa retorica primitivista più inutile forse della narrazione tecnofila, ma intendo lanciare uno spunto di riflessione che fa eco ad una serie di questioni già aperte in un passato più o meno recente, sull’esigenza di leggere il mutamento e dare risposte di incompatibilità con il sistema.[5]

JR

NOTE

  1. In fase di pubblicazione un contributo analitico sugli Stati Uniti nel quale assieme a Lorcon cerchiamo di definire alcuni fenomeni, tra questi i processi di trasformazione socio-economici a scala urbana, definendone i principi e cercando di formulare delle ipotesi sui futuri scenari più probabili.
  2. JR, Umanità Nova, anno 101, n° 01, 2021, “Green e smart cities, recovery funds e green deal: Contraddizioni e speculazioni. url: https://www.umanitanova.org/?p=13357
  3. Chomsky, N., & Herman, E. S. (2008). “La fabbrica del consenso. Ovvero la politica dei mass media” (Vol. 9). Il saggiatore.
  4. https://www.malanova.info/2020/05/13/automazione-robotica-e-intelligenza-artificiale-cambieranno-per-sempre-il-lavoro-che-non-ce/
  5. JR e Lorcon “Percorsi di incompatibilità”, Umanità Nova, n. 15, 16,17 anno 99 – 2019 https://www.umanitanova.org/?p=10080

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