Paolo Pachino Andolina
Resistenza e rivoluzione in Rojava – Diario di guerra e di vita
Milano, Zero in Condotta, 2020
Le lotte, gli scioperi, i processi di liberazione e ovviamente le rivoluzioni: per gli anarchici e le anarchiche farsi attraversare dalla storia, comprenderla, analizzarla e quando e dove è possibile indirizzarla è un compito importante, quasi un dovere etico. Perché da questi processi dobbiamo farci attraversare e, in maniera dialettica e non dogmatica, con questi processi interagire. È un esercizio che è ovviamente razionale e intellettuale, visto che fa i conti con la teoria politica, le tattiche di lotta, le strategie per cambiare il mondo. Ma è anche una dimensione sentimentale, perché in ognuno ed ognuna di noi stimola sogni, gioie, desideri e, spesso con eguale intensità, anche paure, tristezze, ansie, angosce.
Nella sana smania di capire, osservare e comprendere, ci concentriamo troppo spesso sul primo aspetto, come se tutta la parte emotiva, bella o brutta (e spesso bella e brutta insieme e nello stesso tempo) fosse meno importante, poco interessante, per nulla da divulgare o raccontare.
Quando Paolo Pachino ha inviato al collettivo di Zero in Condotta il suo manoscritto ci siamo subito accorti che era, anche nella sua iniziale molteplicità di piani, qualcosa di estremamente originale e prezioso: perché sin da subito metteva il lettore in contatto con un militante generoso e coraggioso che, colpito da quanto stava accadendo in Rojava, con quegli avvenimenti ha interagito provando a capirli, andando in loco a studiarli ed approfondirli ma soprattutto abbracciandone la causa in una maniera che sin dalle prime pagine ci è apparsa proprio piena e completa, nel senso di razionalmente convinta e sentimentalmente coinvolta.
Insieme a lui abbiamo scelto di trasformare il racconto in diario: ci sembrava il modo migliore di seguire il flusso degli eventi e la modalità più efficace perché ognuno ed ognuna, leggendo, potesse connettere gli avvenimenti storici con le emozioni e gli stati d’animo personali.
Dal primo viaggio in Rojava alla liberazione di Kobane, dall’intensità emotiva del Newroz alla tristezza orgogliosa e dignitosa della famiglia di una giovane martire, dalla monotonia delle esercitazioni militari all’angosciante paura della morte sotto i bombardamenti, dal terribile dolore per un compagno ucciso all’affascinante fatica di imparare a stare dentro al Tekmil, l’assemblea quotidiana dei combattenti. E ancora: la nascita del battaglione internazionale, il piacere di vivere a contatto con una parte di umanità in lotta e con il sogno ostinato e tenace di cambiare il mondo, la rabbia per gli assassini al soldo di Erdogan e la non proprio memorabile esperienza nelle carceri turche. Il diario, di guerra e di vita, di Paolo Pachino racconta tanti avvenimenti, di importanza internazionale e persino storica e di piccola vita quotidiana, di contatti con un mondo che ha sfidato poteri e tradizioni per “inventare” qualcosa di nuovo e diverso e che in questa sfida ha trovato sostegno e appoggio da tanti compagni e compagne che da ogni parte del mondo sono arrivati in Rojava per dare il loro contributo, come dice Paolo nell’introduzione, “con armi, penne, telecamere, progetti ecologici o semplicemente con la loro presenza”.
A noi di Zero in Condotta è parso bello e vero che dallo scandire delle giornate emergesse l’umanità del militante, quello che ha voglia di cambiare il mondo e paura di annegare nelle acque dell’Eufrate, che ammira gli sforzi dello YPG/YPJ e che si annoia per la monotonia delle esercitazioni. E che soprattutto, anche contro una certa immagine da guerrigliero duro e puro che in occidente sembra molto spesso affascinare tanta parte della sinistra rivoluzionaria, afferra il fucile e si prepara ad usarlo avendo in quel preciso momento la chiara consapevolezza che la guerra fa schifo e che il militarismo è un nemico spietato, che la rivoluzione ha spesso bisogno delle armi ma che la loro utilità sarà nulla se contemporaneamente non viaggeranno idee, sogni, desideri di un mondo nuovo, cioè soprattutto diverso e migliore di quello in cui viviamo oggi.
Di fronte all’immagine del rivoluzionario barricadero, schioppo in spalla e nemico nel mirino, che pure è stato e forse sarà una dolorosa necessità, ci piace molto di più pensare all’immagine di Paolo che, raggiunto armato un piccolo villaggio e circondato immediatamente dai bambini, pensa istintivamente a come nascondere il fucile per non spaventare i piccoli e per non esercitare, attraverso la polvere da sparo, forme di potere che ben poco avrebbero di nuovo e di diverso da ciò che normalmente fanno soldati e polizie.
Oltre che di guerra e di vita, il libro di Paolo è anche un diario di gioia e di dolore. Racconta l’entusiasmo di tanti incontri, la bellissima fatica di mettere in discussione ruoli di potere e potere di genere, le appaganti sensazioni che si provano, prima e oltre le parole e la lingua, quando ci si sente in sintonia con uomini e donne che lottano e sognano come te. Ma racconta anche lo straziante dolore di veder morire compagni e compagne che con te hanno condiviso quel sogno e quella battaglia e che anziché un mondo nuovo hanno trovato la morte subendo spesso, oltretutto, oltraggi e barbarie sul loro stesso cadavere. È in quei momenti che è necessario ricordare a sé stessi, quasi urlando, che non sei lì per vendicarti, per ricambiare lo stesso dolore ad altri esseri umani, ma esattamente per il motivo opposto, perché vuoi che queste cose finiscano e non riappaiano mai più. Ed è lo stesso dolore, un po’ paradossalmente e un po’ no, che di fronte alla morte di compagni e compagne a cui volevi bene, non ti fa rispondere all’umanissima domanda “ma chi me l’ha fatto fare?” sognando un bar di Torino od una spiaggia della Sicilia. È un dolore, anzi, che rilancia i motivi del viaggio e richiama alla mente le ragioni del tuo impegno politico, quelle che sono poi, in fondo e davvero, le grandi ragioni che guidano la tua esistenza.
È in questo modo che Paolo ha superato il dolore della morte ed è rimasto nel nord della Siria a piangere ma anche a lottare e sognare. Ed è un bel modo, pensiamo, per trasmettere al mondo la forza degli ideali e di ciò in cui si crede.
Sarebbe bello se Paolo, che la giustizia italiana ha definito pericoloso perché “potenzialmente” in grado di esportare da noi quanto appreso in Rojava, lo fosse davvero. Significherebbe aver raggiunto l’obiettivo: probabilmente davvero “pericoloso” per il potere, di trasmettere ai poveri, ai lavoratori, alle donne e a tutti e tutte le sfruttate che provare a lottare è giusto e possibile e che nel farlo è fondamentale non dimenticare la propria umanità.
[Il ricavato delle vendite di questo libro è destinato alla Mezzaluna rossa curda].
Alberto Piccitto